Domenica “della parabola della zizania”
Continuiamo la lettura del discorso parabolico di Gesù nell’evangelo secondo Matteo. Dopo la parabola del seminatore e la sua spiegazione, eccone un’altra riguardante sempre la semina. Ma se nella prima l’accento cadeva sui diversi terreni nei quali cadeva il buon grano, qui invece l’attenzione va all’oggetto della semina: buon seme o cattivo seme.
Nella narrazione il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo ma mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. Così accade nella vita degli uomini e nella storia del mondo. C’è una semina di grano buono, che viene fatta di giorno dal contadino nel suo campo per ottenere frutto, un frutto abbondante e buono. A volte però accade che qualcuno faccia un’altra semina: la fa di notte, di nascosto, perché sa di compiere un’azione malefica. Egli semina zizzania, erba che non dà frutto ma sfrutta il terreno e finisce per soffocare il buon seme. Così, a un certo momento della crescita del grano, appare anche quest’erba infestante. Allora il campo non è più una speranza di buon raccolto, ma appare minacciato, sicché il faticoso lavoro non darà il frutto previsto. Questa scoperta sorprende e rattrista il contadino: Come mai? Perché? Sono domande che riguardano il male presente accanto al bene. A un certo punto della nostra esistenza anche noi scopriamo la presenza del male: chi lo ha introdotto in noi e intorno a noi? È un’esperienza anche dolorosa, che richiede un discernimento su di noi e sulla nostra vita: abbiamo accolto la parola di Dio, l’abbiamo meditata e custodita, abbiamo anche tentato di realizzarla (cf. Mt 13,22-23), ma ecco apparire il male come opera delle nostre mani.
È anche l’esperienza della comunità cristiana, della chiesa poiché di essa fanno parte forti e deboli, giusti e peccatori, fedeli e infedeli. Non è stata così anche la piccola comunità di Gesù? Al suo interno vi è chi ha tradito, chi ha rinnegato, chi era pauroso e vile, chi è fuggito. Una chiesa di «puri», una chiesa settaria: è la tentazione ricorrente di ogni comunità animata da un grande desiderio di perfezione. Già ai tempi di Gesù, Giacomo e Giovanni avrebbero voluto far discendere un fuoco dal cielo per distruggere i samaritani inospitali (Lc 9,54). Nella parabola della zizzania emerge un atteggiamento analogo: «Vuoi che andiamo a strapparla via?». «No, dice Gesù, perché non succeda che sradichiate con essa anche il grano…». Il padrone del campo, dunque, si preoccupa soprattutto della salvezza del grano: si oppone all’iniziativa dei suoi servi perché vuol dare al buon seme tutte le possibilità di crescere. Essi sono colpiti dall’abbondanza della zizzania, mentre lui vede in primo luogo le promesse del grano. Quaggiù, nessuno può avanzare la pretesa manichea di classificare tutte le cose in due categorie ben distinte: bene e male, verità ed errore. L’eresia stessa può portare in sé una parte di verità e la buona dottrina può contenere qualche errore. Si può sentire la presenza dell’angelo e nello stesso tempo subodorare quella del demonio.
Con le sue ambiguità e il suo carattere composito, la situazione presente è il campo della libertà dei cristiani, in cui si compie il difficile esercizio del discernimento. Si tratta dunque di congiungere, con un grande ottimismo spirituale, due atteggiamenti apparentemente contraddittori. La decisione: voler essere buon grano, con tutte le proprie forze, e quindi prendere le distanze dal «mondo» e dalle sue seduzioni, e la pazienza: sapere che è meglio una Chiesa che sa essere lievito nella pasta, che non teme di sporcarsi le mani lavando i panni dei suoi figli, piuttosto che una chiesa di «puri», che pretende di compiere prima del tempo una scelta fra i chiamati al regno. Se bisogna odiare i vizi, bisogna farlo amando sempre le persone. Allora il piccolo seme perduto nel campo del mondo germoglierà e crescerà a poco a poco, fino a diventare l’albero immenso, frusciante di uccelli, del regno. Solo nel Signore possiamo conoscere e crescere secondo la Sua volontà. La pagina evangelica è decisamente contro una lettura superficiale della Bibbia (dei salmi specialmente) dove alcuni potrebbero ricavare, forse, l’impressione di un Dio impaziente, che «brucia le tappe». Gli appelli alla vendetta sono assai frequenti (1 Re 18,40: «40Elia disse loro: “Afferrate i profeti di Baal; non ne scappi neppure uno!”. Li afferrarono. Elia li fece scendere al torrente Kison, ove li ammazzò»; Sal 82 e 108). Ma i passi più notevoli della Bibbia smentiscono questa impressione. Elia, pieno di zelo geloso, comprende, a sue spese, che Dio non sta nell’uragano o nel terremoto, ma «nel rumore di silenzio sottile» (trad. letterale), o comunemente tradotto nel soffio del vento più delicato (1 Re 19,9.13). Giacomo e Giovanni si sentono rimproverare per il loro desiderio di far cadere la folgore sui Samaritani che non accolgono Gesù (Lc 9,51.55; Mt 26,51).
La Scrittura è il libro della pazienza divina che sempre differisce il castigo del suo popolo (Es 32,7-14). I profeti parlano di collera di Dio. Ma la collera non è l’ultimo e definitivo momento della manifestazione divina: il perdono vince sempre. Dio è ricco di grazia e di fedeltà ed è sempre sollecito a ritirare le sue minacce quando Israele si incammina nuovamente sulla via della conversione (prima lettura). Chi legge dunque le situazioni come queste narrate nell’evangelo, assomiglia ai servi della parabola. i quali, vista la situazione del campo, interrogano il padrone sul grano seminato; e saputo che un nemico ha compiuto l’operazione di semina della zizzania, propongono di estirpare quest’erba infestante. Ai loro occhi tale separazione è necessaria affinché il grano possa crescere senza venire privato di sostanze vitali e di spazio. Ma il padrone ha un’altra ottica: quella della pazienza, dell’attesa paziente di un tempo in cui si possa separare l’erbaccia dal buon grano senza nuocere a quest’ultimo. Egli sa che nel desiderio di sradicare il male c’è il rischio di sradicare, o per lo meno di destabilizzare, anche il bene. Occorre da parte del padrone pazienza e da parte del grano buono un esercizio di mitezza, che accetta accanto a sé la presenza di piante cattive. Certo, verrà l’ora della mietitura, del giudizio – come Gesù chiarisce meglio nella spiegazione della parabola richiestagli dai discepoli –, e allora vi sarà la separazione, perché il pane sarà prodotto con il buon grano, mentre la zizzania sarà bruciata: ma nel frattempo c’è bisogno di attesa paziente e di mitezza. L’intransigenza, il cercare la purezza a tutti i costi, la rigidità di volere una comunità composta tutta di giusti è pericolosa, perché i confini tra bene e male, tra giustizia e ingiustizia a volte non sono così netti. Questa prima parabola è un ammonimento sul nostro stile di vita ecclesiale, chiedendo quella pazienza che sa rinviare un atto legittimo anche da parte di chi ne è competente, come i mietitori, e rinviarlo all’ora che non ci appartiene, quella del giudizio. Sì, per i credenti ci sono tentazioni al male proprio quando “vedono” il bene: intolleranza, partigianeria, integralismi, militanza contro… È la tentazione del catarismo: solo puri! Poi Gesù propone un’altra piccola parabola: “Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo”. Qui egli richiama l’attenzione sulla piccolezza del seme di senape: una pianta dell’orto, un arbusto il cui seme è piccolissimo, minuscolo. Eppure, se è seminato nel campo, esso cresce, cresce fino a diventare una pianta con rami sui quali gli uccelli possono fare i loro nidi. L’attenzione è posta sul momento iniziale e su quello finale, e dunque il messaggio va colto nell’opposizione “il più piccolo/il più grande”. È sorprendente, in un certo senso anche scandaloso, ma è così: il regno dei cieli appartiene a realtà che non s’impongono per grandezza, quasi non si vedono, come il seme di senape. All’inizio la realtà è veramente piccola, e gli uomini non sembrano tenerne conto né avere la possibilità di apprezzarla. Eppure piccole realtà hanno inscritta dentro di loro la capacità di essere una forza, di instaurare una dinamica che si manifesta in una crescita apparentemente prodigiosa, soprattutto se si considera la piccolezza iniziale del seme. Gesù mostra di essere consapevole che quell’inizio della predicazione del Regno quasi non era osservabile, ma sa anche che ci sarà una crescita e la presenza del Regno si farà sentire quando, cresciuto come un albero, offrirà i suoi rami alle genti, ai non ebrei, ai pagani, perché anch’essi possano dimorare sui rami del Regno. E si faccia attenzione: la dýnamis (cf. Rm 1,16), la potenza impercettibile del seme di senape, che lo fa diventare un albero, non si identifica con i cristiani, ma con il Regno, sicché l’albero non è la chiesa ma il Regno. E ancora, non è l’albero che dà la forza al seme, ma è il seme che con la sua forza si sviluppa in albero! Così accade per il regno dei cieli: nell’oggi dei credenti appare sempre una realtà piccola, ma nel futuro sarà manifestata la sua grandezza. Il discepolo deve guardare al contrasto tra l’oggi e il futuro, ma deve anche capire che il futuro dipende proprio dalla piccolezza dell’oggi. La parabola è dunque rivelazione, alza il velo sulla vicenda del Regno e dichiara che i criteri di grandezza e dell’apparire, criteri mondani, non devono essere applicati alla storia del regno di Dio: la forza del Regno non va confusa con il fascino della grandezza, declinabile volta per volta come numero, prestigio, potere. Nella stessa prospettiva segue la parabola, o meglio la similitudine del lievito, tesa nuovamente a mostrare il rapporto piccolo/grande: un pizzico di lievito fa gonfiare “tre misure”, cioè circa quaranta chilogrammi di pasta! Nelle lettere paoline c’è un’immagine negativa del lievito (cf. 1Cor 5,6-8; Gal 5,9), ma qui la similitudine rovescia, capovolge tale concezione, e così l’attenzione del discepolo è catturata ancor più efficacemente: anche il bene è contagioso, non solo il male. D’altra parte, se nella parabola precedente l’albero cresciuto a partire dal seme era visibile, qui il lievito scompare nella farina, quasi a dire che quella forza entrata nella pasta la fa lievitare proprio scomparendo in essa. Conosciamo bene questa immagine, sovente citata anche nelle omelie e nella catechesi, ma occorre essere vigilanti e intelligenti: non si ceda alla facile metafora dei cristiani come lievito del mondo, perché il lievito è il Regno, è lui la forza che fa fermentare il mondo, non i cristiani. Questi non sono né il lievito né la pasta, ma sono quelli che il lievito ha già fatto fermentare per essere “pane cotto”, spezzato per il mondo e offerto al Signore.
Dall’eucologia:
Antifona d’Ingresso Sal 53,6.8
Ecco, Dio viene in mio aiuto,
il Signore sostiene l’anima mia.
A te con gioia offrirò sacrifici
e loderò il tuo nome, Signore, perché sei buono.
Nell’antifona d’Ingresso (Sal 53,6.8, SI) con l’Orante i fedeli all’inizio della celebrazione riconoscono che il loro unico aiuto sta nel Signore (Sal 117,7), sempre operante, che li accoglie sempre e li difende (v. 6). Perciò con animo devoto vogliono offrirgli il sacrificio divino, e confessare al mondo il Nome suo, nel quale si trova l’unico bene (51,11), poiché è l’unico Nome che salva (v. 8).
Canto all’Evangelo Cf Mt 11,25
Alleluia, alleluia.
Ti rendo lode, Padre,
Signore del cielo e della terra,
perché ai piccoli hai rivelato i misteri del Regno.
Alleluia.
L’alleluia all’Evangelo è Mt 11,25, adattato e già usato all’Evangelo della Domenica XIV. È la benedizione del Figlio al Padre per aver rivelato i Misteri del Regno solo ai piccoli. Il testo ovviamente va riletto nel contesto della pericope evangelica: la parabola del seminatore (letta domenica scorsa) introduce il discorso centrale dell’evangelo di Matteo, mettendo in evidenza il tema della rivelazione dei misteri del Regno dei cieli (cfr. Mt 13,11), ovvero la presentazione della realtà nascosta dell’intervento divino in Gesù di Nazaret e la dinamica storica della sua crescita. Le tre parabole che seguono, infatti, sono abitualmente chiamate «parabole della crescita», in quanto presentano il mistero del Regno con immagini che presentano fenomeni naturali di crescita; tuttavia l’elemento che caratterizza le parabole di questa domenica è il contrasto. L’alleluia all’Evangelo richiama l’intermezzo redazionale (vv. 34-35) che può diventare la chiave di lettura di tutta la costruzione:
- viene dunque sottolineato che l’uditorio è la folla;
- che con essa Gesù non usa altro mezzo comunicativo che non sia parabolico;
- tale metodo trova riscontro in un versetto di un salmo [Sal 77 (78),2] che Matteo cita come detto profetico, per sottolinearne il valore di parola ispirata e relativa al Cristo.
Prosegue il paradosso di una salvezza nascosta agli scribi e ai farisei, ma rivelata agli umili che seguono Gesù, il Figlio eterno del Padre. L’intento di queste parabole è dunque una rivelazione e i destinatari privilegiati sono i discepoli: al v. 36a, infatti, la scena cambia, Gesù lascia la folla e si ritira in casa, solo con i suoi discepoli e a loro in privato «spiega». Il contrasto che noteremo nei racconti parabolici è già presente nella cornice narrativa che inquadra l’evento storico di Gesù.
Nel grande «discorso di parabole», dopo quella del seme della Parola, viene la parabola relativa al seme buono ed alla zizania, intervallata da altre due, del granello di senape e del lievito. Per la struttura e il contesto del brano evangelico si veda la Dom. XV. Tuttavia la seconda parte del «giorno delle parabole» di Matteo è una combinazione di materiale tratto da Marco, dalla speciale tradizione matteana e dallo stesso Matteo: la parabola del grano e della zizzania (13,24-30), la parabola del seme di senape (13,31-32), la parabola del lievito (13,33), i motivi per cui Gesù parla in parabole (13,34-35), la spiegazione della parabola del grano e della zizzania (13,36-43), la parabola del tesoro nascosto (13,44) e della perla (13,45-46), la parabola della rete da pesca (13,47-50), e la parabola del padrone di casa (13,51-52). Matteo ha utilizzato Marco per 13,31-32.34-35. Probabilmente ha composto personalmente le due spiegazioni (13,36-43.49-50). Il resto (13,24-30.33.44-48) è molto probabilmente da attribuire alla speciale tradizione che si trova solo in Matteo.
La parabola della zizania, ossia: il mistero della convivenza nel mondo dei buoni e dei cattivi. Questa parabola, di cui sarà data una esplicita interpretazione dal Signore in questo stesso «discorso» (vv. 36-43), ha per scopo principale di inculcare nei «figli del Regno» (v. 38a) la necessaria pazienza nel sopportare la presenza e la convivenza dei «figli del male» (v. 38c), e allo stesso tempo, la fede nel giudizio finale di Dio che assegnerà a ciascuno la sorte che si sarà meritata. La parabola è propria di Matteo: ad essa si avvicina in parecchi punti la parabola, propria di Marco, del seme che cresce senza che il contadino sappia come (4,26-29); ma il suo insegnamento specifico è diverso.
La lettura del libro della Sapienza ci offre un corposo contributo per inquadrare la pericope evangelica.
I lettura: Sap 12,13.16-19
Il libro della Sapienza, tardivo (tra il 50 ed il 30 a. C.) è prezioso, in quanto riflette e rilegge l’antica tradizione ebraica, e ne offre dense dottrine. Il cap. 12 esordisce con la dichiarazione che lo Spirito del Signore sta in ogni realtà, Spirito di bontà, per cui con giudizio giusto, infallibile, il Signore punisce in modo lieve, a poco a poco (vv. 1-2), dando luogo alla conversione del cuore sincera (v. 10) (v. 12). Poiché al Signore solo (Dt 32,39) stanno a cuore tutte le realtà create, di cui si cura assiduamente (6,8; 1 Pt 5,7), mostrando che tutti i suoi giudizi, ossia gli interventi operativi e soccorrevoli, sono assolutamente giusti (v. 13). Tale Giustizia proviene dalla stessa onnipotenza divina, e il Sovrano di tutto e di tutti nella sua immensità è per sua natura indulgente con tutti (cfr 11,24.27), è longanime senza limite (v. 16). Al contrario, a quanti restano increduli di fronte alla sua onnipotenza, mostra tutta la sua forza irresistibile (Es 5,2; 2 Re 18,35). Mentre a quelli che la riconoscono ma poi non seguono le sue vie, manifesta e rimprovera la loro temerarietà (v. 17). Nell’immensità della sua Potenza, pur potendo annullare chiunque, tuttavia emette giudizi miti, e il suo governo si attiene a molta moderazione. Egli guida i suoi figli con enorme rispetto, benché disponga di ogni potere su essi e su tutto (v. 18; Sal 113,10; 134,6; Dan 4,32). Così operando, ha voluto insegnare al suo popolo (Mt 5,44-45) che occorre essere giusti ed umani. Perciò si creò figli che vivano della buona speranza, la viva fede in Lui e nel giudicare e intervenire nella loro vita lascia sempre largo spazio alla conversione del cuore (v. 19; 11,24), il sincero ritorno a Lui che attende tutti.
II Salmo responsoriale: 85,5-6.9-10.15-16a, SI col Versetto responsorio (v. 5a): «Tu sei buono, Signore, e perdoni» ci fa invocare litanicamente il Signore soave e mite. L’Orante proclama al Signore e professa che Egli è per sua essenza soave e mite (v. 15; Es 34,6; Gioele 2,13; Sal 102,8; 144,8-9) e si comporta sempre con immensa misericordia verso quanti si rivolgono a Lui e Lo invocano (v. 5). Perciò ancora una volta l’Orante osa ricorrere a Lui con due suppliche epicletiche, per l’ascolto della sua preghiera insistente, a cui il Signore deve tendere i suoi orecchi (v. 6; 5,2; 129,2; 54,2-3). Per la sua soavità, il Signore è la meta di tutte le nazioni che ha creato (65,4; 64,3; Is 66,23; Zacc 14,26; Ap 15,4), e così esse verranno alla sua presenza per adorarlo e invocheranno il Nome divino per glorificarlo (v. 9). Infatti solo Lui è grande (76,14) e compie gesta mirabili (Dt 6,4; Is 37,16; 44,6-8; 45,5; 1 Cor 8,4-6) solo Lui (71,18). In nessun altro perciò le nazioni riconoscono il loro Signore (v. 10). Perciò l’Orante osa ancora supplicare il Signore con i titoli della sua Bontà: Gratificante e Tenero, Longanime e Multimisericorde (v. 15; vedi A.T., Domenica della SS. Trinità: Es 34, 4b-6. 8-9), affinché riguardi il suo fedele e mostri ancora una volta la sua misericordia infinita (v. 16; 24,19).
Esaminiamo il testo
24-30 Mentre il racconto parabolico risale sostanzialmente a Gesù di Nazaret, la spiegazione che viene dopo è considerata una creazione della comunità cristiana primitiva. La parabola si basa su una serie di contrapposizioni o antitesi tra il proprietario del campo e il suo avversario, tra il grano e la gramigna, tra il tempo presente della semina e della crescita e il tempo futuro della mietitura, tra il granaio dove finisce il grano e il fuoco dove è bruciata la zizania. Il motivo centrale del racconto sembra essere il dialogo tra il proprietario e servi, più esattamente l’impazienza di questi e l’atteggiamento paziente di quello. La parabola vuol evidenziare l’imprevidenza dei primi e la saggezza del secondo, che comprende come sia impossibile estirpare subito la zizania senza danneggiare anche il grano. Che cosa intendeva dire Gesù? Per trovare una risposta cerchiamo di ricostruire la specifica situazione della sua esistenza, nella quale collocare il racconto parabolico:
- Cristo aveva annunciato la venuta del regno di Dio;
- aveva anche compiuto i segni miracolosi che lo rendevano presente;
- l’ora decisiva della salvezza era risuonata nella sua attività messianica;
- una febbrile attesa aveva contagiato gli ascoltatori.
Secondo la parola dei profeti il messia avrebbe riunito intorno a sé una comunità di puri e di santi, dopo aver condannato i peccatori alla perdizione ultima. Un esempio è dato da Is 60,21-22: «21Il tuo popolo sarà tutto di giusti, per sempre avranno in eredità la terra, germogli delle piantagioni del Signore, lavoro delle sue mani per mostrare la sua gloria. 22Il più piccolo diventerà un migliaio, il più insignificante un’immensa nazione; io sono il Signore: a suo tempo, lo farò rapidamente». Al contrario tuttavia nessuna comunità di santi era stata da lui costituita; né egli aveva condannato al fuoco eterno i peccatori, anzi li accoglieva con misericordia, rifiutandosi di fare il giudice definitivo separatore dei buoni dai malvagi. La crisi del Battista (cfr. 11,2-6) era causata appunto da questo suo sorprendente atteggiamento; lo stesso Giovanni Battista annunciava un Messia col ventilabro in mano per pulire la sua aia, raccogliere il grano e bruciare la pula (cfr. 3,12). Di fronte invece al ministero di Gesù, mite e umile di cuore (11,29), che non spezza la canna incrinata e non spegne il lucignolo fumigante (Is 42,3 applicato a Gesù in Mt 12,20), si poneva il problema della sua messianicità e la continuata presenza dei cattivi rendeva dubbia la presenza del Regno di Dio. Questa parabola dunque risponde a tali obiezioni sommerse e con un linguaggio apocalittico presenta l’imminenza della mietitura e l’inevitabile separazione e diversità di sorte; ma tutto questo è prospettato come evento futuro, fa parte del discorso che il padrone rivolge ai servi sull’atteggiamento da tenere nei confronti dell’erbaccia. La separazione finale è chiaramente annunciata, ma l’attenzione è posta sul presente: «Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura».
La pazienza è la nota che emerge dai contrasti fra il padrone e il nemico, il buon seme e la zizzania, la mentalità dei servitori e quella del padrone: ecco un mistero del Regno di Dio rivelato ai discepoli. L’umile presenza di Gesù, il seme della sua parola è in realtà l’intervento decisivo di Dio e la separazione è determinata dall’accoglienza o dal rifiuto di questa presenza, ma sarà palese, e drammatica, solo in futuro. La parabola di Gesù raccontata dalle prime generazioni cristiane trovò nell’ambiente ecclesiale il terreno adatto per una interpretazione di attualità, ma ancora oggi la Chiesa continua a sentire come uno scandalo la presenza al suo interno di buoni e di cattivi e corre sempre il rischio di un integralismo fanatico o di un qualunquismo disimpegnato. Gesù dovette fronteggiare dunque l’impazienza messianica dei suoi e lo fece con questa parabola, distinguendo fra il tempo presente, in cui buoni e cattivi vivono gomito a gomito nel mondo e il tempo futuro, l’ultimo, della separazione definitiva. Gesù rivela ai suoi «il mistero della pazienza», lasciando a Dio il compito del giudizio, senza dimenticare che tale giudizio sarà decisivo.
«Un’altra parabola»: con questa formula sono introdotte le tre parabole del primo gruppo (cfr. vv. 31 e 33) indirizzate alle folle, mentre le altre tre del secondo gruppo (del tesoro, della perla e della rete) che hanno per uditori i soli discepoli sono prive di ogni formula introduttiva.
«espose loro»: Dopo aver insistito all’inizio sul carattere pubblico dell’insegnamento di Gesù (vedi Mt 13,l-3a), la parte principale delle istruzioni di Gesù fino a questo punto (13,10-23) è stato un insegnamento privato ai discepoli. Dal punto di vista narrativo, il «loro» dovrebbe riferirsi ai discepoli di Gesù. Ma Mt 13,34 («Tutte queste cose Gesù disse alla folla con parabole») presuppone che il pubblico di Mt 13,24-33 sia appunto la folla.
«Il regno dei cieli è…»: con questa frase hanno inizio tutte e sei le parabole che, perciò, sono chiamate «del Regno». Naturalmente il paragone del «regno dei cieli» con una data realtà o situazione della vita di quaggiù tocca via via dei singoli aspetti della complessa realtà del Regno.
«è simile a un uomo che»: Il regno dei cieli è simile al quadro complessivo tracciato in Mt 13,24b-30, non al solo seminatore. Come in Mt 13,3b-9, il seme e il ciclo di crescita vengono usati per illustrare la natura del regno di Dio. L’espressione tipicamente matteana «il regno dei cieli» sta per «il regno di Dio».
25 «mentre tutti dormivano»: Dato che un motivo analogo si trova nella parabola del seme che cresce da solo (Mc 4,26-29), molti vedono in questa parabola di Matteo uno sviluppo o un sostituto della parabola di Marco. Le due parabole però danno ciascuna un quadro diverso del presente in attesa della pienezza del regno: crescita senza intoppi (Mc 4,26-29) e un misto di bene e di male (Mt 13,24-30).
«la zizania»: zizania è un vocabolo greco plurale che ha dato origine al nostro “zizzania”. È una graminacea i cui semi si coprono di una specie di muffa lievemente inebriante, donde il nome latino “ebriacum“.; i suoi chicchi, se misti al grano, ne rendono amara e malsana la farina. Il termine ebraico è zùn e quello aramaico zuna, che i rabbini associavano alla radice znh («commettere fornicazione») alla quale attribuivano gli eccessi sessuali nel mondo vegetale prima del diluvio. Il termine italiano più specifico è “loglio” e deriva dal latino, ma è stata la parola “zizzania” a vincere proprio sulla base dell’odierna parabola di Gesù. Si pensi all’espressione “seminare zizzania” da noi usata per definire l’opera di chi genera discordia e odio. Come in molte altre occasioni, Gesù attinge alla vita quotidiana dei suoi ascoltatori ai quali fa balenare il mistero di Dio attraverso paragoni, immagini e simboli desunti dalla loro esperienza. In questo caso rievoca un dato ben noto ai contadini: il loglio, in primavera, non si distingue dal frumento o dall’orzo; al tempo della mietitura, invece, diventa più riconoscibile perché più corto, sgraziato e senza spighe. La parabola diventa, così, facilmente trasparente. Il grano e la zizania, cioè il bene e il male, crescono insieme in un intreccio che l’uomo non è in grado di districare: è solo il Signore che lo potrà fare a suo tempo. Il bene e il male, i santi e i peccatori nella storia convivono gli uni accanto agli altri.
«Vuoi che andiamo ad estirparla»: C’è lo zelo ardente di chi vorrebbe fare giustizia da solo; non è diffìcile nello zelo di questi servi riconoscere l’attesa impaziente del giudizio escatologico, dominante in molti gruppi religiosi del giudaismo del tempo. Attesa che si faceva sentire sempre più forte alla vista del male trionfante nel «secolo» presente e spingeva i «giusti» a separarsene; tale il caso, almeno di nome, dei Farisei (= separati), tale in modo particolare il caso degli Esseni di Qumran che si erano rifugiati nel deserto e avevano intrapreso, quali «figli della luce», la loro «guerra» ai «figli delle tenebre» con il segreto intento di affrettare il «giorno» dell’ira purificatrice di Jahavè. Segni di tale impazienza non mancano né nella storia evangelica (cfr. Lc 9,54-55), né in quella della Chiesa primitiva (cfr. 2 Ts 2,2; 2 Pt 3,8-9; Ap 6,10).
Gesù, invece, invita a condividere la pazienza e l’attesa di Dio, a non essere fanatici giustizieri, invita a imparare dalla tolleranza divina che lascia al peccatore fino all’ultimo la possibilità della conversione (cfr. I lett. v. 19; Is 11,23). «C’è una tolleranza che è sinonimo di indifferenza; non è certo il caso della parabola, che parla di una tolleranza generata dall’amore» (di B. Maggioni, biblista).
«al tempo della mietitura»: La mietitura era un simbolo usuale nell’A.T. per indicare il giorno del giudizio ultimo: cfr. Is 17,4-6; 27,12; Os 6,11; Gl 4,13; ripreso anche dagli evangelisti: Mt 3,12; Mr 4,29; Ap 14,14-20.
31-32 La parabola del granello si senape, comune a tutti e tre i Sinottici, è riferita da Luca, insieme all’altra del lievito, nella sezione del «grande inciso».
Il concetto base della parabola sta nel contrasto; il grano di senape deve essere stato proverbialmente piccolo (v. 17,20), ma non è il più piccolo dei semi, nè la pianta (più propriamente un cespuglio che cresce fino all’altezza di 3-4 m) è particolarmente alta. È una parabola profetica, che rimanda a testi molto densi. Anzitutto a due parabole di Ezechiele: la prima 17,1-10 sulla deportazione di Joiachìn e l’incoronazione di Sedecia da parte di Nabucodònosor nel 597; a cui segue, dopo la spiegazione in prosa, l’annunzio della restaurazione futura relativa al Re messianico. Questi sarà come una piccola cima di cedro che il Signore pianterà e diverrà un albero imponente, in cui verranno gli uccelli a porre il loro nido, così che tutti gli alberi della foresta conosceranno il Signore, che abbatte i superbi ed innalza gli umili. La seconda (31,1-18) è simile, di segno contrario e conclusione analoga. Questa volta l’albero maestoso è il faraone re d’Egitto (sicuramente dal v. 10 in poi) che esagerando nella sua spropositata superbia fu abbattuto dal Signore per mezzo di Nabucodònosor.
Una terza parabola profetica che si può richiamare è quella di Dan 4,7-24. dove l’albero in cui vengono gli uccelli a fare il nido per la sua maestà è Nabucodònosor, anche lui abbattuto per la sua superbia. Altri esempi li troviamo nella profezia messianica di Is 10,33-11,1; Gdc 9,15; Bar 1,12.
33 Questa parabola, più domestica, si trova in Qumràn ed è narrata anche da Luca; come la parabola del grano di senapa illustra la crescita irresistibile del regno da modesti inizi. La similitudine è ripresa da Gen 18,6, dove Sara prepara il pane (impasta 3 sea di fior di farina circa 45 Kg!) per i Tre Personaggi che visitano Abramo. Il tema del lievito è ripreso diverse volte nel N.T. (cfr. Lc 13,20-21; 1 Cor 5,6; Gal 5,9), per la sua familiarità e per il suo facile significato.
«in tre misure di farina»: la quantità di farina impastata (circa 45 Kg) è esagerata per far risaltare meglio il concetto. La piccola quantità di lievito fermenta con potenza tutta la farina (leggi omelia 46. 2-3 di San Giovanni Crisostomo, vescovo).
34-35 In Marco questi versetti concludono la raccolta delle parabole, mentre Matteo pur seguendo l’ordinamento generale vi aggiunge altre parabole. Le parabole sono una forma di rivelazione, non di occultamento. Il concetto è ulteriormente sviluppato da una citazione di compimento (come ad esempio in 1,22-23). Il testo citato è indicato come parola di un profeta, mentre la fonte è il Sal 77(78),2, il cui autore è Asaf, chiamato il «profeta» che dichiara di voler comporre un mashal (un racconto, una parabola appunto), cioè un poema didattico allo scopo di narrare e spiegare l’azione misteriosa di Dio lungo il corso della storia del suo popolo: il sapiente salmista inizia la lezione chiedendo l’ascolto attento del popolo e annunciando la presentazione delle antiche vicende, eventi lontani e sepolti nella memoria. Proprio questo interessa l’evangelista: l’oggetto dell’annuncio è presentato col participio greco «kekrymména», cioè «cose nascoste» ed in queste cose Matteo vede adombrati i «misteri del Regno», rivelati ai piccoli-discepoli e tenuti nascosti agli intelligenti-farisei.
36-43 L’evangelista in questi versetti (propri di Matteo) dà alla parabola una spiegazione marcatamente allegorizzante, che fa pensare a una data di composizione posteriore e sembra rispondere ad un problema fortemente sentito nella Chiesa primitiva. Gesù lascia le folle, entra in casa e la sua parola è riservata ai discepoli. Il brano si divide in due parti: i vv. 37-39 sono una specie di arido vocabolario che identifica sette elementi della parabola; la seconda parte invece (vv. 40-43) è una sintetica descrizione di carattere apocalittico del giudizio ultimo. Matteo in tutto il suo evangelo mostra uno speciale interesse per il tema del giudizio.
La parabola della zizania, che in origine contraddiceva l’impazienza messianica del popolo e dei discepoli, diventa ora una presentazione del giudizio nel suo esito opposto di condanna e glorificazione, descritto con immagini stereotipate di marca veterotestamentaria (cfr. Dan 12,3).
Il centro di interesse viene spostato dal presente, che il racconto di Gesù intendeva come tempo di coesistenza tra buoni e malvagi, al futuro.
L’evangelista è proteso a scuotere i credenti della sua comunità dal torpore e dalla tiepidezza, invitandoli a vivere secondo la volontà del Padre espressa nel comandamento dell’amore del prossimo. L’appartenenza alla comunità non garantisce infatti la salvezza finale; l’evangelista combatte la falsa sicurezza dei cristiani che, fiduciosi negli elementi istituzionali e sacramentali della chiesa, trascurano concretamente la legge rivelata dal Signore.
Inglobate da questa «duplice» parabola, le immagini della senape e del lievito vengono poi ad aggiungere una nota particolare alla rivelazione del Regno: c’è un enorme contrasto fra il punto di partenza e quello di arrivo, cioè fra la piccolezza del seme e la grandezza dell’albero, fra la pochezza del lievito e la massa trionfante della pasta lievitata. Il mistero della crescita del Regno è segnato da questo contrasto, ovvero dalla imprevedibilità dei suoi sviluppi. Quello che i discepoli vedono è piccola cosa rispetto alle grandi aspettative; eppure è già tutto lì, come nella potenzialità del seme e del lievito, la gloria del Regno che deve manifestarsi, superiore ad ogni desiderio o attesa.
43 – «Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!»: Ed ecco finalmente la gloria dei beati. I giusti, i figli del Regno, il seme buono, brilleranno come il sole nel Regno (Dan 12,3). Essi sono trasformati dalla Luce divina increata, e la loro sorte annunciata (Sap 3,7; Pr 4,18), adesso avverata (1 Cor 15,41-42). E questa è la divinizzazione dei giusti, in uno dei suoi aspetti maggiori. La clausola finale, che ripete il v. 9 (ma anche 11,15), è: «L’avente orecchi, ascolti». Di più non è da dire se non lodare e adorare.
Antifona alla Comunione Sal 110,4-5
Ha lasciato un ricordo dei suoi prodigi:
buono è il Signore e misericordioso,
egli dà cibo a coloro che lo temono.
Nell’antifona alla comunione: (Sal 110,4-5a, I) ci viene ricordato che il Signore va glorificato e magnificato sempre, poiché stabilì il memoriale perenne delle sue «gesta mirabili» (Es 12,14; 13, 9). Queste proseguono nel loro effetto, essendo Egli Gratificante e Tenero (Es 34,6; A. T., Domenica della SS. Trinità). Tra queste gesta, la prima è il Cibo divino della Parola e del Convito, donato ai fedeli, i suoi timorati, che vogliono eseguire la sua Volontà, per essere con il Figlio i «figli del Regno» nella Grazia dello Spirito Santo, la Chiesa comunità di amore e seme di bene.
«La zizzania di oggi può domani trasformarsi in grano; l’eretico di oggi può diventare un fedele; chi è stato fino a questo momento un peccatore può unirsi ai giusti. Se la pazienza di Dio non venisse in aiuto alla zizzania, la Chiesa non avrebbe né l’evangelista Matteo — preso fra i pubblicani — né l’apostolo Paolo — preso fra i persecutori. Il discepolo Ananìa di cui parla il libro degli Atti cercava di strappare il buon grano quando, inviato da Dio a Saulo, accusava san Paolo dicendo: «Ho udito tutto il male che ha fatto ai tuoi fedeli». Il che significava: strappa la zizzania!
Perché mandare la pecora che io sono al lupo, l’uomo pio che io sono al maledetto? perché indirizzare un missionario della mia statura al persecutore? Ananìa vedeva Saulo, mentre il Signore vedeva già Paolo; Ananìa parlava del persecutore, mentre il Signore sapeva che si trattava di un missionario; l’uomo lo giudicava zizzania destinata all’inferno, mentre il Cristo vedeva in lui l’apostolo scelto da Dio, e già lo collocava nel granaio celeste».
(S. Pietro Crisologo, Sermone 97)
II Colletta
Ci sostenga sempre, o Padre,
la forza e la pazienza del tuo amore;
fruttifichi in noi la tua parola,
seme e lievito della tua Chiesa,
perché si ravvivi la speranza
di veder crescere l’umanità nuova,
che il Signore al suo ritorno
farà splendere come il sole nel tuo regno.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano