don Alessandro Dehò – Commento al Vangelo del 28 Giugno 2020

Perdersi (per amore) in un bicchiere d’acqua

Un letto, un tavolo, una sedia, un candeliere. Non serve altro per trasformare una stanza vuota in un grembo fecondo. La prima lettura è commovente.

Forse avere fede è proprio questa capacità molto materna di trasformare una grotta in una Natività, un deserto in un fiore, un lutto in una possibilità. Per inventare un Cenacolo prima del Tempo, per anticipare quella stanza del piano superiore dove un po’ di pane, un bicchiere di vino, una brocca d’acqua canteranno in eterno l’amore spudorato di Dio per la nostra umanità.

Un letto, un tavolo, una sedia e un candeliere, per non dire più che la vita è povera e che la fede è un dono per pochi che arriva dal cielo, la fede è la trasfigurazione del quotidiano.

La fede è rimboccare le coperte di un letto per donare riposo alle parole dei profeti, è creare uno spazio di silenzio, un Sacro Vuoto nella parte più preziosa del cuore per credere ancora al racconto della vita, per non smettere di ascoltarla la vita, anche se si è fatta vecchia e sterile, come per quella coppia che attendeva come manna il passaggio di Eliseo.

La fede non è altro che un tavolo, un altare quotidiano, un frammento di terra che cammina incontro al cielo, fede è saper star seduti a tavola. Niente di più, è apparecchiare alla vita, è invitarla a farci compagnia, è implorare la storia, che si fermi, che ci parli, è non aver vergogna di mostrarci bisognosi, è stare sulla soglia della tenda, nell’ora più calda del giorno, in attesa di qualcuno che ci regali il suo sguardo sulla vita. Fede è apparecchiare la tavola ogni giorno, con la cura del particolare, è sedersi a spezzare il pane della compagnia ma anche quello amaro del fallimento, è non rifiutare nemmeno il boccone del traditore perché non bisogna aver paura della vita mai, perché in ogni pezzo di pane c’è l’incarnazione di un Dio che chiede di trasformarci in suo corpo.

La fede è un gesto artistico e creativo, la sedia diventa una preghiera di legno, l’invito alla sosta e il candeliere un atto di coraggio, che venga fatta luce, che venga alla luce la vita.

Eliseo diventa voce della promessa di un figlio, e pare, ad una lettura superficiale che il miracolo sia intervento divino dall’alto invece no, miracolo è che una donna vecchia e senza figli sia stata capace di trattenere per tanto tempo la luce tra le dita, così tanta da saper illuminare il quotidiano, una luce così intensa da trasformare una stanza vuota in un grembo di vita. Il miracolo è quello di una donna che non ha smesso di fare l’amore con le cose.

La fede è saper libare la luce da ogni cosa.

Basta un bicchiere di acqua, in fondo, lo dice bene il vangelo, basta un bicchiere d’acqua per hi ha imparato ad ascoltare la vita. Per chi ha imparato la sete di ogni essere vivente. Ma devi aver dimenticato la banalità, non devi credere che un letto, un candeliere, una sedia, un tavolo, un bicchiere siano solo oggetti, devi liberare la luce che si portano dentro, devi accorgerti che ogni cosa è più di quel che appare, che la funzione manifesta può essere solo un alibi per iniziare ad inventare nuove relazioni, che una cosa non si esaurisce rispondendo al nostro bisogno. Neanche un figlio.

Ecco forse la fede è proprio questo, smettere di sentirsi il centro del mondo, la misura delle cose e fidarsi, creare le condizioni affinché la vita parli e si racconti e ci trasformi. Lasciare libere le cose di essere più di quel che mi appaiono, più di quel che mi servono. Accogliere in una stanza al piano superiore e ascoltare.

E allora madre e padre possono essere etichette care ma povere, minime e forse rischiose. Perché quei due corpi che ci hanno messo al mondo sono molto di più. Sono luce da liberare.

E io vorrei avere un tavolo, una sedia, un candeliere, un letto per trasformare il tempo in stanza superiore, un grembo capace di ascolto. Vorrei far sedere mamma e papà, e imparare a rimetterli al mondo, nel mio grembo, imparare ad ascoltarli per accorgermi di loro, accoglierli e stupirmi di tutta la luce che si portano dentro, perché ogni madre è anche figlia, e innamorata, e sorella, e donna. Perché ogni madre è ciò che è e ciò che è stata non solo per me. Avere fede è liberarsi dalla vergogna, dalla paura, dal pudore che non ci permettono di ascoltare. Quanto vorrei avere ancora un bicchiere d’acqua per quell’uomo che è stato anche mio padre ma che non è stato solo mio padre. Amare Cristo più dei genitori non è un atto stupido di competizione ma è il regalo evangelico della libertà. Amare così tanto la libertà da non ridurre i nostri affetti ad un ritratto ad una dimensione. La pagina di Vangelo di oggi è invito a liberare la luce che chi amiamo si porta dentro.

Aver fede è sperare di avere genitori che non ci vedano sempre e solo come figli. Che sappiano amare la libertà così tanto da vedere in noi anche uomini e donne, santi e peccatori, originali narratori del volto di Dio. Noi non siamo solo ciò che gli altri credono di sapere di noi.

Ama e lascia andare, ama e sciogli dal ruolo, illumina le cose, i volti, gli eventi, lascia che raccontino l’inedito, non disarmare la sorpresa, rendi grembo accogliente ciò che la paura può soffocare nella sterilità.

Aver fede è atto di libertà, è far cantare la luce che pulsa sotto la scorza di ogni cosa, dal tavolo al padre, dalla sedia alla madre. Un bicchiere di acqua racchiude la luce dell’Universo.

Aver fede è atto di libertà, e allora prendiamo la nostra croce, liberiamoci dalla paure e inchiodiamoci alla vita, liberiamo il bisogno d’amore che ci portiamo dentro, perdiamoci per gli altri, regaliamoci la saggezza di chi perde il controllo, innamoriamoci, usciamo dai margini, impariamo a camminare il profilo sottile tra vita e morte, tra perdersi e trovarsi, accogliamo ogni cosa di noi, senza condanna ma con la solennità che tutte le cose si meritano, alleviamo lo stupore, accompagniamo nella stanza superiore ogni sussulto del cuore, ogni sbavatura, qualsiasi entusiasmo.

Liberiamo la luce, perdiamo la scorza della vita, offriamo un bicchiere di acqua fresca ad ogni parte di noi stessi. Impariamo ad abitare la stanza superiore, impariamo l’accoglienza, innamoriamoci dell’ascolto.  Liberiamo la luce.


AUTORE: don Alessandro Dehò
FONTE: Sito personale
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