La pericope evangelica che la Liturgia ci offre questa settimana è aperta a innumerevoli spunti.
Tuttavia il messaggio che immediatamente ci raggiunge nel cuore, è quello del conforto.
Il Signore è sempre con noi: nulla dobbiamo temere, poiché Egli non ci abbandona mai (Cf. Sal 27: «Il Signore è mia luce e mia salvezza: di chi avrò timore? Il Signore è difesa della mia vita: di chi avrò paura?»).
Tuttavia non è facile ancorarsi a questa Roccia, che fisicamente e con le percezioni sensoriali risulta impercettibile e inafferrabile.
E non solo il lettore, o lo scrivente, trovano questa quotidiana difficoltà: anche gli uomini di Chiesa, i consacrati, provano lo stesso: tutti, infatti, siamo nella condizione fragile di essere umani.
La fede, ovvero la fiducia in Gesù Cristo, è un cammino, un percorso, un continuo avanzare e procedere lungo la strada verso Lui: con cadute ripetute; ma con ripetute «risurrezioni» (in greco «risorgere» si dice anístemi, che tecnicamente significa «stare su/stare in piedi/alzarsi»).
Ma è proprio qui il punto: l’«impercettibilità sensoriale» del Signore, che spesso, nelle situazioni di fatica e sofferenza, ci capita (lasciateci passare l’espressione forte) di maledire, in realtà è l’amore più grande che ci possa essere: invero il Signore non rinnega mai il dono più grande che ci ha fatto, ovvero la libertà. Ed è proprio in virtù di questa che Egli non viene a forzare l’uomo; non viene a costringerlo, affinché quest’ultimo ami a sua volta, liberamente e non per costrizione, il suo Creatore.
Quale amore, invero, senza liberta? – (Dopo dodici mesi di noviziato, pieni di pentimenti e di ripentimenti, si trovò al momento della professione, al momento cioè in cui conveniva, o dire un no più strano, più inaspettato, più scandaloso che mai, o ripetere un sì tante volte detto; lo ripeté, e fu monaca [di Monza] per sempre – I Promessi Sposi, cap. X)
Data questa premessa, ci rivolgiamo alla nostra consueta riflessione, dando uno sguardo al versetto di Mt 10, 31: «Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri!».
Come non sentire le grida di «quelli che ben pensano»: «Ma che male hanno fatto i passeri? Non sono anch’essi parte del creato? Ma perché deve esserci differenza tra uomo e passero: non siamo entrambi animali?». E così via…
Lasciamo che sia il greco della Parola di Dio a rispondere.
Ebbene, il verbo adoperato nel Vangelo è diaférete («valete di più»)
Esso è coniugato da diaféro, il quale è composto dalla preposizione diá e dal verbo vero e proprio féro, i quali hanno tantissime accezioni di senso. Cerchiamo, tuttavia, di semplificare.
La preposizione diá può valere tanto «separare» quanto avere idea di «attraverso»; il verbo féro si può cristallizzare nei significati principali di «portare/sopportare».
Ecco, allora, che sulla scia di queste varie sfumature, diaférete arriva ad assumere due connotazione specifiche.
1 – Orbene, la traduzione del testo evangelico naturalmente è corretta («valete di più»), e questa sfumatura di senso rientra nel primo significato di diaféro, il quale esprime ed evidenzia l’idea di «separazione»: dia-férete, quindi, sarebbe da rendere tecnicamente come «porto da una parte e da un’altra» («valete di più», quindi, si colloca proprio in questo aspetto: difatti esso è espressione di un «confronto», ovvero di una «separazione»).
2 – Tuttavia, come accennato sopra, dia-féro manifesta anche l’idea di «attraverso»; e con tale caratteristica, dia-férete varrebbe in traduzione con «porto sino alla fine».
Ebbene, ecco la differenza tra l’uomo e il passero: entrambi sono creature del Signore, ma all’uomo (non all’animale) è chiesto di «tenere duro» (dia-féro); di «sopportare» (féro) quando si trova «in mezzo» (diá) alle difficoltà; di «portare il carico» (féro) della vita (della croce) con «perseveranza» (diá).
Ed è su ciò che l’uomo arriva a «valere di più» (dia-féro) di un passero.
Certo, anche il passero è immensamente caro al cuore del Signore, tanto che Dio stesso provvede al suo nutrimento (Cf. Mt 6, 26: «Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre»); tuttavia esso è incapace di decidere liberamente e coscientemente di «portare/sopportare fino alla fine» (dia-féro).
Tuttavia bene attenti.
Il «valere di più» (diaférete) non è qualità intrinseca, che spetta all’uomo a prescindere, bensì è l’immensa opportunità che il Signore ci ha dato, la quale diverrà nostro corredo, solo se, con la nostra libertà, sceglieremo di «portare/sopportare sino in fondo» (diaférete), seguendo Colui che ha «portato la croce fino in fondo sulla cima del Golgota (così da far valere l’infamia di quella croce Trono della Gloria)»; seguendo Colui che ha «portato la sua vita fino in fondo nelle viscere di quel sepolcro (così da fare valere il sigillo di quella morte Grembo della Vita Eterna)».
Per gentile concessione di Fabio Quadrini che cura, insieme a sua moglie, anche la rubrica ALLA SCOPERTA DELLA SINDONE: https://unaminoranzacreativa.