Fabio Quadrini – Commento al Vangelo di domenica 21 Giugno 2020

La pericope evangelica che la Liturgia ci offre questa settimana è aperta a innumerevoli spunti.
Tuttavia il messaggio che immediatamente ci raggiunge nel cuore, è quello del conforto.
Il Signore è sempre con noi: nulla dobbiamo temere, poiché Egli non ci abbandona mai (Cf. Sal 27: «Il Signore è mia luce e mia salvezza: di chi avrò timore? Il Signore è difesa della mia vita: di chi avrò paura?»).
Tuttavia non è facile ancorarsi a questa Roccia, che fisicamente e con le percezioni sensoriali risulta impercettibile e inafferrabile.
E non solo il lettore, o lo scrivente, trovano questa quotidiana difficoltà: anche gli uomini di Chiesa, i consacrati, provano lo stesso: tutti, infatti, siamo nella condizione fragile di essere umani.

La fede, ovvero la fiducia in Gesù Cristo, è un cammino, un percorso, un continuo avanzare e procedere lungo la strada verso Lui: con cadute ripetute; ma con ripetute «risurrezioni» (in greco «risorgere» si dice anístemi, che tecnicamente significa «stare su/stare in piedi/alzarsi»).
Ma è proprio qui il punto: l’«impercettibilità sensoriale» del Signore, che spesso, nelle situazioni di fatica e sofferenza, ci capita (lasciateci passare l’espressione forte) di maledire, in realtà è l’amore più grande che ci possa essere: invero il Signore non rinnega mai il dono più grande che ci ha fatto, ovvero la libertà. Ed è proprio in virtù di questa che Egli non viene a forzare l’uomo; non viene a costringerlo, affinché quest’ultimo ami a sua volta, liberamente e non per costrizione, il suo Creatore.

Quale amore, invero, senza liberta? – (Dopo dodici mesi di noviziato, pieni di pentimenti e di ripentimenti, si trovò al momento della professione, al momento cioè in cui conveniva, o dire un no più strano, più inaspettato, più scandaloso che mai, o ripetere un sì tante volte detto; lo ripeté, e fu monaca [di Monza] per sempre – I Promessi Sposi, cap. X)

Data questa premessa, ci rivolgiamo alla nostra consueta riflessione, dando uno sguardo al versetto di Mt 10, 31: «Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri!».

Come non sentire le grida di «quelli che ben pensano»: «Ma che male hanno fatto i passeri? Non sono anch’essi parte del creato? Ma perché deve esserci differenza tra uomo e passero: non siamo entrambi animali?». E così via…

Lasciamo che sia il greco della Parola di Dio a rispondere.
Ebbene, il verbo adoperato nel Vangelo è diaférete («valete di più»)
Esso è coniugato da diaféro, il quale è composto dalla preposizione diá e dal verbo vero e proprio féro, i quali hanno tantissime accezioni di senso. Cerchiamo, tuttavia, di semplificare.
La preposizione diá può valere tanto «separare» quanto avere idea di «attraverso»; il verbo féro si può cristallizzare nei significati principali di «portare/sopportare».
Ecco, allora, che sulla scia di queste varie sfumature, diaférete arriva ad assumere due connotazione specifiche.

1 – Orbene, la traduzione del testo evangelico naturalmente è corretta («valete di più»), e questa sfumatura di senso rientra nel primo significato di diaféro, il quale esprime ed evidenzia l’idea di «separazione»: dia-férete, quindi, sarebbe da rendere tecnicamente come «porto da una parte e da un’altra» («valete di più», quindi, si colloca proprio in questo aspetto: difatti esso è espressione di un «confronto», ovvero di una «separazione»).

2 – Tuttavia, come accennato sopra, dia-féro manifesta anche l’idea di «attraverso»; e con tale caratteristica, dia-férete varrebbe in traduzione con «porto sino alla fine».
Ebbene, ecco la differenza tra l’uomo e il passero: entrambi sono creature del Signore, ma all’uomo (non all’animale) è chiesto di «tenere duro» (dia-féro); di «sopportare» (féro) quando si trova «in mezzo» (diá) alle difficoltà; di «portare il carico» (féro) della vita (della croce) con «perseveranza» (diá).
Ed è su ciò che l’uomo arriva a «valere di più» (dia-féro) di un passero.

Certo, anche il passero è immensamente caro al cuore del Signore, tanto che Dio stesso provvede al suo nutrimento (Cf. Mt 6, 26: «Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre»); tuttavia esso è incapace di decidere liberamente e coscientemente di «portare/sopportare fino alla fine» (dia-féro).

Tuttavia bene attenti.
Il «valere di più» (diaférete) non è qualità intrinseca, che spetta all’uomo a prescindere, bensì è l’immensa opportunità che il Signore ci ha dato, la quale diverrà nostro corredo, solo se, con la nostra libertà, sceglieremo di «portare/sopportare sino in fondo» (diaférete), seguendo Colui che ha «portato la croce fino in fondo sulla cima del Golgota (così da far valere l’infamia di quella croce Trono della Gloria)»; seguendo Colui che ha «portato la sua vita fino in fondo nelle viscere di quel sepolcro (così da fare valere il sigillo di quella morte Grembo della Vita Eterna)».

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Crocifisso sindonico (mons. Ricci) – Volto dell’Uomo della Sindone

 

Fonte

Per gentile concessione di Fabio Quadrini che cura, insieme a sua moglie, anche la rubrica ALLA SCOPERTA DELLA SINDONE: https://unaminoranzacreativa.wordpress.com/category/sindone/


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