Nico Guerini – Commento al Vangelo di domenica 21 Giugno 2020

Alla ripresa delle domeniche del tempo ordinario, il paesaggio che ci presentano le letture non è a prima vista molto incoraggiante. Il profeta Geremia ci dice che «tutti i suoi amici aspettano la sua caduta», l’autore del Salmo 68 dichiara di essere diventato «un estraneo ai suoi fratelli», Paolo ci ricorda che «a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo, e, con il peccato, la morte», e per finire Gesù nel vangelo nel suo discorso di missione esorta a «non aver paura di quelli che uccidono il corpo».

Non avere paura

Ma questo è un aspetto del messaggio, che è sistematicamente contrappuntato da quella che potremmo chiamare l’altra faccia della medaglia: Geremia invita a «cantare inni al Signore perché ha liberato la vita del povero dalle mani dei malfattori», il salmista esorta quelli che cercano Dio a farsi coraggio, «perché il Signore ascolta i miseri», Paolo ricorda che il guasto creato dal peccato è guarito con un sovrabbondante «dono di grazia», e Gesù rassicura i discepoli da lui mandati «come agnelli tra i lupi», che agli occhi di Dio essi valgono di più di un paio di passeri che si vendono per un soldo, e che pure quelle cose così fragili come sono i nostri capelli, «sono tutti contati»!

Che dire? A ben guardare, si tratta di una saggia e realistica mistura di ciò che fa la materia del mondo in cui ci troviamo a vivere, ma è un realismo che non è certo mirato a gettarci nella disperazione, o in quello stato d’animo ancora più pericoloso che è la rassegnazione. Lo scopo preciso e dichiarato è l’invito a «non avere paura»!

Questo implica trovare nello sguardo di fede, che fa i conti con quell’imponderabile che è Dio e la sua grazia, il coraggio di affrontare le difficoltà che possono nascere paradossalmente persino da un comportamento buono, o da quelle parole, iniziative, esempi di personalità che hanno il coraggio di andare controcorrente, e che a volte chiamiamo “profetiche”, suscitando così, dentro e fuori la comunità, reazioni di critica e di rigetto alla luce del “si è sempre fatto così”.

Nelle opere di Gregorio Magno si trova spesso la sua esitazione tra il parlare e il tacere, il tacere per paura e timidezza, e il parlare invece di cose futili (vedi il brano riportato nell’Ufficio delle letture il 3 settembre). Da lui Carlo M. Martini prese il suo motto episcopale: propter veritatem adversa diligere, cioè «amare le avversità per amore della verità». È l’atteggiamento che nel Nuovo Testamento è chiamato parresia, franchezza, che si accoppia naturalmente con la virtù del coraggio, da declinare come costanza, perseveranza, pazienza, non certo come arroganza o improntitudine!

Penso, comunque, che per capire a fondo l’invito a «non avere paura», martellato per ben tre volte nel brano di vangelo odierno, sia necessario ricollegarlo con la testa del discorso missionario di Matteo, previsto per la lettura della precedente domenica 11 (Mt 9,36-10,8), dove vengono elencati:

  1. la compassione per quelli che sono «stanchi e sfiniti come pecore senza pastore» come sentimento originario,
  2. la chiamata degli apostoli a lavorare come operai nella messe onde «scacciare spiriti impuri e guarire ogni malattia»,
  3. il senso e il modo della missione: «dare gratuitamente ciò che gratuitamente si è ricevuto».

Questo rimane l’ideale da non perdere mai di vista, sia nel sentimento che lo genera, sia nel ricordo di chi è colui che chiama, sia, infine, nello stile che caratterizza il lavoro da fare, sul modello di come lo ha svolto lo stesso che ce lo affida.

La liturgia di oggi aggiunge solo la consapevolezza che, per quanto paradossale possa sembrare, una tale missione non è che susciti naturalmente approvazione ed entusiasmo, ma può anche produrre ostilità, invidie, rivalità, cattiveria: questo riporta il discorso al problema del male, illustrato nelle letture di oggi in maniera così vistosa, e apparentemente squilibrata.

Una “confessione” di Geremia

Il brano di Geremia (20,10-13), per essere ben compreso, va minimamente contestualizzato. Il precedente vede il profeta proclamare nell’atrio del tempio, davanti a tutto il popolo: «Dice il Signore: Ecco io manderò su questa città e su tutte le sue borgate tutto il male che ho preannunciato, perché essi si sono intestarditi rifiutando di ascoltare le mie parole» (Ger 19,14-15). La reazione è solo naturale: il sacerdote sovrintendente-capo del tempio fa fustigare il profeta e lo fa mettere in prigione. Il giorno dopo è liberato, ma, per tutta risposta, Geremia non fa che aggravare le accuse.

Il brano proposto per oggi segue questo incidente, ed è parte delle cosiddette “confessioni” di Geremia, il cui inizio è celebre: «Mi hai sedotto, Signore, e mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto violenza e hai prevalso. Sono diventato oggetto di derisione ogni giorno; ognuno si fa beffe di me» (20,7).

Quante storie di vocazione conoscono questa partenza! Il punto è che la parola di Dio, di cui il missionario-profeta si fa portatore, segue una duplice direzione, come ci dice lo stesso Geremia, che si sente chiamato a «sradicare e demolire, edificare e piantare» (Ger 1,10).

Come ci può essere in ciascuno una ritrosia a fare il bene, ci può essere anche una riluttanza ad evitare il male, ed è questo che suscita reazioni di rigetto che stanno alla base dell’ostilità, la quale può giungere fino alla persecuzione, verso chi predica e pratica il bene, sia con la parola, sia soprattutto con l’esempio, percepiti come una denuncia del proprio comportamento da chi fa il male. Gesù ha vissuto in prima persona tale ostilità, che è giunta fino alla sua tragica soppressione.

È solo la percezione che dietro a noi sta la presenza di un Dio buono e che vuole il bene, o comunque un ideale di giustizia in cui si crede, che permette di superare la paura, di non ritrarsi dal compito che si è assunto, di non cedere alla rassegnazione.

Un “dono di grazia”

Il principio di una forza “superiore”, che ci precede e ci sostiene, è illustrato in maniera magnifica e concisa da Paolo (Rm 5,12-15): contro l’onda di peccato e di morte, che vede al lavoro insieme il diavolo e l’uomo, o meglio il diavolo nell’uomo, Dio reagisce non con la cancellazione di ciò che ha creato, ma con un secondo tentativo, facendo ripartire l’umanità con un «nuovo Adamo», Gesù Cristo e il suo «dono di grazia».

Questo principio forma, in certo senso, il cuore della catechesi offerta oggi dalla liturgia della parola. Ma non solo, perché in effetti è l’asse portante di tutto l’anno liturgico, dall’Avvento a Cristo re, è la sintesi più alta di quella che siamo abituati a chiamare la storia della salvezza, che ha il suo culmine nella Pasqua e che siamo invitati a ricordare e a celebrare almeno ogni domenica, ma anche solo ogni volta che facciamo il segno della croce.

Le tre paure

E veniamo al vangelo (Mt 10,26-33), parte – come si è detto – del “discorso di missione” che avrà la sua conclusione domenica prossima.

Le due letture ci hanno già preparato a trovare i motivi per cui prende senso l’invito, ripetuto tre volte, a non avere paura. Quale paura?

La prima è quella di essere fraintesi da chi ci accusa, da chi non crede alla genuinità dei nostri sentimenti, da chi stravolge le nostre intenzioni: “lo fa per mettersi in mostra”, “per interessi secondi non confessabili”, “perché gli conviene” ecc. Contro tale paura ci viene detto che, alla fine, «tutto sarà svelato», e dunque, l’unica cosa che ci deve stare a cuore è la cura della purezza della nostra intenzione. La maniera migliore di reagire a chi parla male di noi senza motivo è quella suggerita da Davide di Augusta, un francescano tedesco del Duecento, per il quale in tali casi è meglio «ridere e passare oltre, perché comunque noi rimaniamo quelli che siamo, ed è meglio considerare ciò che ci viene detto come “latrati di cani e starnazzare di oche” (La composizione dell’uomo esteriore e interiore, Milano 2017, p. 50).

La seconda paura è molto più seria, e riguarda il “corpo”, non solo e non tanto in termini fisici come nel caso del martirio, che resta comunque la perdita più alta, ma anche quella di tutti quei beni che fanno parte di noi, come l’amore, l’amicizia, la solidarietà, la stima, perché a volte ciò che diciamo o facciamo mettono a rischio anche questi “beni”. Capita, ma anche in questo si tratta di avere in mente la gerarchia dei valori: ciò di cui dobbiamo aver la massima paura è ciò che, o quelli che, possono uccidere anche l’anima.

La terza paura è quella di essere abbandonati dal Padre, non perché lui si possa offendere per il nostro comportamento buono, ma perché presupponiamo che lui dovrebbe intervenire a difenderci da chi ci è ostile e, se non lo fa, pensiamo che a lui importi poco di noi. Contro tale paura, Gesù risponde con l’affermazione di un principio: se uno lo riconosce davanti agli uomini, sarà da lui riconosciuto davanti al Padre che è nei cieli!

Questo tema sarà meravigliosamente illustrato nell’ultima parte del discorso di missione che sarà proclamata nel vangelo di domenica prossima, quella che pone al centro l’atteggiamento di “accoglienza” che è la migliore risposta a tutte le paure denunciate oggi. Ma già oggi, già qui, l’immagine di un Dio che ha cura dei “passeri”, ci riporta all’atmosfera del discorso della montagna dove aleggia un Dio che si prende cura degli uccelli del cielo e dei gigli del campo (Mt 6,26-30), una parola che mira a tenerci liberi dagli «affanni» inutili, e ci chiama a riportare al centro ciò che deve occupare il centro, il Regno di Dio e la sua giustizia (Mt 6,33). È la passione per l’ideale che ci dà coraggio.

In fondo c’è una sola paura che valga la pena di essere presa sul serio, quella di tradire l’amore di Dio che ha affidato a noi l’annuncio della sua bontà: questo tradimento sì che ci fa perdere tutto: corpo, anima e vita.

Le altre paure? Ci sono, ci saranno, ma, alla fine, si può anche riderci su. Basta prendere un capello e pensare che anch’esso è registrato nel calcolatore di Dio. Come non pensare che, per stare con un Dio così, si possa perfino sorridere di chi ci insulta e ci sbeffeggia?

FonteSettimana News

Commento a cura di Nico Guerini


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