Nella Solennità del Corpus Domini siamo invitati ad assimilare il Pane di Vita che ci è donato al sesto capitolo del Vangelo nella prospettiva giovannea. Tutto il discorso, aperto dal segno della condivisione dei pani e dei pesci, ha come sfondo sia i brani biblici che si riferiscono alla manna nel deserto (Es 16) sia quelli che invitano a nutrirsi del pane e del vino preparati dalla Sapienza di Dio (Pr 9). Tutto trova pienezza in Gesù. Se prima si parla di «pane vivo disceso dal cielo» contrapposto alla manna che sfama ma non garantisce la salvezza, nel corso del dibattito con gli avversari emerge la crudezza: quel pane è carne che deve essere “trangugiata” (trōgō, in greco), ruminata, assaporata. Secondo lo stile giovanneo ricco di fraintendimenti (si pensi a Nicodemo, invitato a rinascere dall’alto), gli interlocutori travisano: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?».
Finché si trattava di mangiare del pane era comprensibile, ma ora si fa ripugnante. «Perché la vita della carne è nel sangue» (Lv 17,11), berlo è peccato e cannibalismo; eppure incalza: il sangue di Gesù va assorbito. L’espressione ebraica “carne e sangue” indica l’interezza della persona umana; qui è la Parola di Dio incarnata e innalzata in Croce per insegnarci a dare la vita. Così, se il compimento della manna è la discesa del Cristo, carne e sangue rimandano – con un’altra immagine alimentare giovannea – all’Agnello pasquale. La sua carne tenerissima è la fragilità umana veramente condivisa da Dio con noi. Mangiare il vero cibo e la vera bevanda che è Cristo significa perciò fare tutta la sua vita – che viene dal Padre e a Lui si orienta – integralmente nostra: rimanere nel Figlio di Dio.
Qui scaturiscono i sacramenti. Sebbene questo Vangelo non racconti l’istituzione dell’Eucaristia, vi allude di frequente, ad esempio con il termine “frammenti” (Gv 6,13). Nella celebrazione eucaristica la Parola di Dio si offre spezzata, fragile tra i fragili: nella Mensa ci è dato di nutrirci della sua carne e del suo sangue. Un’espressione cruenta, tanto lontana dalle immaginette color pastello che adornavano le bomboniere della prima comunione: carne e sangue sono sì da mangiare, ma restano anche carne e sangue. Abbracciando la pienezza dell’esperienza umana – con le sue piaghe e lacerazioni – in cui Dio si fa presente, pure noi, come il Figlio è alimentato dal Padre, veniamo alimentati da Dio in carne ed ossa. Il sangue versato sulla Croce unisce quindi la carne di Cristo alla nostra, abitata durevolmente dallo Spirito. Negare la realtà carnale significherebbe disprezzare il luogo dell’incarnazione di Dio.
Se chi odia la carne del fratello ha un’esistenza precaria (cf. 1Gv 3,15), la vita divina che ci è sempre offerta nel banchetto sacramentale ci permette di andare, con la nostra carne, incontro alle carni delle sorelle e dei fratelli. Cristo desidera incontrarci personalmente lì. Rimanendo nella Parola di Dio, spezzata per noi, rimane anche il gusto divino del “per sempre”.
A cura di don Maurizio Spanu e Piotr Zygulski e pubblicato sul settimanale dell’Arcidiocesi di Oristano “L’Arborense”
Commento a cura di:
Piotr Zygulski, nato a Genova nel 1993, dopo gli studi in Economia all’Università di Genova ha ottenuto la Laurea Magistrale in Filosofia ed Etica delle Relazioni all’Università di Perugia e in Ontologia Trinitaria all’Istituto Universitario Sophia di Loppiano (FI), dove attualmente è dottorando in studi teologici interreligiosi. Dirige la rivista di dibattito ecclesiale “Nipoti di Maritain” (sito).
Tra le pubblicazioni: Il Battesimo di Gesù. Un’immersione nella storicità dei Vangeli, Postfazione di Gérard Rossé, EDB 2019.