Un cibo donato che si fa vita
Questa festa celebra la memoria del corpo e del sangue del Signore, cioè del corpo donato, del corpo consegnato di Gesù per la vita degli uomini. Le parole di Gesù: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno” (Gv 6,51) indicano anzitutto Gesù come colui che rivela il Padre e che dà la vita al mondo con la sua stessa vita, con l’interpretazione della vita umana che egli ha mostrato nella sua concreta esistenza. Il “mangiare me” (cf. Gv 6,57), il “mangiare la mia carne e bere il mio sangue” (cf. Gv 6,53.54.56) rinviano il discepolo all’operazione spirituale di assimilare nella propria vita la vita di Cristo. Di questa operazione fa parte la fede, il credere, fa parte l’ascolto della parola delle Scritture, fa parte la prassi, il fare concretamente la volontà del Padre. Non vi fa parte solo la manducazione eucaristica. La vita umana di Gesù (la sua carne e il suo sangue), come testimoniata nei vangeli, è il cibo di cui ogni credente è chiamato a nutrirsi affinché la vita di Gesù viva concretamente in lui. La chiesa è il luogo in cui la concreta umanità di ogni credente (la sua carne e il suo sangue) è chiamata a conformarsi all’umanità di Gesù, alla sua vita. Affinché sia vero che una sola vita, un’unica vita lega il Signore e il suo discepolo. Lì la chiesa si manifesta come luogo dell’alleanza tra il Signore e il credente.
Ma la pagina evangelica ha molto da dirci anche in riferimento al mistero eucaristico. “Chi mangia me, anch’egli vivrà per mezzo di me”: così suona letteralmente la seconda parte del versetto 57 di Gv 6. Il testo, che fa parte della sezione “eucaristica” (6,51c-58) del discorso sul pane di vita (6,26-71), è realistico fino alla durezza. Come intendere questa “durezza” eucaristica? Il realismo eucaristico, nella tradizione cattolica dall’epoca della Controriforma fino quasi ai nostri giorni, si è concentrato sulla presenza reale di Cristo in ciò che viene mangiato, mentre ha smaterializzato il “cibo” da mangiare e de-corporeizzato la manducazione. Io penso che la nostra espressione richieda piuttosto, in primo luogo, una riflessione sull’atto del mangiare, sul senso simbolico e antropologico del mangiare. Come ha scritto Pierre Benoit: “Nell’Eucaristia è il corpo stesso di Cristo che, nella sua pienezza di fonte di grazia, viene a noi; e non è attraverso un contatto più o meno superficiale ed effimero, ma attraverso il modo più intimo e duraturo possibile: l’assimilazione di un alimento”. Tra l’altro, il verbo greco usato qui da Giovanni per “mangiare” è trógo, che alcuni traducono letteralmente “masticare”. Abbiamo cioè un riferimento all’attività di masticazione essenziale all’atto di mangiare e che implica la trasformazione del cibo tramite la distruzione delle forme solide per renderle digeribili e assimilabili. Per questa via possiamo recuperare il realismo del testo giovanneo e renderlo eloquente oggi, reagendo anche a quella tendenza verificatasi nella tradizione cattolica che ha spiritualizzato il pane eucaristico riducendolo a esilissima ostia che non doveva essere masticata, toccata dai denti del comunicante e ricevuta sulle sue mani, e che ha tralasciato la comunione al calice, al bere quel vino, simbolo del sangue di Cristo, che Gesù, secondo le redazioni di Mt e Mc dell’istituzione eucaristica, aveva chiesto che “tutti” bevessero (Mt 26,27; Mc 14,23).
Per l’uomo il mangiare è atto primordiale e riconoscimento iniziale del mondo. Il suo legame con la vita è essenziale da quando il bambino è feto nel ventre materno fino alla morte. L’atto di mangiare è rinvio all’attività culturale dell’uomo: implica il lavoro, la preparazione del cibo, la socialità, la convivialità. Infatti, l’uomo mangia insieme con altri e il mangiare è connesso a una tavola, luogo primordiale di creazione di amicizia, fraternità, alleanza e società. A tavola non si condivide solo il cibo, ma si scambiano anche parole e discorsi nutrendo così le relazioni, ovvero ciò che dà senso alla vita sostentata dal cibo. Il mangiare implica dunque anche la creazione culturale più straordinaria: il linguaggio. Legato com’è all’oralità e al desiderio, l’atto di mangiare investe la sfera affettiva ed emozionale dell’uomo. È dunque un simbolo antropologico di pregnanza unica che coglie l’essere umano nelle sue profondità più intime e nascoste e lo situa nel legame con la terra, con il cosmo, con la polis, con la società, con il mondo. Non esiste per l’uomo un assenso più totale a tutto ciò che lo circonda dell’atto di mangiare. È il modo umano di dire il proprio sì, perché è nello stesso tempo il sì del corpo e dell’anima… Ogni boccone di pane è in qualche modo un boccone di mondo che accettiamo di mangiare: mangiando, infatti, noi assimiliamo il mondo in noi e lo trasformiamo. Il mangiare inoltre ricorda all’uomo la sua caducità, il suo essere mortale: si mangia per vivere, ma il mangiare non riesce a farci sfuggire alla morte. Dicendo “Chi mangia me” Gesù raggiunge dunque l’uomo nella sua dimensione corporea, nella sua quotidianità e nel suo bisogno universale, essenziale per vivere, che è il mangiare.
Ora però occorre passare dal piano antropologico a quello teologico, e questo attraverso la considerazione della frase giovannea alla luce del contesto dell’intero v. 57 e di tutto il discorso sul pane di vita. Dice Gv 6,57: “Come il Padre, che è vivente, ha inviato me e io vivo grazie (dià: per mezzo) al Padre, così colui che mangia me, vivrà anch’egli grazie (dià: per mezzo) a me”. Il “mangiare me” è posto in linea di continuità con l’invio del Figlio da parte del Padre: è l’atto estremo a cui giunge l’obbedienza del Figlio nei confronti del Padre, è l’esito ultimo della missione ricevuta dal Padre, è il culmine kenotico dell’evento trinitario della rivelazione e comunicazione divine all’uomo. Dal piano antropologico del “mangiante” risaliamo così al piano teologico del “me” che si dona come cibo all’uomo. Il “mangiare me” è allora l’espressione più radicale dell’amore di Cristo e di Dio per l’umanità. Questo mangiare è reso possibile dal dono che il Padre, nel suo amore per l’umanità (3,16), fa del Figlio inviandolo nel mondo perché gli uomini abbiano la vita in abbondanza (10,10) e che il Figlio liberamente fa di sé, per amore dell’umanità (10,11.18; 15,13). Ciò che è fondamentale in questo “mangiare” è dunque il dono che ne è all’origine: questo “cibo”, infatti, non viene dall’uomo, ma sgorga dall’amore di Dio per l’uomo e tende alla comunicazione dell’amore in cui consiste la vera vita. Per la Bibbia, l’alimento è come il sacramentum elementare mediante il quale l’amore di Dio raggiunge l’uomo: questi riceve la creazione dal Creatore e gliene rende il contraccambio benedicendolo. La comunità conviviale, espressa dal segno della frazione del pane, sgorga dunque dall’amore, ma per la mediazione dei beni della creazione.
Ora, secondo il discorso sul pane di vita in Gv 6 Gesù è il pane di vita in un duplice senso: in quanto Parola di Dio fatta carne, Lógos che rivela perfettamente il Padre, e in quanto cibo e bevanda eucaristici. Questo significa che il “mangiare me” non può essere scisso, dal punto di vista del “mangiante”, dal “venire a Gesù ” (6,35.37.44.45), ovvero dal “credere in Lui” (6,29.36.40.47). Il parallelismo tra credere e mangiare è significativo: “Questa è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna, e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (6,40); “Chi crede ha la vita eterna” (6,47); “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (6,54); “Chi mangia questo pane vivrà in eterno” (6,58). Al credere e al mangiare potremmo aggiungere l’ascolto e l’accoglienza della parola della vita, della parola in cui è la vita (1,4), che consentono ai credenti di essere generati a vita nuova, a figli di Dio (1,12-13). Dirà Gesù: “Chi ascolta la mia parola … ha la vita eterna” (5,24). In questo modo, la frase “Chi mangia me, anch’egli vivrà per mezzo di me” (6,57) esprime non solo il culmine della donazione e della comunicazione di Dio all’uomo in Cristo, ma anche il momento più completo e realistico della comunicazione dell’uomo con Dio tramite Cristo.
La vita eterna promessa a chi assimila la vita di Cristo (cf. Gv 6,51.54.58), in realtà inizia già qui e ora per il credente. Si tratta di integrare la morte nella vita facendo della vita un atto di donazione di sé, un atto di amore sulle tracce di Gesù (cf. Gv 13,34). Come atto di amore è quello per cui Gesù si dona come cibo e bevanda agli uomini. Come atto di amore è la morte di Gesù, amore che è all’origine della resurrezione e della promessa della vita per sempre con il Signore nel Regno. Vita di Dio e vita dell’uomo si incontrano nell’amore, nell’agape, cibo che veramente nutre l’uomo e realtà che costituisce la vita di Dio: “Dio è amore” (1Gv 4,8.16). L’Eucaristia è il sacramento della carità, dell’agape, in cui il dono di Dio agli uomini è la piena narrazione del suo amore per loro e la fonte del loro amarsi come Cristo li ha amati. La comunità che nasce dall’Eucaristia è costituita dall’insieme dei “donanti”, dei “capaci di dono” perché essi stessi “destinatari di dono”, in un circuito di donazione che ha la sua origine nell’alto, da Dio; è formata da “coloro che amano” (“Amatevi gli uni gli altri”: Gv 13,34) in quanto essi stessi “amati” (“come io ho amato voi”: Gv 13,34).
A cura di: Luciano Manicardi
Fonte: Monastero di Bose