Fabio Quadrini – Commento al Vangelo di domenica 7 Giugno 2020

Usualmente il titolo dei nostri scritti contiene già il termine chiave del nostro commento.
Questa volta, invece, abbiamo messo in rilievo la domanda che, secondo logica, dovremmo porci al termine dell’ascolto, o della lettura, del brano evangelico odierno.
Invero, il passo giovanneo di questa domenica termina così: «Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio» (Gv 3, 18).

Ebbene, se fossimo stati al posto di Nicodemo, non avremmo domandato a Gesù: «Qual è questo nome?».

Da ciò, una domanda alla domanda: e come mai, se era logico chiedere a Gesù il nome di questo fantomatico «Figlio di Dio», Nicodemo non gliel’ha chiesto?
Potremmo supporre che non gli interessasse; oppure che non vedesse l’ora di tornare a casa, data l’ora tarda (difatti Nicodemo era andato da Gesù «di notte» – Cf. Gv 3, 1).
Di congetture ne potremmo indicare a iosa: a maggior ragione, dato che sono, appunto, congetture. Tuttavia, è criterio di responsabilità il fatto che, dopo aver ipotizzato una tesi, se ne dimostri la sua veridicità.

Orbene, data tale premessa, in questo scritto noi siamo ad avanzare una tesi, che risponda alla questione di cui sopra: il nome dell’unigenito Figlio di Dio è «Gesù Cristo».
E siamo certi che lo stesso Nicodemo, quella notte, lo avesse già capito: senza necessità di porre alcuna domanda.

Sicuramente il lettore penserà che non era difficile dare questa risposta: infondo a catechismo, volenti o nolenti, ci siamo andati tutti. – (nota 1 a margine: ma se siete nolenti, chi vi costringe a mandare i figli a catechismo? nota 2 a margine: ma lo sapete che sposarsi in chiesa, significa contrarre l’obbligo di educare i propri figli alla religione cattolica? nota 3 a margine: ma chi vi costringe a sposarvi in chiesa? La nostra fede non è una cialda di farina di frumento che tra l’altro in tempo di virus sarebbe meglio distribuire con un dispenser (roba da matti!); la nostra fede è una Persona Viva)

Ebbene, data la nostra tesi, è doveroso offrirne la sua difesa, non essendo sufficiente invocare l’ormai (ahimè) lontano periodo del catechismo.
In realtà, è il testo stesso che si difende da solo: invero è proprio Gesù che ci rivela il nome di questo «Figlio di Dio». Basta leggere con dovuta profondità il testo.

La pericope odierna è composta di tre versetti. Abbiamo già sopra riferito Gv 3, 18, in cui si cita questo «Figlio di Dio»; ma nei versetti di Gv 3, 16-17 abbiamo «nome e cognome».

In Gv 3, 16 è scritto: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto (apóletai), ma abbia la vita eterna».
Il verbo apóletai ha la stessa radice di élaion, che significa «olio».
In un contesto ebraico, come quello tra Gesù e Nicodemo, tutto quello che concerneva «olio» era strettamente connesso al termine Mashíach («Messia» – «Unto»); e l’equivalente greco di Mashíach altro non è se non Khristós.
A corollario di ciò sono da notare le ultime due parole di Gv 3, 16: «vita eterna», che in greco sono espresse con zoèn aiónon. La traduzione «vita eterna» è perfetta; tuttavia, il senso profondo di zoèn aiónon potrebbe essere reso con «linfa fino al midollo».
Da ciò è interessante proporre una traduzione letterale di Gv 3, 16, che può consentirci di carpire l’idea di fondo del versetto: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non diventi rancido (apóletai), ma abbia linfa fino al midollo (zoèn aiónon)».
Ecco chi è il Cristo: è l’Unto del Signore, che viene a rinnovare il nostro olio; che viene a darci profumo e «conservazione» (vita) eterna.

gestemani_gerusalemme_frantoio
Orto degli Ulivi, Gerusalemme («Getsemani» in ebraico significa «frantoio»)

Ed ora Gv 3, 17. In tale versetto viene specificato il nome proprio di questo Mashíach Khristós: «Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato (sotẽ) per mezzo di lui».
Ebbene, il verbo sotẽ, ovvero il concetto di «salvezza», nel contesto ebraico era espresso esattamente con il nome Yeshúa, ovvero Gesù.

Ecco: verosimilmente nel dialogo tra Gesù e Nicodemo saranno stati adoperati i nomi Mashíach e Yeshúa; e Nicodemo, lui che era «maestro d’Israele» (Cf. Gv 3, 10), avrà sicuramente compreso, in dissolvenza, il senso del discorso, ovvero il nome di quel «Figlio di Dio».

E noi?

Fonte

Per gentile concessione di Fabio Quadrini che cura, insieme a sua moglie, anche la rubrica ALLA SCOPERTA DELLA SINDONE: https://unaminoranzacreativa.wordpress.com/category/sindone/


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