È certo la più vistosa, e la più nota, ma quella che celebriamo oggi è la terza pentecoste che è, comunque, nella linea delle due che l’hanno preceduta.
La prima fu sul Calvario, quando Cristo, nel momento stesso in cui moriva, non si spegneva del tutto, perché, come dice Giovanni, morendo «consegnò lo Spirito» (Gv 19,30), come alla cena aveva dato/consegnato il suo corpo (Lc 22,19).
La seconda pentecoste avviene nella cornice domestica del cenacolo, ed è primariamente diretta agli apostoli impauriti e smarriti (Gv 20,22), quando Gesù “soffia” su di loro portando pace e perdono.
La terza effusione dello Spirito assume toni giganteschi e spettacolari: un fragore di tuono, un vento impetuoso, lingue di fuoco che si posano su ciascuno dei presenti, riuniti «nella stanza del piano superiore dove erano soliti riunirsi» (At 1,13), e dove era stato vissuto l’ultimo incontro con Gesù attorno a una mensa.
Ognuna di queste tre effusioni dello Spirito prende senso perché ognuna contiene un messaggio che fa parte del dipanarsi di un “mistero” che va caricandosi di volta in volta di significato. La Pentecoste del Calvario ci indica la “fonte”: il dono dello Spirito nasce dalla morte di Gesù, una morte che, essendo il punto massimo di una rivelazione dell’amore, è in realtà una manifestazione di vita, come la successiva risurrezione si incaricherà di dimostrare in modo inequivocabile.
La Pentecoste del Cenacolo mira a trasmettere in diretta a una piccola comunità, dove ancora serpeggia il dubbio, e forse anche un senso di vergogna per aver abbandonato Gesù nell’ora più buia della sua vita, il dono della pace e del perdono, di cui i discepoli, “perdonati”, sono chiamati ad essere loro stessi gli agenti della misericordia: è una potente iniezione di fiducia che li prepara alla terza, e grande Pentecoste, che li farà uscire delle “porte chiuse” per lanciarli sulle strade del mondo.
La Pentecoste è anzitutto una festa liturgica ebraica. Nata come festa della mietitura (Es 23,14), era poi divenuta anche commemorazione e rinnovo dell’alleanza (2Cr 15,10-13). Non è dunque una circostanza qualsiasi, e proprio questa ricorrenza spiega la presenza a Gerusalemme di rappresentanti di tutto il mondo allora conosciuto.
Il vento che è lo Spirito
Luca (At 2,1-11) ha certo tenuto presente queste due circostanze per orchestrare questa grande manifestazione dello Spirito, che si rivela come il “donatore” per eccellenza, del raccolto così come dell’alleanza, che ora è “nuova” nel senso che ingloba ed eleva la precedente, perché questa volta è sigillata non da un segno fisico sul corpo, ma dal dono di sé che fa Gesù, quando nell’ultima cena passò il calice agli apostoli dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi» (Lc 22,20).
Il vento “riempie” la casa, quel vento che è l’immagine stessa dello Spirito (Gv 3,8), vento che è “fiato” (nel greco la parola è la stessa), che è sinonimo di libertà, che è l’espressione stessa dell’azione di Dio, non controllabile né riducibile a schemi (Gv 3,8), ma semplicemente da accogliere con gioia e gratitudine, quel vento che visualizza la “danza” di Dio nel creato (Pr 8,30-31), che gonfia le vele ai naviganti, che è icona potente della vita.
E qui la vita finisce per concentrarsi sulla parola, che è lo strumento primo della vita di relazione, quella parola che nell’orgoglio di Babele era stata maledetta e fatta fonte di confusione (Gen 1,11), ora viene purificata dal fuoco e benedetta così da diventare strumento di comunione.
L’immagine creata da quel grande pittore che è Luca è impressionante: l’atlante della baraonda e delle guerre si trasfigura in atlante di una variopinta diversità che però si ritrova in un’unica lingua. C’è davvero da essere «stupiti e fuori di sé per la meraviglia».
C’è solo un’ultima annotazione da fare: certo, parlano una lingua che tutti capiscono, ma di che cosa parlano? «Delle grandi opere di Dio»! Non viene precisato altro. Saranno poi i lunghi discorsi di Pietro, di Stefano, di Filippo, e alla fine di Paolo, a specificare quali siano queste “grandi opere”. Per ora basta sottolineare che lo strumento funziona, che la Chiesa nata da Gesù è per il mondo, e dunque che sono sue tutte le lingue – e le culture – del mondo.
La molteplicità nell’unità
La varietà nell’unità diventa un grande inno nella seconda lettura (1Cor 12,3b.7.12-13). È la grande metafora della comunità dei discepoli che è descritta, via via, come edificio basato su una pietra angolare, come tralci che derivano da un’unica vite, come membra numerose e diverse che si radunano sotto un unico capo.
La lettura che ne dà Paolo ha il pregio di essere ricondotta alla Trinità. Dio Padre è il “creatore”, e da lui si diramano le “attività”; Dio Figlio è colui che è venuto a “servire”, e da lui partono e a lui si ispirano i “ministeri”; Dio Spirito Santo è “dono”, e a lui vanno ricondotti i diversi “carismi”, parola di origine greca (derivata da charis, grazia, da cui charitas, “amore”). Una è dunque l’origine, uno è, e altro non può essere, l’obiettivo: l’utilità comune!
Curioso che nel latino della Volgata, che rende alla lettera il greco originale, quello che qui è tradotto “diverso” suona divisio. È chiaro però che, nel contesto, diversità e/o varietà tutto possono essere tranne che sinonimi di “divisione” nel senso di contrasto e di conflitto. Paolo aveva fatto l’esperienza dolorosa a Corinto di una Chiesa che si divideva in fazioni facendo appello all’uno o all’altro degli evangelizzatori (cf. 1Cor 3,1-9). Si spiega anche così la sua appassionata difesa dell’armonia che ci deve essere tra unità e diversità. E a dare vigore alla proposta viene alla fine la metafora madre del corpo, nel quale siamo immessi con il battesimo, un corpo che respira con un solo fiato, lo Spirito, appunto.
La liturgia del medioevo, oltre a una miniera splendida di inni, ci ha lasciato molte “sequenze”, che la riforma tridentina ha ridotto drasticamente. Di tale patrimonio sono rimaste nel messale due sequenze stupende: il Victimae paschali laudes per Pasqua, e il Veni Sancte Spiritus per la Pentecoste, oltre a inni come lo Stabat Mater, il Dies irae e il Lauda Sion.
La sequenza di oggi, opera dell’inglese Stephen Langton (ca. 1150-1228), grande teologo e arcivescovo di Canterbury, accompagnata da una struggente melodia gregoriana, si trova facilmente anche in italiano in pratiche immaginette. È una bellissima preghiera del mattino: perché non regalarla alla cresima?
“Ricevete lo Spirito Santo”
Con il Vangelo (Gv 20,19-23) torniamo alla seconda Pentecoste, quella che ho chiamato “domestica”, che vede il Risorto superare liberamente le “porte chiuse”, ed entrare per “stare in mezzo” ai discepoli e donare loro la sua pace. Mostra loro “le mani e il fianco”, ormai inconfondibile carta di identità, e insieme ricordo di come è arrivato ad essere il “Signore”. Le ferite hanno un linguaggio: sono delle aperture, o che lasciano uscire la misericordia (quelle delle mani), o che lasciano entrare nella propria intimità (quella del costato).
Ho già citato Giuliana di Norwich, una delle antesignane di quella che poi sarà la devozione al sacro Cuore, che nella ferita del costato vede la “porta” che immette in un nuovo Eden, «un luogo bello e delizioso, largo abbastanza da contenere tutta l’umanità salvata perché vi riposasse nella pace e nell’amore» (Una rivelazione dell’amore, c. 24, p. 188).
Ma merita la citazione un altro passo, dove la mistica sviluppa l’idea della “maternità” di Dio che si rivela particolarmente nel Figlio, e dove scrive: «Una madre può teneramente stringere al petto il suo bambino, ma la nostra tenera Madre Gesù può familiarmente farci entrare nel suo petto benedetto attraverso la dolce ferita del suo costato, e qui rivelarci in parte la divinità e le gioie del cielo insieme alla certezza spirituale della felicità eterna» (c. 60, p. 276).
E, quanto alle mani, ecco cosa la stessa scrive: «Le beate ferite del nostro salvatore sono aperte, ed è loro gioia il sanarci. Le dolci mani graziose della nostra Madre sono pronte e diligenti nel curarsi di noi. Perché lui in tutto questo lavoro esercita proprio l’ufficio di una gentile nutrice che non ha altro da fare se non occuparsi della salvezza del suo bambino» (ibidem, c. 61, p. 280-281).
Dopo il rinnovato augurio di pace, viene l’invio in missione basato sul “come”: la Pentecoste, meglio, l’invio dello Spirito ha come scopo di agganciare la nostra vita a quella di Gesù, e dunque il compito di continuare la sua missione. Che è sostanzialmente quella di gestire il perdono di Dio, materializzatosi nel sacrificio di Gesù, che da ingiustizia perpetrata a causa nostra diventa fonte di grazia a favore nostro: sono i due significati di propter, che sono raccolti nel «propter nos homines et propter nostram salutem» del Credo.
Perdonare e non perdonare parrebbero a tutta prima scelte che dipendono da noi e sono totalmente nelle nostre mani. Non è così. Pur rimanendo a volte utile aiutare un peccatore, ove sia il caso, a rendersi conto dei suoi sbagli, rimane sempre fondamentale ricordarsi che le nostre mani devono muoversi in sintonia con quelle di Dio, e che, nel perdonare, diamo solo alla fine quello che noi per primi abbiamo ricevuto.
Vorrei concludere con un brano poetico, un inno composto da fr. Pierre-Yves Emery, di Taizé. Lo Spirito Santo rimane la più enigmatica delle tre persone della Trinità: non è facile parlarne. Lo vedo un po’ come la “poesia” che fluisce tra il Padre e il Figlio, o meglio, per dirla con san Bernardo, il “bacio” che lega il Padre al Figlio (Sul Cantico, Sermone 8,2). Mi hanno sempre aiutato le grandi metafore con cui la sua presenza è suggerita nella Bibbia: il vento, l’acqua, il fuoco.
Così scrive Pierre-Yves:
«Spirito di Dio, tu sei il fuoco, / brace paziente nella cenere, / pronta a sorprendere in ogni istante / il minimo soffio ed a saltare / come un lampo vivo e gioioso / per consumare in noi la paglia, / provare l’oro alla gran fiamma / del braciere della carità. //
Spirito di Dio, tu sei il vento, / dove tu prendi il fiato, a quale riva? / Elia si copre il volto / davanti al tuo silenzio che freme. / Sei dato ai tempi nuovi, / sospiro del mondo in speranza, / presente ovunque come danza, / esplosione della tua libertà. //
Spirito di Dio, sei rugiada / di gioia, di forza e tenerezza, / tu sei la pioggia della promessa / su di una terra abbandonata. / Zampillata dal Figlio risorto, / tu ci rianimi, sorgente chiara, / ci riconduci verso il Padre, / alla roccia della verità» (La nuit, le jour… Hymnes et tropaires, Desclée/Cerf, 1973-74, p. 104).
Quando il linguaggio del ragionamento viene meno, e quello della narrazione non è sufficiente, perché non dovremmo riuscire a diventare anche noi, come al mattino di Pentecoste, un po’ “ubriachi” di bellezza e di poesia?
Fonte – Settimana News