Per credere occorre riconoscere il Signore
«E vide e credette» (Gv 20,8) abbiamo letto nel vangelo della mattina di Pasqua riguardo all’apostolo Giovanni, il primo degli apostoli a credere nella resurrezione di Gesù. Per contro, questa domenica incontriamo Tommaso che, assente alla prima apparizione di Cristo ai discepoli il giorno di Pasqua, aveva affermato che avrebbe creduto solo vedendolo di persona.
Giovanni e Tommaso paiono agli antipodi: uno è il primo, l’altro l’ultimo a credere e, per farlo, ha bisogno di prove solidissime: toccare con mano. Perché era assente alla prima apparizione? Non lo sappiamo, ma possiamo fare delle ipotesi: tutti i discepoli, eccetto Giovanni, durante la cattura e morte di Gesù sono fuggiti. Quando si ha paura si scappa e, se è in gioco la vita, si corre ancora più veloci, senza girarsi indietro. E si va lontano. Forse Tommaso era assente perché ancora non era tornato dal luogo in cui si era rifugiato.
Cosa vide Giovanni e perché credette? Vide semplicemente una scena ordinata dentro il sepolcro vuoto, in cui i teli e il sudario erano ripiegati da una parte. Non era una scena di trafugamento: la logica vuole che un corpo, in quel caso, non venga mantenuto così com’è; e poi dove passano ladri o vandali quasi sempre lasciano confusione. È sufficiente avere un minimo di spirito critico e di osservazione per constatare l’opera di Dio in tutto ciò che circonda ma, come afferma Pascal, «c’è luce sufficiente per credere e buio sufficiente per non credere».
Tommaso, detto Didimo, cioè “il gemello”, ha il carattere tipico di chi deve controllare la verità e l’identità di ogni cosa: una caratteristica spesso tipica dei gemelli, che devono capire ciò che è per loro e ciò che, invece, riguarda il fratello.
Tommaso non è assolutamente una figura negativa in questo vangelo. I discepoli gli dicono che hanno visto il Signore ed egli ribatte: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo» (v. 25). Sembra una risposta negativa ma, a guardar bene, il discepolo chiede solo di avere ciò che hanno avuto anche gli altri: Cristo è apparso al loro, ha mostrato le mani e il costato ed essi passano dall’incredulità alla fede. L’incontro con le piaghe del Signore è ciò che permette tutto questo. Gesù, inoltre, dà appuntamento a otto giorni dopo: è la scansione liturgica della Chiesa che annunzia a tutti la notizia che Cristo risorto appare regolarmente nell’assemblea cristiana.
Ora Tommaso ha imparato che non deve mancare all’assemblea cristiana, non deve stare lontano dall’appuntamento con il Signore e deve incontrarlo per passare dall’incredulità alla fede. Ogni domenica, Pasqua della settimana, la Chiesa dà occasione a tutti noi di passare dall’incredulità alla fede, di arrivare a un’esperienza diretta, personale della resurrezione di Cristo: toccare le sue piaghe, di fatto, mettersi in rapporto con Lui, significa puntare il nostro sguardo su di Lui.
Alla fine del vangelo Gesù ci annuncia la nona beatitudine: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto» (Gv 20,29). In realtà è un’ulteriore qualità della fede: quella di vedere e, dunque, credere. Non accade così, ammonisce Gesù: «Se non ascoltano Mosè e i profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti» (Lc 16,31).
Tutti devono fare un’e-sperienza di fede per credere: essa è molto più vicina alla scienza che non al sentimento, perché si basa su dati concreti, non su moti dell’animo che lasciano il tempo che trovano. La fede richiede “esperienze di fede”: si deve poter toccare Cristo risorto nei fatti della propria vita e sperimentarlo potente, Signore, più forte della morte con le sue piaghe che parlano del suo amore per ciascuno di noi. Verrà poi il tempo in cui Egli non ci sarà fisicamente – come in questo tempo di pandemia, in cui siamo lontani dai sacramenti – e allora scopriremo se abbiamo imparato a credere. Imparare a credere anche nel buio del dubbio, quando ci sembra che Dio sia lontano da noi: è questo il momento in cui ricordare di averlo già incontrato e credere pur senza vederlo. Questa è la fede più adulta.