L’Esodo, la via dell’Amore
GIOVEDI SANTO (MESSA NELLA CENA DEL SIGNORE)
«Prima della festa di Pasqua»
La Pasqua cristiana non può essere compresa, ma soprattutto vissuta, senza tener presente l’evento della Pasqua ebraica il cui momento iniziale è narrato nella prima lettura, tratta dal Libro dell’Esodo. Lì si parla della preparazione dell’agnello, la cui carne deve essere consumata in famiglia e il cui sangue deve essere posto sugli stipiti delle porte. Si danno anche indicazioni circa la cena in casa nella notte in cui sarebbe passato l’angelo della morte destinato ai primogeniti egiziani e vigilia del passaggio del Mar Rosso.
Il pasto precede il cammino dell’esodo ed è per questo che ci si sofferma ad indicare anche il vestiario, tipico di chi sta per intraprendere un lungo viaggio. È il pasto vespertino del viandante che non inaugura il tempo del riposo, ma quello del cammino, attraverso la notte, verso la luce.
Nella seconda lettura Paolo la chiama «la notte in cui (Gesù) veniva tradito».
«(Gesù) sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre… sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava».
Giovanni, introducendo gli eventi della Pasqua accenna alla consapevolezza di Gesù di essere venuto dal Padre e di ritornare a Lui. Si accenna cioè ad un cammino con due passaggi, dal Padre verso questo mondo e il ritorno da questo mondo al Padre. In questi due passaggi sono riassunti i capisaldi della nostra fede: l’incarnazione di Dio e la sua opera di salvezza. Gesù, diventando uomo è passato dal Padre al mondo, inviato da Lui. Nell’ora della Passione Gesù fa ritorno al Padre per aprire anche a noi la via al Cielo e diventare noi figli di Dio.
«… avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine».
Il cammino dell’Esodo di Gesù parte da Dio e a Dio ritorna affinché l’uomo, «nato dalla carne» (Gv 3,6), possa ri-nascere dallo Spirito. È questa, dunque, la Pasqua del cristiano: passare dall’essere uomo terrestre, destinato alla terra, ad essere uomo celeste, come il Figlio di Dio, e possedere la vita eterna. Il cammino di Gesù è un cammino di amore. Parlando a Nicodemo Gesù rivela: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito … Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di Lui» (Gv 3,16.17). Fino a che punto Gesù ci ha amato? Dove vuole condurci il suo amore per noi? Fino alla fine, cioè fino al raggiungimento della nostra salvezza. La salvezza è il compimento del progetto per cui Gesù è stato dato agli uomini dal Padre e per il quale il Padre ha dato come suo dono nelle mani di Gesù tutti gli uomini (Gv 13,3; 17,9.10).
Dopo questo lungo preambolo l’evangelista descrive i gesti silenziosi di Gesù. «Si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita». Il significato simbolico di questi gesti è rivelato dal testo di un antico inno che s. Paolo recepisce dalla chiesa e che fa suo proponendolo ai Filippesi. In questo inno è riassunto tutto il Vangelo.
«Cristo Gesù … pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio» (Fil 2, 5-6). Gesù durante la cena occupava il posto del capo famiglia, il primo posto. Egli dunque, alzandosi da tavola, lascia il suo posto. In questo gesto è evocata la consapevolezza di Gesù di essere figlio di Dio, ma anche la volontà di non tenere gelosamente per sé questo privilegio, ma volle che fosse condiviso con gli uomini. Lasciare il proprio posto significa rinunciare a tenere solo per sé un bene così grande o a conservare ad ogni costo un vantaggio. L’amore del Padre, la sua vita, non poteva trattenerla solo per sé.
«Svuotò sé stesso, assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» (Fil 2, 7), «Gesù depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita». Dio scende dal Cielo e diviene uomo assumendo la nostra condizione caratterizzata dalla precarietà, dalla sofferenza e dalla morte. L’uomo è di una bellezza straordinaria, ma anche soggetto alla fragilità. Il salmista canta la grandezza dell’uomo «fatto poco meno di un dio», ma al tempo stesso «la sua vita è come l’erba che spunta al mattino e avvizzisce la sera». Ha il grande dono dell’intelligenza e della sapienza per trasformare il deserto il un florido giardino, ma anche la possibilità di usare male la sua libertà riducendo in macerie casa in cui abita. Il suo corpo è un organismo armoniosamente composto, ma è un essere che per vivere non basta a sé stesso e i bisogni gli ricordano che nessuno si salva da solo. Gesù, deponendo le vesti, rinuncia anche alla proposta di salvezza offertagli da Satana che punta tutto sul consenso popolare. Gesù accetta di incamminarsi sulla via che il Padre gli indica, quella della croce, lì dove si unirà totalmente all’uomo, fino all’ultimo uomo, quello giudicato e condannato ingiustamente.
«Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2, 7-8), «Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto». Piegando le sue ginocchia davanti ai discepoli Gesù fa cadere tutte le false immagini che essi si erano fatti di Lui. Andrea, uno dei primi discepoli di Gesù, lo aveva da subito riconosciuto come il Cristo e Filippo, paesano suo e di Simon Pietro, parlando con Natanaele, afferma che finalmente hanno trovato colui che era stato promesso dai Profeti. Lo stesso Natanaele, incontrando Gesù lo chiama Figlio di Dio, Re d’Israele. A queste altisonanti titoli Gesù replica: «vedrai cose più grandi di queste» (cf. Gv 1, 51). Mai avrebbero potuto immaginare di vedere Gesù piegato ai loro piedi e ancora di più innalzato sulla croce. L’amore agli uomini fino alla fine è un atto di obbedienza a Dio, non semplicemente un atto eroico che nasce dalla propria volontà. Il versare l’acqua nel catino è il simbolo del dono che Gesù fa di sé sulla croce, «versando sangue e acqua». I piedi, estremità più bassa del corpo, sono il simbolo dell’umanità, soprattutto quella che soffre per il fatto di camminare su vie sbagliate, di cui Gesù si prende cura. La lettera agli Ebrei (2,16) parlando di Gesù, quale Figlio di Dio, dice: «Non degli angeli prende cura, ma della stirpe di Abramo si prende cura». Con quel gesto Gesù dice ai suoi discepoli: «Io sono vostro fratello». Perciò conclude l’autore della Lettera agli Ebrei: «Proprio per essere stato messo alla prova e aver sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (2,18). La prova di cui si parla è l’esperienza concreta che Gesù fa fino in fondo della sofferenza dell’uomo. L’umiliazione è l’esperienza più intensa e profonda della nostra umanità. Il volto di Gesù non potrà essere visto se non nell’acqua in cui sono immersi i piedi degli uomini. In quell’acqua in cui sono depositati i peccati degli uomini si riflette il volto di Gesù sacerdote misericordioso. I panni pontificali dei sommi sacerdoti sono stati sostituiti dall’asciugatoio con il quale Gesù asciuga i piedi e conforta i suoi discepoli.
«Signore, tu lavi i piedi a me? … Tu non mi laverai i piedi in eterno!». Lo scandalo che siscita quel gesto è impresso nelle parole di Simon Pietro che cerca di fermare le mani di Gesù pronte a prendere anche i suoi piedi e immergerli nell’acqua. Troppo grande è l’umiliazione, da non crederci! Gesù non può arrivare a tanto! Pietro proietta su Gesù la sua idea di salvatore. Il Messia, forte e potente, è invincibile, ha la soluzione pronta per ogni problema, non può mostrarsi debole. Questa è la tentazione di satana che induce a sognare la liberazione come un atto di forza, magari anche con le armi, per mettere a tacere e sottomette i nemici. Gesù, sottomesso ai piedi di Pietro, smonta pezzo per pezzo le speranze e le aspettative dell’apostolo. Pietro si ribella, non capisce e non vuol sentire ragione, si vergogna. Pietro, che sogna, come tutti gli altri, un riscatto sociale e economico e il trionfo della vera fede, non accetta la via della croce. Gesù replica che solo quella, e in compagnia sua, potrà condurlo al riscatto.
«Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono», «Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome…» (Fil 2, 9). Dopo l’ora dell’umiliazione e della confusione dei discepoli, giunge quella della risurrezione. L’immagine di riprendere le vesti, precedentemente deposte, è spiegata dalle parole stesse di Gesù quando parla di sé come il Bel Pastore che dà la sua vita per le pecore e aggiunge: «Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo» (Gv 10,17). Seguendo l’inno dei Filippesi comprendiamo che le vesti sono la vita che Gesù, in obbedienza al Padre dona sulla croce per gli uomini. Per questo il Padre, modello del Pastore a cui Gesù guarda, non lo abbandona nella morte, ma lo solleva alla gloria più alta. Chi parla è dunque il Cristo risorto, Il Maestro e Signore, che è stato liberato dalla morte e ora siede alla destra del Padre. Gesù, si mette a sedere perché offre un insegnamento importante, la luce per comprendere e riconoscere l’amore di Dio.
«… Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi», «… perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!» a gloria di Dio Padre» (Fil 2, 10-11). Il Crocifisso Risorto in ogni eucaristia siede in mezzo ai suoi discepoli per i quali ha versato il suo sangue e con i quali ancora parteci alle loro sofferenze. Sono esse, infatti, che destabilizzano, soprattutto il dolore innocente. Una malattia grave, una morte improvvisa, un’accusa infamante che porta a perdere molto o tutto quello che si ha, una pandemia, come quella che stiamo vivendo, con conseguenze disastrose sulla tenuta delle nostre famiglie, questi sono esempi di croce nella quale si stenta a capire quale sia il senso, dove la situazione ci sta portando e dove è Dio in questi frangenti. Il Risorto ci indica la verità: Lui rimane sempre quel fratello che sulla croce si è fatto prossimo ad ogni uomo, soprattutto al povero, a colui che piange per la morte che si avvicina o che gli ha portato via un affetto, a colui che subisce ingiustizie e a colui che soffre a causa anche delle sue scelte sbagliate. Dio si piega ancora sui nostri piedi per prendersi cura di noi e non ci abbandona. Tuttavia, il Crocifisso Risorto ci insegna che nella prova, soprattutto quella che sembra schiacciarci e annullarci, dobbiamo piegare le ginocchia, per pregare e per servire i fratelli. L’eucaristia allora non sarà semplicemente un rito che si ripete con gesti e parole che a volte vengono fraintesi e di cui spesso non si comprende il significato. Nell’eucaristia guardiamo Gesù e ascoltiamo la sua parola: vi ho dato l’esempio. San Pietro, pecorella smarrita del gregge di Gesù davanti alla prova della croce e poi recuperata dal Buon Pastore, diventato lui stesso pastore della Chiesa, memore della prova e dell’esperienza della misericordia di Dio esorta coloro che portano la loro croce innocentemente: «… Se, facendo il bene, sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio. A questo infatti siete stati chiamati, perché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme: egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca; insultato, non rispondeva con insulti,
maltrattato, non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia. Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti. Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime» (1 Pt 2, 19-25).
Auguro a tutti una serena giornata e vi benedico di cuore!