CAMMINIAMO NELLA CHIESA PER PASSARE DALL’EGOISMO ALLA LIBERTA’ DI DONARCI IN CRISTO
Il Vangelo di oggi è un’immagine fedele della nostra vita, sorprendentemente attuale e profetica. Una vigna che è un seno materno, curato e difeso, opera di un Dio pieno d’amore, provvidente e infinitamente generoso; una vigna come le viscere di una madre, piantata nella storia come il segno vivido e bello di un Dio proteso a creare qualcuno capace di partecipare del suo stesso essere Dio, del suo amore fecondo e creativo. Una vigna come un utero fecondato dallo Spirito Santo, Ruah di Dio effuso sulla carne perché produca i suoi frutti squisiti: “I frutti dello Spirito sono perfezioni che lo Spirito Santo plasma in noi come primizie della gloria eterna. La tradizione della Chiesa ne enumera dodici: “amore, gioia, pace, pazienza, longanimità, bontà, benevolenza, mitezza, fedeltà, modestia, continenza, castità” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1832). Per questi frutti Dio ha avuto una pazienza infinita.
In gioco infatti, è la salvezza di ciascun uomo di ogni generazione. In questo contesto occorre ascoltare la parabola: tutto quello che in essa accade rivela l’ostinato amore di Dio per ogni uomo, testimoniato dall’importanza assoluta che per il “Padrone” hanno i frutti della vigna. Per essi è disposto a sacrificare tutto, persino se stesso. Quei frutti, infatti, sono la sua mano distesa a cercare e a salvare, non può restare ferma e inattiva. Ad ogni frutto non raccolto corrisponde un uomo cui è stata sottratta la possibilità di salvarsi. I vignaioli non devono far altro che custodire e consegnare i frutti per i quali il Padrone ha investito tutto. E, invece sorgono in loro invidia, omicidio, concupiscenza, in un parossismo di violenza che non ha fine. I vignaioli sono preda di una carne schiava, imprigionata dalle passioni, che esplode al momento del raccolto, quando si debbono fare i conti. Dare e avere, questo l’angusto limite nel quale i vignaioli avevano chiuso il loro sterile rapporto con il padrone, giocato sulle convenienze, senza un briciolo di amore. I loro occhi erano accecati dall’inganno più feroce, quello sussurrato dal serpente ai piedi dell’albero della vita, secondo il quale Dio non è amore, ma solo leggi, e sbarramenti, e tabù, e ingiustizie.
E se Dio non è amore, allora niente amore in nessuno, l’equazione è fin troppo semplice, e il risultato è inevitabilmente quello di lottare per diventare come dio. E giù violenza, apparentemente senza senso, senza moventi, se non quelli d’un veleno che scorre impazzito nelle vene, nei cuori e nelle menti. Tutto è avvelenato perché qualcuno aveva rubato dal cuore dei vignaioli il senso più profondo della loro vita, della missione loro affidata. Così come per ciascuno di noi quando, per l’inganno del demonio, smarriamo l’ambito nel quale siamo stati chiamati alla vita, l’unicità della nostra vocazione e confondiamo tragicamente l’amore con il possesso, il dono con l’appropriazione, la Grazia con l’esigenza. Siamo nati per dare i frutti, non per saziarci di essi. Essi non ci appartengono, ci sono donati per la salvezza di coloro ai quali è destinata la nostra vita: marito, moglie, figli, amici, fidanzati, colleghi, chiunque, sino ai nemici. Appropriarcene significherebbe finire con l’uccidere, con violenza senza limiti, se stessi prima e chi ci è intorno poi. Ma Dio non si arrende. E ci viene a cercare, e ad ogni peccato – sempre figlio dell’orgoglio assassino – risponde con più amore. Più servi inviati, più Grazia, più misericordia. Apostoli, catechisti, presbiteri, e fratelli, amici, genitori, la Chiesa intera ad annunciarci la Verità, l’amore di Dio per il quale esistiamo. Sino al sacrificio di suo Figlio, l’amore estremo, folle, per ciascuno di noi, per ogni uomo.
Dio non ha altra pedagogia che questa pazienza intrisa di misericordia, senza misura, per salvare ad ogni costo chi gronda violenza oltre ogni limite. Perché Dio ama davvero, conosce la debolezza, non si scandalizza, sa che l’unica risposta al male iniettato dal demonio è un amore più grande, sino al corpo del suo Figlio, offerto in sacrificio, sperando che almeno Lui sia accolto. Ma niente, il peccato è troppo grande, l’avidità ha reso insensibili e ciechi i vignaioli oramai schiavi del nemico; e il Figlio giace appeso ad una Croce, lì, fuori della vigna, rifiutato insieme alla missione che il Padrone aveva loro affidata. E tutta la violenza, i peccati, gli inganni vengono caricati sulle sue carni. E, nella solitudine riservata al capro espiatorio il giorno di Yom Kippur, il grande giorno dell’Espiazione, svela l’amore autentico che si carica spontaneamente d’ogni peccato, amore consumato e compiuto nel perdono, di cui la risurrezione ne è la prova. L’ultimo divenuto primo, il rigettato divenuto testata d’angolo. E’ questa l’opera di Dio, ed è una meraviglia agli occhi degli uomini che conoscono solo il male e la vendetta quale unica risposta possibile. In questo amore si rivela la vittoria della pazienza infinita di Dio: noi, vecchi coltivatori fraudolenti e assassini, rinnovati nel Suo sangue per poter consegnare i frutti a suo tempo.
Così, “il regno di Dio strappato” al nostro uomo vecchio per “essere consegnato” all’uomo nuovo, ricreato nella nuova ed eterna Alleanza siglata nel sangue di Cristo, perché dia i frutti di salvezza predisposti per ogni uomo. La pazienza di Dio ha ragione di ogni peccato, e ci attira nei suoi ritmi, ci strappa al parossismo delle concupiscenze e ci fa guardare chi ci è accanto fissando il frutto che è chiamato a dare, operando in tutto perché possa accogliere l’amore di Dio per mezzo dello Spirito Santo. La pazienza di Dio ci fa pazienti, segno della sua longanimità che, sola, è capace di attirare e salvare.