Questo brano del Vangelo di Giovanni è denso di significato, è complesso e può anche risultare un po’ difficile da comprendere, per questo va letto considerando quanto l’evangelista giochi sul piano dei simboli: dobbiamo perciò sforzarci di entrare in questa sua modalità di esprimersi per orientare nel modo migliore l’interpretazione del brano. I punti di vista da cui partire per comprendere il testo e le tematiche che scaturiscono dalla sua lettura sono molteplici: l’identità di Gesù; l’evangelizzazione della Samaria; l’atteggiamento dei discepoli nei confronti del maestro e dei samaritani; il vero culto; gli incontri e i rapporti tra diverse etnie, tutti temi che nella narrazione si rincorrono e si intrecciano.
Per il sussidio, terremo in considerazione il brano a partire dal punto di vista della donna di Samaria.
Per prima cosa notiamo che il suo incontro con Gesù si offre attraverso un dialogo in cui si sviluppano due aspetti fondamentali: l’acqua necessaria alla vita e desiderabile sul piano spirituale e il culto corretto e credibile.
Il primo impatto che avviene tra i due personaggi sottolinea la loro distanza, dal momento che Gesù è un giudeo e lei se ne accorge, anche se non riusciamo a comprendere come: forse dal suo accento? Lui è un uomo in viaggio e lei è una donna residente in quella città: è Gesù che per primo getta un ponte di comunicazione, tentando di superare la barriera etnica e sessista che li separava, ed esprimendo ciò di cui ha bisogno: in quell’ora particolare del giorno fa particolarmente caldo e lui ha sete!
L’acqua che serviva alla donna viene da un pozzo attribuito all’antico patriarca Giacobbe, ma quel tempo le donne non andavano a prendere acqua nell’ora più calda del giorno, perciò potrebbe anche essere che la samaritana agisse in segretezza, non volendo incontrare nessuno ed incappando, invece, proprio in Gesù, in colui che le farà capire che la sua sete è ben diversa da quella materiale, cosa che lei ancora non sa.
Comunque sia, il dialogo è ormai iniziato ed è tutto orientato verso la scoperta che desidera farle di se stesso, di colui che può dare un significato nuovo alla vita delle persone che incontra.
Nel dialogo si coglie il progressivo avvicinamento della donna a Gesù ripercorrendo i titoli che lei stessa usa nei confronti del Maestro. Inizialmente egli è definito giudeo, dunque distante e sicuramente sprezzante – secondo lei – la sua persona per la diversa impostazione di fede e di culto che le era propria.
Sentita la proposta di offrirle un’acqua che disseta per la vita eterna, inconsapevole del significato di tale dono, chiede di averne per non dover più andare al pozzo: la samaritana rimane ancora ferma sul piano molto concreto del bisogno fisico, dimostrando così la necessità di un ulteriore spazio di comprensione.
È a questo punto che Gesù sposta la sua attenzione dall’acqua ai mariti avuti, dichiarandole che conosce la sua situazione: si tratta dunque di un profeta? In questo frangente emerge il secondo aspetto prospettato all’inizio del commento: il senso del vero culto da svolgere in uno o nell’altro luogo considerato sacro. Forse la donna pone tale questione per non dover affrontare il discorso, imbarazzante, sui suoi uomini
Riprendiamo dunque le parole di Gesù: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità».
Dio è spirito e lo Spirito, come si sa, soffia dove vuole e abita nei cuori: questo sarà il luogo più autentico dove adorare Dio, la vera casa che Lui stesso abita accettando di porsi sempre nella precarietà che caratterizza l’umanità, per la sua realtà creaturale.
Dopo aver espresso quella sua intuizione su Gesù profeta del Signore Dio, la donna va però oltre, lascia che il dubbio prevalga e lo presenta al lettore: forse costui è il Messia atteso? Quel giudeo, Signore datore di acqua viva, glielo conferma e lei è sicura che la sua risposta è vera proprio perché ha saputo annunciarle ogni cosa – la sua vita – facendole capire l’origine di quella sua sete: il bisogno che ha, infinito, di relazioni autentiche, di amore vero e sincero nell’offrirsi vicendevole.
È molto bello vedere che l’incontro avuto con il Signore Gesù non ha determinato un risvolto positivo solo per la donna, diventando invece ricchezza condivisa fra i suoi, nella città. La donna infatti corre verso le persone che conosceva – e che la conoscevano – diventando testimone del suo incontro con Gesù, con colui che, rivelando la verità, diventa per tutti e tutte il centro di attrazione, la sorgente dell’acqua viva da lui offerta. Gli abitanti di Samaria si avvicinano quindi a Gesù riconoscendo la donna quale canale di rivelazione ma solo per quel momento iniziale del loro incontro: successivamente, loro stessi potranno accedere direttamente alla fonte. La samaritana può ben essere considerata un modello di evangelizzatrice, ossia di colei che annuncia la buona novella di Gesù ritirandosi al momento giusto per permettere ad ogni persona di incontrare direttamente il Cristo che salva; una donna che evangelizza per l’esperienza fatta di sete appagata e di vita rinnovata.
Infine, ritorniamo all’anfora che la donna aveva portato con sé per raccogliere l’acqua attinta dal pozzo: non le servirà più? L’anfora lasciata cadere ed abbandonata esprime – nella sua simbologia – l’appagamento del bisogno che lei celava nel suo cuore, quello di riconoscere la sua vita come bisognosa di autenticità e verità. Gesù è l’amore vero che riempie e proprio da lei, ora, scaturirà l’acqua viva che saprà offrire raccontando la sua esperienza di incontro – di salvezza – con il Cristo-Messia atteso.
Un’ultima precisazione: l’espressione acqua viva per la vita eterna può forse portarci lontano dal bisogno che nel quotidiano vivere si ha di Gesù, ma va sempre ribadito ed è necessario aver ben chiaro nella mente e nel cuore che Gesù è già qui, presente in mezzo a noi, Vivente e datore di vita, capace di risollevare chi a lui si rivolge (e non solo).
Nei vv. 31-38 leggiamo un intricante dialogo con i discepoli che, stupiti, si chiedono di cosa stia parlando Gesù. Anche noi rimaniamo alquanto sospesi su tale discorso, e ci chiediamo cosa significhi: è un invito a saper discernere ciò che accadrà o vuole indicarci qualcosa di più, l’evangelista, inserendo proprio qua questa profezia sul raccolto futuro? Gesù sta affermando che, nonostante non sia il tempo del raccolto – si dovrà aspettare ancora quattro mesi, per questo – un “raccolto” avviene per la samaritana stessa con i suoi concittadini, grazie all’incontro personale che sperimentò con Gesù. Il racconto anticipa dunque la futura evangelizzazione della Samaria, come ci testimonia il Libro degli Atti al cap. 8.
Prima della preghiera finale, sarà interessante e arricchente per tutti/e raccogliere le considerazioni maturate da Etty Hillesum durante uno dei periodi più bui e devastanti del secolo scorso, la II guerra mondiale con la deportazione degli ebrei nei campi di concentramento nazisti.
La pagina è riportata nel suo diario ed è datata 12 luglio 1942, una domenica mattina:
Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano le immagini di dolore umano. Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi[1].
Anche lei come sant’Agostino ed Emily Dickinson ha fatto l’esperienza di sentirsi inabitata da Dio, esprimendone l’importanza e testimoniando le responsabilità che questo comporta per ogni uomo e donna di fede.
[1] E. Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi, Milano 2006, 169.
Preghiera finale
È toccato anche a me, Gesù:
un giorno ti ho incontrato
come un povero, come un assetato,
come un viandante stanco che chiede aiuto.
Hai dovuto vincere le mie reticenze,
i miei sospetti ed i miei dubbi
per offrirmi una possibilità nuova:
un’acqua che zampilla per la vita eterna.
Un po’ alla volta tu mi hai aperto gli occhi
sulla mia esistenza, mi hai fatto riconoscere
i miei fallimenti e le mie ferite,
i miei peccati e le mie infedeltà.
Ho cercato di resisterti,
ho accampato discussioni fatte apposta
per guadagnare tempo,
per portare altrove l’attenzione.
Tu mi hai condotto all’essenziale,
a quello che conta veramente
e ti sei rivelato non solo come un saggio,
come un maestro spirituale,
o addirittura come un profeta,
ma come l’Inviato di Dio, il Messia, il suo Cristo.
È toccato anche a me, Signore,
ad uno dei pozzi della storia
d’incontrarti e di riconoscerti come il Salvatore,
come l’Unico capace di colmare
la mia sete più profonda. Amen!
(don Roberto Laurita)
A cura del SAB – Settore Apostolato Biblico
Fonte: il sussidio per la Quaresima 2020 della Diocesi di Verona