Don Luciano Labanca – Commento al Vangelo del 8 Marzo 2020

Nel cuore del cammino quaresimale, segnato da penitenza, preghiera e più frequente meditazione del mistero della Passione e della croce di Gesù, contemplare la scena luminosa che il Vangelo ci racconta in questa domenica sembra apparentemente fuori luogo, quasi una nota stonata.

Ad una riflessione più profonda, però, si comprende come siamo invitati alla maniera dei discepoli a vedere la luce della divinità di Cristo, togliendo per un attimo il velo della sua umanità, quasi a prendere una boccata di ossigeno in questo percorso in salita. Dopo aver annunciato la strada della croce, nel capitolo precedente, come portando i suoi discepoli per mano, Gesù li conduce in disparte, perché questa rivelazione non è per tutti. Essa serve come iniezione di speranza e di fede a chi, a breve, dovrà vederlo umiliato e sofferente sul Calvario. Questo sguardo anticipato sulla meta, come per i discepoli, diventa stimolo anche per la Chiesa che si prepara a celebrare il mistero della Passione e Morte di Gesù, sapendo che il fine non è l’umiliazione della croce, ma la gloria della risurrezione.

Gesù viene trasformato, come dice il testo greco, “subì una metamorfosi“, cambió di aspetto. Dall’ordinaria umanità manifesta la sua luce divina, presentandosi come interlocutore più che alla pari in questo dialogo con Mosè ed Elia, il Pentateuco e i Profeti. Colui che nel discorso della montagna poteva dire “avete inteso che fu detto… ma io vi dico” (cfr. Mt 5), è ora rivelato come il vero contenuto delle antiche scritture. Tutto si riferiva a Lui! Pietro si fa voce dei discepoli, inebriato dalla luce: vorrebbe bloccare per sempre quel momento, abitando nella gloria. Il progetto del Padre, però, è differente: scende una nube dal cielo, segno della presenza divina, quella stessa nube che si manifestava ad Israele peregrinante nel deserto, prefigurazione della nuova tenda (shekinà) dello Spirito che scese su Maria nell’atto di accogliere la chiamata ad essere madre di Gesù (cfr. Lc 1,35).

Viene riposto il velo sulla divinità del Figlio, ricordando che la vera rivelazione passa attraverso l’umanità, fino al momento supremo dello svelamento scomodo sulla croce, quando il centurione potrà affermare: “Davvero costui era il figlio di Dio” (Mt 27,54). Accanto agli elementi “visuali”, questa teofania presenta anche una dimensione sonora: il Padre stesso prende la parola, per indicare nel Figlio il centro di tutto, oggetto del suo amore e della sua compiacenza. Per entrare in questa comunione con la sua Luce occorre l’ascolto. Senza la fede nella sua Parola, non c’è possibilità di vivere il percorso del discepolato, specialmente per superare il momento della prova e della sofferenza. Aggrapparsi alla parola di Gesù, dunque, diviene una grande occasione per affrontare le prove quotidiane, specialmente nei tempi di maggior paura e incertezza.

Commentando questo episodio, San Pietro ci ricorda: “Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte. E abbiamo anche, solidissima, la parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e non sorga nei vostri cuori la stella del mattino” (2Pt 1, 18-19).


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