Una di quelle pagine che da sola vale tutto il Vangelo: è l’incontro con Zaccheo. Pare quasi di vederlo: piccolotto e tarchiatello, che cerca di vedere, in mezzo alla folla che lo acclamava, quale fosse quel Gesù di cui aveva sicuramente sentito parlare.
Lo cercava, forse senza sapere fino in fondo il perché, e qualcosa che supera la curiosità lo spinge a salire su un grosso albero, un sicomoro, per poter osservare indisturbato la scena.
Poi l’incrocio degli sguardi: Zaccheo e Gesù, come se fossero soli al mondo, come se si aspettasero da sempre.
Di colpo Zaccheo comprende che cosa lo muoveva dentro: non era il peccatore che cercava il redentore, ma Gesù stesso che cercava Zaccheo. Era venuto per lui.
C’è un verbo nei vangeli, coniugato in prima persona, che ricorre con frequenza sulle labbra di Gesù, e ogni volta fa sempre più impressione: “Io devo”. “Zaccheo, scendi subito. Io devo fermarmi a casa tua”. Io devo: in questo verbo c’è tutto il mistero della redenzione. Gesù, il Signore, sovranamente libero, Dio vero da Dio vero, “deve”. Lo stesso verbo lo troviamo in contesto drammatico, quando Gesù annuncia la sua imminente passione: Il Figlio dell’uomo deve soffrire, essere messo a morte e risorgere il terzo giorno.
La libertà infinita e perfettissima di Dio coincide con il dovere, il dovere di raggiungere l’uomo là dove è andato a perdersi, il dovere di essere solidale con la creatura tanto amata, da farsi non solo uomo, ma uomo che soffre e che muore.
È la perfezione dell’amore, e solo la fede può comprenderla. È quell’amore che ha toccato e stravolto la vita di Zaccheo. La sua conversione segnò il cambiamento dei presupposti morali della sua vita, ma non fu un fatto prima di tutto morale.
Cercare l’amore della vita, l’amore che da senso alla vita, l’amore che ispira la vita, fino al punto di scoprire che è l’amore che viene a cercare te.
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