PAOLO VESCOVO
SERVO DEI SERVI DI DIO
UNITAMENTE AI PADRI DEL SACRO CONCILIO
A PERPETUA MEMORIA
COSTITUZIONE DOGMATICA SULLA CHIESA
LUMEN GENTIUM
21 novembre 1964
CAPITOLO I
IL MISTERO DELLA CHIESA
La Chiesa è sacramento in Cristo
1. Cristo è la luce delle genti: questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera dunque ardentemente, annunciando il Vangelo ad ogni creatura (cfr. Mc 16,15), illuminare tutti gli uomini con la luce del Cristo che risplende sul volto della Chiesa. E siccome la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano, continuando il tema dei precedenti Concili, intende con maggiore chiarezza illustrare ai suoi fedeli e al mondo intero la propria natura e la propria missione universale. Le presenti condizioni del mondo rendono più urgente questo dovere della Chiesa, affinché tutti gli uomini, oggi più strettamente congiunti dai vari vincoli sociali, tecnici e culturali, possano anche conseguire la piena unità in Cristo.
Disegno salvifico universale del Padre
2. L’eterno Padre, con liberissimo e arcano disegno di sapienza e di bontà, creò l’universo; decise di elevare gli uomini alla partecipazione della sua vita divina; dopo la loro caduta in Adamo non li abbandonò, ma sempre prestò loro gli aiuti per salvarsi, in considerazione di Cristo redentore, « il quale è l’immagine dell’invisibile Dio, generato prima di ogni creatura » (Col 1,15). Tutti infatti quelli che ha scelto, il Padre fino dall’eternità « li ha distinti e li ha predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, affinché egli sia il primogenito tra molti fratelli » (Rm 8,29). I credenti in Cristo, li ha voluti chiamare a formare la santa Chiesa, la quale, già annunciata in figure sino dal principio del mondo, mirabilmente preparata nella storia del popolo d’Israele e nell’antica Alleanza [1], stabilita infine « negli ultimi tempi », è stata manifestata dall’effusione dello Spirito e avrà glorioso compimento alla fine dei secoli. Allora, infatti, come si legge nei santi Padri, tutti i giusti, a partire da Adamo, « dal giusto Abele fino all’ultimo eletto » [2], saranno riuniti presso il Padre nella Chiesa universale.
Missione del Figlio
3. È venuto quindi il Figlio, mandato dal Padre, il quale ci ha scelti in lui prima della fondazione del mondo e ci ha predestinati ad essere adottati in figli, perché in lui volle accentrare tutte le cose (cfr. Ef 1,4-5 e 10). Perciò Cristo, per adempiere la volontà del Padre, ha inaugurato in terra il regno dei cieli e ci ha rivelato il mistero di lui, e con la sua obbedienza ha operato la redenzione. La Chiesa, ossia il regno di Cristo già presente in mistero, per la potenza di Dio cresce visibilmente nel mondo. Questo inizio e questa crescita sono significati dal sangue e dall’acqua, che uscirono dal costato aperto di Gesù crocifisso (cfr. Gv 19,34), e sono preannunziati dalle parole del Signore circa la sua morte in croce: « Ed io, quando sarò levato in alto da terra, tutti attirerò a me » (Gv 12,32). Ogni volta che il sacrificio della croce, col quale Cristo, nostro agnello pasquale, è stato immolato (cfr. 1 Cor 5,7), viene celebrato sull’altare, si rinnova l’opera della nostra redenzione. E insieme, col sacramento del pane eucaristico, viene rappresentata ed effettuata l’unità dei fedeli, che costituiscono un solo corpo in Cristo (cfr. 1 Cor 10,17). Tutti gli uomini sono chiamati a questa unione con Cristo, che è la luce del mondo; da lui veniamo, per mezzo suo viviamo, a lui siamo diretti.
Lo Spirito santificatore della Chiesa
4. Compiuta l’opera che il Padre aveva affidato al Figlio sulla terra (cfr. Gv 17,4), il giorno di Pentecoste fu inviato lo Spirito Santo per santificare continuamente la Chiesa e affinché i credenti avessero così attraverso Cristo accesso al Padre in un solo Spirito (cfr. Ef 2,18). Questi è lo Spirito che dà la vita, una sorgente di acqua zampillante fino alla vita eterna (cfr. Gv 4,14; 7,38-39); per mezzo suo il Padre ridà la vita agli uomini, morti per il peccato, finché un giorno risusciterà in Cristo i loro corpi mortali (cfr. Rm 8,10-11). Lo Spirito dimora nella Chiesa e nei cuori dei fedeli come in un tempio (cfr. 1 Cor 3,16; 6,19) e in essi prega e rende testimonianza della loro condizione di figli di Dio per adozione (cfr. Gal 4,6; Rm 8,15-16 e 26). Egli introduce la Chiesa nella pienezza della verità (cfr. Gv 16,13), la unifica nella comunione e nel ministero, la provvede e dirige con diversi doni gerarchici e carismatici, la abbellisce dei suoi frutti (cfr. Ef 4,11-12; 1 Cor 12,4; Gal 5,22). Con la forza del Vangelo la fa ringiovanire, continuamente la rinnova e la conduce alla perfetta unione col suo Sposo [3]. Poiché lo Spirito e la sposa dicono al Signore Gesù: « Vieni » (cfr. Ap 22,17).
Così la Chiesa universale si presenta come « un popolo che deriva la sua unità dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo » [4].
Il regno di Dio
5. Il mistero della santa Chiesa si manifesta nella sua stessa fondazione. Il Signore Gesù, infatti, diede inizio ad essa predicando la buona novella, cioè l’avvento del regno di Dio da secoli promesso nella Scrittura: « Poiché il tempo è compiuto, e vicino è il regno di Dio » (Mc 1,15; cfr. Mt 4,17). Questo regno si manifesta chiaramente agli uomini nelle parole, nelle opere e nella presenza di Cristo. La parola del Signore è paragonata appunto al seme che viene seminato nel campo (cfr. Mc 4,14): quelli che lo ascoltano con fede e appartengono al piccolo gregge di Cristo (cfr. Lc 12,32), hanno accolto il regno stesso di Dio; poi il seme per virtù propria germoglia e cresce fino al tempo del raccolto (cfr. Mc 4,26-29). Anche i miracoli di Gesù provano che il regno è arrivato sulla terra: « Se con il dito di Dio io scaccio i demoni, allora è già pervenuto tra voi il regno di Dio » (Lc 11,20; cfr. Mt 12,28). Ma innanzi tutto il regno si manifesta nella stessa persona di Cristo, figlio di Dio e figlio dell’uomo, il quale è venuto « a servire, e a dare la sua vita in riscatto per i molti » (Mc 10,45). Quando poi Gesù, dopo aver sofferto la morte in croce per gli uomini, risorse, apparve quale Signore e messia e sacerdote in eterno (cfr. At 2,36; Eb 5,6; 7,17-21), ed effuse sui suoi discepoli lo Spirito promesso dal Padre (cfr. At 2,33). La Chiesa perciò, fornita dei doni del suo fondatore e osservando fedelmente i suoi precetti di carità, umiltà e abnegazione, riceve la missione di annunziare e instaurare in tutte le genti il regno di Cristo e di Dio, e di questo regno costituisce in terra il germe e l’inizio. Intanto, mentre va lentamente crescendo, anela al regno perfetto e con tutte le sue forze spera e brama di unirsi col suo re nella gloria.
Le immagini della Chiesa
6. Come già nell’Antico Testamento la rivelazione del regno viene spesso proposta in figure, così anche ora l’intima natura della Chiesa ci si fa conoscere attraverso immagini varie, desunte sia dalla vita pastorale o agricola, sia dalla costruzione di edifici o anche dalla famiglia e dagli sponsali, e che si trovano già abbozzate nei libri dei profeti.
La Chiesa infatti è un ovile, la cui porta unica e necessaria è Cristo (cfr. Gv 10,1-10). È pure un gregge, di cui Dio stesso ha preannunziato che ne sarebbe il pastore (cfr. Is 40,11; Ez 34,11 ss), e le cui pecore, anche se governate da pastori umani, sono però incessantemente condotte al pascolo e nutrite dallo stesso Cristo, il buon Pastore e principe dei pastori (cfr. Gv 10,11; 1 Pt 5,4), il quale ha dato la vita per le pecore (cfr. Gv 10,11-15).
La Chiesa è il podere o campo di Dio (cfr. 1 Cor 3,9). In quel campo cresce l’antico olivo, la cui santa radice sono stati i patriarchi e nel quale è avvenuta e avverrà la riconciliazione dei Giudei e delle Genti (cfr. Rm 11,13-26). Essa è stata piantata dal celeste agricoltore come vigna scelta (Mt 21,33-43, par.; cfr. Is 5,1 ss). Cristo è la vera vite, che dà vita e fecondità ai tralci, cioè a noi, che per mezzo della Chiesa rimaniamo in lui, e senza di lui nulla possiamo fare (cfr. Gv 15,1-5).
Più spesso ancora la Chiesa è detta edificio di Dio (cfr. 1 Cor 3,9). Il Signore stesso si paragonò alla pietra che i costruttori hanno rigettata, ma che è divenuta la pietra angolare (Mt 21,42 par.). Sopra quel fondamento la Chiesa è costruita dagli apostoli (cfr. 1 Cor 3,11) e da esso riceve stabilità e coesione. Questo edificio viene chiamato in varie maniere: casa di Dio (cfr. 1 Tm 3,15), nella quale cioè abita la sua famiglia, la dimora di Dio nello Spirito (cfr. Ef 2,19-22), la dimora di Dio con gli uomini (cfr. Ap 21,3), e soprattutto tempio santo, il quale, rappresentato dai santuari di pietra, è l’oggetto della lode dei santi Padri ed è paragonato a giusto titolo dalla liturgia alla città santa, la nuova Gerusalemme [5]. In essa infatti quali pietre viventi veniamo a formare su questa terra un tempio spirituale (cfr. 1 Pt 2,5). E questa città santa Giovanni la contempla mentre, nel momento in cui si rinnoverà il mondo, scende dal cielo, da presso Dio, « acconciata come sposa adornatasi per il suo sposo » (Ap 21,1s).
La Chiesa, chiamata « Gerusalemme celeste » e « madre nostra » (Gal 4,26; cfr. Ap 12,17), viene pure descritta come l’immacolata sposa dell’Agnello immacolato (cfr. Ap 19,7; 21,2 e 9; 22,17), sposa che Cristo « ha amato.. . e per essa ha dato se stesso, al fine di santificarla » (Ef 5,26), che si è associata con patto indissolubile ed incessantemente « nutre e cura » (Ef 5,29), che dopo averla purificata, volle a sé congiunta e soggetta nell’amore e nella fedeltà (cfr. Ef 5,24), e che, infine, ha riempito per sempre di grazie celesti, onde potessimo capire la carità di Dio e di Cristo verso di noi, carità che sorpassa ogni conoscenza (cfr. Ef 3,19). Ma mentre la Chiesa compie su questa terra il suo pellegrinaggio lontana dal Signore (cfr. 2 Cor 5,6), è come un esule, e cerca e pensa alle cose di lassù, dove Cristo siede alla destra di Dio, dove la vita della Chiesa è nascosta con Cristo in Dio, fino a che col suo sposo comparirà rivestita di gloria (cfr. Col 3,1-4).
La Chiesa, corpo mistico di Cristo
7. Il Figlio di Dio, unendo a sé la natura umana e vincendo la morte con la sua morte e resurrezione, ha redento l’uomo e l’ha trasformato in una nuova creatura (cfr. Gal 6,15; 2 Cor 5,17). Comunicando infatti il suo Spirito, costituisce misticamente come suo corpo i suoi fratelli, che raccoglie da tutte le genti.
In quel corpo la vita di Cristo si diffonde nei credenti che, attraverso i sacramenti si uniscono in modo arcano e reale a lui sofferente e glorioso [6]. Per mezzo del battesimo siamo resi conformi a Cristo: « Infatti noi tutti « fummo battezzati in un solo Spirito per costituire un solo corpo » (1 Cor 12,13). Con questo sacro rito viene rappresentata e prodotta la nostra unione alla morte e resurrezione di Cristo: « Fummo dunque sepolti con lui per l’immersione a figura della morte »; ma se, fummo innestati a lui in una morte simile alla sua, lo saremo anche in una resurrezione simile alla sua » (Rm 6,4-5). Partecipando realmente del corpo del Signore nella frazione del pane eucaristico, siamo elevati alla comunione con lui e tra di noi: « Perché c’è un solo pane, noi tutti non formiamo che un solo corpo, partecipando noi tutti di uno stesso pane» (1 Cor 10,17). Così noi tutti diventiamo membri di quel corpo (cfr. 1 Cor 12,27), «e siamo membri gli uni degli altri» (Rm 12,5).
Ma come tutte le membra del corpo umano, anche se numerose, non formano che un solo corpo così i fedeli in Cristo (cfr. 1 Cor 12,12). Anche nella struttura del corpo mistico di Cristo vige una diversità di membri e di uffici. Uno è lo Spirito, il quale per l’utilità della Chiesa distribuisce la varietà dei suoi doni con magnificenza proporzionata alla sua ricchezza e alle necessità dei ministeri (cfr. 1 Cor 12,1-11). Fra questi doni eccelle quello degli apostoli, alla cui autorità lo stesso Spirito sottomette anche i carismatici (cfr. 1 Cor 14). Lo Spirito, unificando il corpo con la sua virtù e con l’interna connessione dei membri, produce e stimola la carità tra i fedeli. E quindi se un membro soffre, soffrono con esso tutte le altre membra; se un membro è onorato, ne gioiscono con esso tutte le altre membra (cfr. 1 Cor 12,26).
Capo di questo corpo è Cristo. Egli è l’immagine dell’invisibile Dio, e in lui tutto è stato creato. Egli è anteriore a tutti, e tutte le cose sussistono in lui. È il capo del corpo, che è la Chiesa. È il principio, il primo nato di tra i morti, affinché abbia il primato in tutto (cfr. Col 1,15-18). Con la grandezza della sua potenza domina sulle cose celesti e terrestri, e con la sua perfezione e azione sovrana riempie delle ricchezze della sua gloria tutto il suo corpo (cfr. Ef 1,18-23) [7].
Tutti i membri devono a lui conformarsi, fino a che Cristo non sia in essi formato (cfr. Gal 4,19). Per ciò siamo collegati ai misteri della sua vita, resi conformi a lui, morti e resuscitati con lui, finché con lui regneremo (cfr. Fil 3,21; 2 Tm 2,11; Ef 2,6). Ancora peregrinanti in terra, mentre seguiamo le sue orme nella tribolazione e nella persecuzione, veniamo associati alle sue sofferenze, come il corpo al capo e soffriamo con lui per essere con lui glorificati (cfr. Rm 8,17). Da lui « tutto il corpo ben fornito e ben compaginato, per mezzo di giunture e di legamenti, riceve l’aumento voluto da Dio » (Col 2,19). Nel suo corpo, che è la Chiesa, egli continuamente dispensa i doni dei ministeri, con i quali, per virtù sua, ci aiutiamo vicendevolmente a salvarci e, operando nella carità conforme a verità, andiamo in ogni modo crescendo verso colui, che è il nostro capo (cfr. Ef 5,11-16 gr.).
Perché poi ci rinnovassimo continuamente in lui (cfr. Ef 4,23), ci ha resi partecipi del suo Spirito, il quale, unico e identico nel capo e nelle membra, dà a tutto il corpo vita, unità e moto, così che i santi Padri poterono paragonare la sua funzione con quella che il principio vitale, cioè l’anima, esercita nel corpo umano [8]. Cristo inoltre ama la Chiesa come sua sposa, facendosi modello del marito che ama la moglie come il proprio corpo (cfr. Ef 5,25-28); la Chiesa poi è soggetta al suo capo. E poiché «in lui abita congiunta all’umanità la pienezza della divinità » (Col 2,9), egli riempie dei suoi doni la Chiesa la quale è il suo corpo e la sua pienezza (cfr. Ef 1,22-23), affinché essa sia protesa e pervenga alla pienezza totale di Dio (cfr. Ef 3,19).
La Chiesa, realtà visibile e spirituale
8. Cristo, unico mediatore, ha costituito sulla terra e incessantemente sostenta la sua Chiesa santa, comunità di fede, di speranza e di carità [9], quale organismo visibile, attraverso il quale diffonde per tutti la verità e la grazia. Ma la società costituita di organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo, l’assemblea visibile e la comunità spirituale, la Chiesa terrestre e la Chiesa arricchita di beni celesti, non si devono considerare come due cose diverse; esse formano piuttosto una sola complessa realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino [10]. Per una analogia che non è senza valore, quindi, è paragonata al mistero del Verbo incarnato. Infatti, come la natura assunta serve al Verbo divino da vivo organo di salvezza, a lui indissolubilmente unito, così in modo non dissimile l’organismo sociale della Chiesa serve allo Spirito di Cristo che la vivifica, per la crescita del corpo (cfr. Ef 4,16) [11].
Questa è l’unica Chiesa di Cristo, che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica [12] e che il Salvatore nostro, dopo la sua resurrezione, diede da pascere a Pietro (cfr. Gv 21,17), affidandone a lui e agli altri apostoli la diffusione e la guida (cfr. Mt 28,18ss), e costituì per sempre colonna e sostegno della verità (cfr. 1 Tm 3,15). Questa Chiesa, in questo mondo costituita e organizzata come società, sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui [13], ancorché al di fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di santificazione e di verità, che, appartenendo propriamente per dono di Dio alla Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica. Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa e chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Gesù Cristo « che era di condizione divina… spogliò se stesso, prendendo la condizione di schiavo » (Fil 2,6-7) e per noi « da ricco che era si fece povero » (2 Cor 8,9): così anche la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria terrena, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione. Come Cristo infatti è stato inviato dal Padre « ad annunciare la buona novella ai poveri, a guarire quei che hanno il cuore contrito » (Lc 4,18), « a cercare e salvare ciò che era perduto» (Lc 19,10), così pure la Chiesa circonda d’affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di sollevarne la indigenza e in loro cerca di servire il Cristo. Ma mentre Cristo, « santo, innocente, immacolato » (Eb 7,26), non conobbe il peccato (cfr. 2 Cor 5,21) e venne solo allo scopo di espiare i peccati del popolo (cfr. Eb 2,17), la Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento. La Chiesa « prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio » [14], annunziando la passione e la morte del Signore fino a che egli venga (cfr. 1 Cor 11,26). Dalla virtù del Signore risuscitato trae la forza per vincere con pazienza e amore le afflizioni e le difficoltà, che le vengono sia dal di dentro che dal di fuori, e per svelare in mezzo al mondo, con fedeltà, anche se non perfettamente, il mistero di lui, fino a che alla fine dei tempi esso sarà manifestato nella pienezza della luce.
IL POPOLO DI DIO
Nuova alleanza e nuovo popolo
9. In ogni tempo e in ogni nazione è accetto a Dio chiunque lo teme e opera la giustizia (cfr. At 10,35). Tuttavia Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità.
Scelse quindi per sé il popolo israelita, stabilì con lui un’alleanza e lo formò lentamente, manifestando nella sua storia se stesso e i suoi disegni e santificandolo per sé. Tutto questo però avvenne in preparazione e figura di quella nuova e perfetta alleanza da farsi in Cristo, e di quella più piena rivelazione che doveva essere attuata per mezzo del Verbo stesso di Dio fattosi uomo. « Ecco venir giorni (parola del Signore) nei quali io stringerò con Israele e con Giuda un patto nuovo… Porrò la mia legge nei loro cuori e nelle loro menti l’imprimerò; essi mi avranno per Dio ed io li avrò per il mio popolo… Tutti essi, piccoli e grandi, mi riconosceranno, dice il Signore » (Ger 31,31-34). Cristo istituì questo nuovo patto cioè la nuova alleanza nel suo sangue (cfr. 1 Cor 11,25), chiamando la folla dai Giudei e dalle nazioni, perché si fondesse in unità non secondo la carne, ma nello Spirito, e costituisse il nuovo popolo di Dio. Infatti i credenti in Cristo, essendo stati rigenerati non di seme corruttibile, ma di uno incorruttibile, che è la parola del Dio vivo (cfr. 1 Pt 1,23), non dalla carne ma dall’acqua e dallo Spirito Santo (cfr. Gv 3,5-6), costituiscono « una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una nazione santa, un popolo tratto in salvo… Quello che un tempo non era neppure popolo, ora invece è popolo di Dio » (1 Pt 2,9-10).
Questo popolo messianico ha per capo Cristo « dato a morte per i nostri peccati e risuscitato per la nostra giustificazione » (Rm 4,25), e che ora, dopo essersi acquistato un nome che è al di sopra di ogni altro nome, regna glorioso in cielo. Ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come in un tempio. Ha per legge il nuovo precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amati (cfr. Gv 13,34). E finalmente, ha per fine il regno di Dio, incominciato in terra dallo stesso Dio, e che deve essere ulteriormente dilatato, finché alla fine dei secoli sia da lui portato a compimento, quando comparirà Cristo, vita nostra (cfr. Col 3,4) e « anche le stesse creature saranno liberate dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla gloriosa libertà dei figli di Dio » (Rm 8,21). Perciò il popolo messianico, pur non comprendendo effettivamente l’universalità degli uomini e apparendo talora come un piccolo gregge, costituisce tuttavia per tutta l’umanità il germe più forte di unità, di speranza e di salvezza. Costituito da Cristo per una comunione di vita, di carità e di verità, è pure da lui assunto ad essere strumento della redenzione di tutti e, quale luce del mondo e sale della terra (cfr. Mt 5,13-16), è inviato a tutto il mondo.
Come già l’Israele secondo la carne peregrinante nel deserto viene chiamato Chiesa di Dio (Dt 23,1 ss.), così il nuovo Israele dell’era presente, che cammina alla ricerca della città futura e permanente (cfr. Eb 13,14), si chiama pure Chiesa di Cristo (cfr. Mt 16,18); è il Cristo infatti che l’ha acquistata col suo sangue (cfr. At 20,28), riempita del suo Spirito e fornita di mezzi adatti per l’unione visibile e sociale. Dio ha convocato tutti coloro che guardano con fede a Gesù, autore della salvezza e principio di unità e di pace, e ne ha costituito la Chiesa, perché sia agli occhi di tutti e di ciascuno, il sacramento visibile di questa unità salvifica [15]. Dovendosi essa estendere a tutta la terra, entra nella storia degli uomini, benché allo stesso tempo trascenda i tempi e i confini dei popoli, e nel suo cammino attraverso le tentazioni e le tribolazioni è sostenuta dalla forza della grazia di Dio che le è stata promessa dal Signore, affinché per la umana debolezza non venga meno alla perfetta fedeltà ma permanga degna sposa del suo Signore, e non cessi, con l’aiuto dello Spirito Santo, di rinnovare se stessa, finché attraverso la croce giunga alla luce che non conosce tramonto.
Il sacerdozio comune dei fedeli
10. Cristo Signore, pontefice assunto di mezzo agli uomini (cfr. Eb 5,1-5), fece del nuovo popolo « un regno e sacerdoti per il Dio e il Padre suo » (Ap 1,6; cfr. 5,9-10). Infatti per la rigenerazione e l’unzione dello Spirito Santo i battezzati vengono consacrati per formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo, per offrire, mediante tutte le attività del cristiano, spirituali sacrifici, e far conoscere i prodigi di colui, che dalle tenebre li chiamò all’ammirabile sua luce (cfr. 1 Pt 2,4-10). Tutti quindi i discepoli di Cristo, perseverando nella preghiera e lodando insieme Dio (cfr. At 2,42-47), offrano se stessi come vittima viva, santa, gradevole a Dio (cfr. Rm 12,1), rendano dovunque testimonianza di Cristo e, a chi la richieda, rendano ragione della speranza che è in essi di una vita eterna (cfr. 1 Pt 3,15) Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro, poiché l’uno e l’altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo [16]. Il sacerdote ministeriale, con la potestà sacra di cui è investito, forma e regge il popolo sacerdotale, compie il sacrificio eucaristico nel ruolo di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo; i fedeli, in virtù del loro regale sacerdozio, concorrono all’offerta dell’Eucaristia [17], ed esercitano il loro sacerdozio col ricevere i sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l’abnegazione e la carità operosa.
Il sacerdozio comune esercitato nei sacramenti
11. Il carattere sacro e organico della comunità sacerdotale viene attuato per mezzo dei sacramenti e delle virtù. I fedeli, incorporati nella Chiesa col battesimo, sono destinati al culto della religione cristiana dal carattere sacramentale; rigenerati quali figli di Dio, sono tenuti a professare pubblicamente la fede ricevuta da Dio mediante la Chiesa [18]. Col sacramento della confermazione vengono vincolati più perfettamente alla Chiesa, sono arricchiti di una speciale forza dallo Spirito Santo e in questo modo sono più strettamente obbligati a diffondere e a difendere la fede con la parola e con l’opera [19], come veri testimoni di Cristo. Partecipando al sacrificio eucaristico, fonte e apice di tutta la vita cristiana, offrono a Dio la vittima divina e se stessi [20] con essa così tutti, sia con l’offerta che con la santa comunione, compiono la propria parte nell’azione liturgica, non però in maniera indifferenziata, bensì ciascuno a modo suo. Cibandosi poi del corpo di Cristo nella santa comunione, mostrano concretamente la unità del popolo di Dio, che da questo augustissimo sacramento è adeguatamente espressa e mirabilmente effettuata.
Quelli che si accostano al sacramento della penitenza, ricevono dalla misericordia di Dio il perdono delle offese fatte a lui; allo stesso tempo si riconciliano con la Chiesa, alla quale hanno inflitto una ferita col peccato e che coopera alla loro conversione con la carità, l’esempio e la preghiera. Con la sacra unzione degli infermi e la preghiera dei sacerdoti, tutta la Chiesa raccomanda gli ammalati al Signore sofferente e glorificato, perché alleggerisca le loro pene e li salvi (cfr. Gc 5,14-16), anzi li esorta a unirsi spontaneamente alla passione e morte di Cristo (cfr. Rm 8,17; Col 1,24), per contribuire così al bene del popolo di Dio. Inoltre, quelli tra i fedeli che vengono insigniti dell’ordine sacro sono posti in nome di Cristo a pascere la Chiesa colla parola e la grazia di Dio. E infine i coniugi cristiani, in virtù del sacramento del matrimonio, col quale significano e partecipano il mistero di unità e di fecondo amore che intercorre tra Cristo e la Chiesa (cfr. Ef 5,32), si aiutano a vicenda per raggiungere la santità nella vita coniugale; accettando ed educando la prole essi hanno così, nel loro stato di vita e nella loro funzione, il proprio dono in mezzo al popolo di Dio [21]. Da questa missione, infatti, procede la famiglia, nella quale nascono i nuovi cittadini della società umana, i quali per la grazia dello Spirito Santo diventano col battesimo figli di Dio e perpetuano attraverso i secoli il suo popolo. In questa che si potrebbe chiamare Chiesa domestica, i genitori devono essere per i loro figli i primi maestri della fede e secondare la vocazione propria di ognuno, quella sacra in modo speciale.
Muniti di salutari mezzi di una tale abbondanza e d’una tale grandezza, tutti i fedeli d’ogni stato e condizione sono chiamati dal Signore, ognuno per la sua via, a una santità, la cui perfezione è quella stessa del Padre celeste.
Il senso della fede e i carismi nel popolo di Dio
12. Il popolo santo di Dio partecipa pure dell’ufficio profetico di Cristo col diffondere dovunque la viva testimonianza di lui, soprattutto per mezzo di una vita di fede e di carità, e coll’offrire a Dio un sacrificio di lode, cioè frutto di labbra acclamanti al nome suo (cfr. Eb 13,15). La totalità dei fedeli, avendo l’unzione che viene dal Santo, (cfr. 1 Gv 2,20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando « dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici » [22] mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale. E invero, per quel senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, e sotto la guida del sacro magistero, il quale permette, se gli si obbedisce fedelmente, di ricevere non più una parola umana, ma veramente la parola di Dio (cfr. 1 Ts 2,13), il popolo di Dio aderisce indefettibilmente alla fede trasmessa ai santi una volta per tutte (cfr. Gdc 3), con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l’applica nella vita.
Inoltre lo Spirito Santo non si limita a santificare e a guidare il popolo di Dio per mezzo dei sacramenti e dei ministeri, e ad adornarlo di virtù, ma « distribuendo a ciascuno i propri doni come piace a lui » (1 Cor 12,11), dispensa pure tra i fedeli di ogni ordine grazie speciali, con le quali li rende adatti e pronti ad assumersi vari incarichi e uffici utili al rinnovamento e alla maggiore espansione della Chiesa secondo quelle parole: « A ciascuno la manifestazione dello Spirito è data perché torni a comune vantaggio » (1 Cor 12,7). E questi carismi, dai più straordinari a quelli più semplici e più largamente diffusi, siccome sono soprattutto adatti alle necessità della Chiesa e destinati a rispondervi, vanno accolti con gratitudine e consolazione. Non bisogna però chiedere imprudentemente i doni straordinari, né sperare da essi con presunzione i frutti del lavoro apostolico. Il giudizio sulla loro genuinità e sul loro uso ordinato appartiene a coloro che detengono l’autorità nella Chiesa; ad essi spetta soprattutto di non estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono (cfr. 1 Ts 5,12 e 19-21).
L’unico popolo di Dio è universale
13. Tutti gli uomini sono chiamati a formare il popolo di Dio. Perciò questo popolo, pur restando uno e unico, si deve estendere a tutto il mondo e a tutti i secoli, affinché si adempia l’intenzione della volontà di Dio, il quale in principio creò la natura umana una e volle infine radunare insieme i suoi figli dispersi (cfr. Gv 11,52). A questo scopo Dio mandò il Figlio suo, al quale conferì il dominio di tutte le cose (cfr. Eb 1,2), perché fosse maestro, re e sacerdote di tutti, capo del nuovo e universale popolo dei figli di Dio. Per questo infine Dio mandò lo Spirito del Figlio suo, Signore e vivificatore, il quale per tutta la Chiesa e per tutti e singoli i credenti è principio di associazione e di unità, nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere (cfr. At 2,42).
In tutte quindi le nazioni della terra è radicato un solo popolo di Dio, poiché di mezzo a tutte le stirpi egli prende i cittadini del suo regno non terreno ma celeste. E infatti tutti i fedeli sparsi per il mondo sono in comunione con gli altri nello Spirito Santo, e così « chi sta in Roma sa che gli Indi sono sue membra » [23]. Siccome dunque il regno di Cristo non è di questo mondo (cfr. Gv 18,36), la Chiesa, cioè il popolo di Dio, introducendo questo regno nulla sottrae al bene temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e accoglie tutte le ricchezze, le risorse e le forme di vita dei popoli in ciò che esse hanno di buono e accogliendole le purifica, le consolida ed eleva. Essa si ricorda infatti di dover far opera di raccolta con quel Re, al quale sono state date in eredità le genti (cfr. Sal 2,8), e nella cui città queste portano i loro doni e offerte (cfr. Sal 71 (72),10; Is 60,4-7). Questo carattere di universalità, che adorna e distingue il popolo di Dio è dono dello stesso Signore, e con esso la Chiesa cattolica efficacemente e senza soste tende a ricapitolare tutta l’umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo, nell’unità dello Spirito di lui [24].
In virtù di questa cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e per uno sforzo comune verso la pienezza nell’unità. Ne consegue che il popolo di Dio non solo si raccoglie da diversi popoli, ma nel suo stesso interno si compone di funzioni diverse. Poiché fra i suoi membri c’è diversità sia per ufficio, essendo alcuni impegnati nel sacro ministero per il bene dei loro fratelli, sia per la condizione e modo di vita, dato che molti nello stato religioso, tendendo alla santità per una via più stretta, sono un esempio stimolante per i loro fratelli. Così pure esistono legittimamente in seno alla comunione della Chiesa, le Chiese particolari, con proprie tradizioni, rimanendo però integro il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede alla comunione universale di carità [25], tutela le varietà legittime e insieme veglia affinché ciò che è particolare, non solo non pregiudichi l’unità, ma piuttosto la serva. E infine ne derivano, tra le diverse parti della Chiesa, vincoli di intima comunione circa i tesori spirituali, gli operai apostolici e le risorse materiali. I membri del popolo di Dio sono chiamati infatti a condividere i beni e anche alle singole Chiese si applicano le parole dell’Apostolo: « Da bravi amministratori della multiforme grazia di Dio, ognuno di voi metta a servizio degli altri il dono che ha ricevuto» (1 Pt 4,10).
Tutti gli uomini sono quindi chiamati a questa cattolica unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace universale; a questa unità in vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli uomini senza eccezione, che la grazia di Dio chiama alla salvezza.
I fedeli cattolici
14. Il santo Concilio si rivolge quindi prima di tutto ai fedeli cattolici. Esso, basandosi sulla sacra Scrittura e sulla tradizione, insegna che questa Chiesa peregrinante è necessaria alla salvezza. Solo il Cristo, infatti, presente in mezzo a noi nel suo corpo che è la Chiesa, è il mediatore e la via della salvezza; ora egli stesso, inculcando espressamente la necessità della fede e del battesimo (cfr. Gv 3,5), ha nello stesso tempo confermato la necessità della Chiesa, nella quale gli uomini entrano per il battesimo come per una porta. Perciò non possono salvarsi quegli uomini, i quali, pur non ignorando che la Chiesa cattolica è stata fondata da Dio per mezzo di Gesù Cristo come necessaria, non vorranno entrare in essa o in essa perseverare. Sono pienamente incorporati nella società della Chiesa quelli che, avendo lo Spirito di Cristo, accettano integralmente la sua organizzazione e tutti i mezzi di salvezza in essa istituiti, e che inoltre, grazie ai legami costituiti dalla professione di fede, dai sacramenti, dal governo ecclesiastico e dalla comunione, sono uniti, nell’assemblea visibile della Chiesa, con il Cristo che la dirige mediante il sommo Pontefice e i vescovi. Non si salva, però, anche se incorporato alla Chiesa, colui che, non perseverando nella carità, rimane sì in seno alla Chiesa col «corpo», ma non col «cuore» [26]. Si ricordino bene tutti i figli della Chiesa che la loro privilegiata condizione non va ascritta ai loro meriti, ma ad una speciale grazia di Cristo; per cui, se non vi corrispondono col pensiero, con le parole e con le opere, non solo non si salveranno, ma anzi saranno più severamente giudicati [27].
I catecumeni che per impulso dello Spirito Santo desiderano ed espressamente vogliono essere incorporati alla Chiesa, vengono ad essa congiunti da questo stesso desiderio, e la madre Chiesa li avvolge come già suoi con il proprio amore e con le proprie cure.
I cristiani non cattolici e la Chiesa
15. La Chiesa sa di essere per più ragioni congiunta con coloro che, essendo battezzati, sono insigniti del nome cristiano, ma non professano integralmente la fede o non conservano l’unità di comunione sotto il successore di Pietro [28]. Ci sono infatti molti che hanno in onore la sacra Scrittura come norma di fede e di vita, manifestano un sincero zelo religioso, credono amorosamente in Dio Padre onnipotente e in Cristo, figlio di Dio e salvatore [29], sono segnati dal battesimo, col quale vengono congiunti con Cristo, anzi riconoscono e accettano nelle proprie Chiese o comunità ecclesiali anche altri sacramenti. Molti fra loro hanno anche l’episcopato, celebrano la sacra eucaristia e coltivano la devozione alla vergine Madre di Dio [30]. A questo si aggiunge la comunione di preghiere e di altri benefici spirituali; anzi, una certa vera unione nello Spirito Santo, poiché anche in loro egli opera con la sua virtù santificante per mezzo di doni e grazie e ha dato ad alcuni la forza di giungere fino allo spargimento del sangue. Così lo Spirito suscita in tutti i discepoli di Cristo desiderio e attività, affinché tutti, nel modo da Cristo stabilito, pacificamente si uniscano in un solo gregge sotto un solo Pastore [31]. E per ottenere questo la madre Chiesa non cessa di pregare, sperare e operare, esortando i figli a purificarsi e rinnovarsi perché l’immagine di Cristo risplenda più chiara sul volto della Chiesa.
I non cristiani e la Chiesa
16. Infine, quanto a quelli che non hanno ancora ricevuto il Vangelo, anch’essi in vari modi sono ordinati al popolo di Dio [32]. In primo luogo quel popolo al quale furono-dati i testamenti e le promesse e dal quale Cristo è nato secondo la carne (cfr. Rm 9,4-5), popolo molto amato in ragione della elezione, a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili (cfr. Rm 11,28-29). Ma il disegno di salvezza abbraccia anche coloro che riconoscono il Creatore, e tra questi in particolare i musulmani, i quali, professando di avere la fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico, misericordioso che giudicherà gli uomini nel giorno finale. Dio non e neppure lontano dagli altri che cercano il Dio ignoto nelle ombre e sotto le immagini, poiché egli dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa (cfr At 1,7,25-26), e come Salvatore vuole che tutti gli uomini si salvino (cfr. 1 Tm 2,4). Infatti, quelli che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa ma che tuttavia cercano sinceramente Dio e coll’aiuto della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di lui, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna [33]. Né la divina Provvidenza nega gli aiuti necessari alla salvezza a coloro che non sono ancora arrivati alla chiara cognizione e riconoscimento di Dio, ma si sforzano, non senza la grazia divina, di condurre una vita retta. Poiché tutto ciò che di buono e di vero si trova in loro è ritenuto dalla Chiesa come una preparazione ad accogliere il Vangelo [34] e come dato da colui che illumina ogni uomo, affinché abbia finalmente la vita. Ma molto spesso gli uomini, ingannati dal maligno, hanno errato nei loro ragionamenti e hanno scambiato la verità divina con la menzogna, servendo la creatura piuttosto che il Creatore (cfr. Rm 1,21 e 25), oppure, vivendo e morendo senza Dio in questo mondo, sono esposti alla disperazione finale. Perciò la Chiesa per promuovere la gloria di Dio e la salute di tutti costoro, memore del comando del Signore che dice: « Predicate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15), mette ogni cura nell’incoraggiare e sostenere le missioni.
Carattere missionario della Chiesa
17. Come infatti il Figlio è stato mandato dal Padre, così ha mandato egli stesso gli apostoli (cfr. Gv 20,21) dicendo: «Andate dunque e ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto quanto vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo » (Mt 28,18-20). E questo solenne comando di Cristo di annunziare la verità salvifica, la Chiesa l’ha ricevuto dagli apostoli per proseguirne l’adempimento sino all’ultimo confine della terra (cfr. At 1,8). Essa fa quindi sue le parole dell’apostolo: « Guai… a me se non predicassi! » (l Cor 9,16) e continua a mandare araldi del Vangelo, fino a che le nuove Chiese siano pienamente costituite e continuino a loro volta l’opera di evangelizzazione. È spinta infatti dallo Spirito Santo a cooperare perché sia compiuto il piano di Dio, il quale ha costituito Cristo principio della salvezza per il mondo intero. Predicando il Vangelo, la Chiesa dispone coloro che l’ascoltano a credere e a professare la fede, li dispone al battesimo, li toglie dalla schiavitù dell’errore e li incorpora a Cristo per crescere in lui mediante la carità finché sia raggiunta la pienezza. Procura poi che quanto di buono si trova seminato nel cuore e nella mente degli uomini o nei riti e culture proprie dei popoli, non solo non vada perduto, ma sia purificato, elevato e perfezionato a gloria di Dio, confusione del demonio e felicità dell’uomo. Ad ogni discepolo di Cristo incombe il dovere di disseminare, per quanto gli è possibile, la fede [35]. Ma se ognuno può conferire il battesimo ai credenti, è tuttavia ufficio del sacerdote di completare l’edificazione del corpo col sacrificio eucaristico, adempiendo le parole dette da Dio per mezzo del profeta: « Da dove sorge il sole fin dove tramonta, grande è il mio Nome tra le genti e in ogni luogo si offre al mio Nome un sacrificio e un’offerta pura » [36]. Così la Chiesa unisce preghiera e lavoro, affinché il mondo intero in tutto il suo essere sia trasformato in popolo di Dio, corpo mistico di Cristo e tempio dello Spirito Santo, e in Cristo, centro di tutte le cose, sia reso ogni onore e gloria al Creatore e Padre dell’universo.
COSTITUZIONE GERARCHICA DELLA CHIESA
E IN PARTICOLARE DELL’EPISCOPATO
Proemio
18. Cristo Signore, per pascere e sempre più accrescere il popolo di Dio, ha stabilito nella sua Chiesa vari ministeri, che tendono al bene di tutto il corpo. I ministri infatti che sono rivestiti di sacra potestà, servono i loro fratelli, perché tutti coloro che appartengono al popolo di Dio, e perciò hanno una vera dignità cristiana, tendano liberamente e ordinatamente allo stesso fine e arrivino alla salvezza. Questo santo Sinodo, sull’esempio del Concilio Vaticano primo, insegna e dichiara che Gesù Cristo, pastore eterno, ha edificato la santa Chiesa e ha mandato gli apostoli, come egli stesso era stato mandato dal Padre (cfr. Gv 20,21), e ha voluto che i loro successori, cioè i vescovi, fossero nella sua Chiesa pastori fino alla fine dei secoli. Affinché poi lo stesso episcopato fosse uno e indiviso, prepose agli altri apostoli il beato Pietro e in lui stabilì il principio e il fondamento perpetuo e visibile dell’unità di fede e di comunione [37]. Questa dottrina della istituzione, della perpetuità, del valore e della natura del sacro primato del romano Pontefice e del suo infallibile magistero, il santo Concilio la propone di nuovo a tutti i fedeli come oggetto certo di fede. Di più proseguendo nel disegno incominciato, ha stabilito di enunciare ed esplicitare la dottrina sui vescovi, successori degli apostoli, i quali col successore di Pietro, vicario di Cristo [38] e capo visibile di tutta la Chiesa, reggono la casa del Dio vivente.
L’istituzione dei dodici
19. Il Signore Gesù, dopo aver pregato il Padre, chiamò a sé quelli che egli volle, e ne costituì dodici perché stessero con lui e per mandarli a predicare il regno di Dio (cfr. Mc 3,13-19; Mt 10,1-42); ne fece i suoi apostoli (cfr. Lc 6,13) dando loro la forma di collegio, cioè di un gruppo stabile, del quale mise a capo Pietro, scelto di mezzo a loro (cfr. Gv 21 15-17). Li mandò prima ai figli d’Israele e poi a tutte le genti (cfr. Rm 1,16) affinché, partecipi del suo potere, rendessero tutti i popoli suoi discepoli, li santificassero e governassero (cfr. Mt 28,16-20; Mc 16,15; Lc 24,45-48), diffondendo così la Chiesa e, sotto la guida del Signore, ne fossero i ministri e i pastori, tutti i giorni sino alla fine del mondo (cfr. Mt 28,20). In questa missione furono pienamente confermati il giorno di Pentecoste (cfr. At 2,1-36) secondo la promessa del Signore: « Riceverete una forza, quella dello Spirito Santo che discenderà su di voi, e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria, e sino alle estremità della terra » (At 1,8). Gli apostoli, quindi, predicando dovunque il Vangelo (cfr. Mc 16,20), accolto dagli uditori grazie all’azione dello Spirito Santo, radunano la Chiesa universale che il Signore ha fondato su di essi e edificato sul beato Pietro, loro capo, con Gesù Cristo stesso come pietra maestra angolare (cfr. Ap 21,14; Mt 16,18; Ef 2,20) [39].
I vescovi, successori degli apostoli
20. La missione divina affidata da Cristo agli apostoli durerà fino alla fine dei secoli (cfr. Mt 28,20), poiché il Vangelo che essi devono predicare è per la Chiesa il principio di tutta la sua vita in ogni tempo. Per questo gli apostoli, in questa società gerarchicamente ordinata, ebbero cura di istituire dei successori.
Infatti, non solo ebbero vari collaboratori nel ministero [40] ma perché la missione loro affidata venisse continuata dopo la loro morte, affidarono, quasi per testamento, ai loro immediati cooperatori l’ufficio di completare e consolidare l’opera da essi incominciata [41] raccomandando loro di attendere a tutto il gregge nel quale lo Spirito Santo li aveva posti a pascere la Chiesa di Dio (cfr. At 20,28). Perciò si scelsero di questi uomini e in seguito diedero disposizione che dopo la loro morte altri uomini subentrassero al loro posto [42]. Fra i vari ministeri che fin dai primi tempi si esercitano nella Chiesa, secondo la testimonianza della tradizione, tiene il primo posto l’ufficio di quelli che costituiti nell’episcopato, per successione che decorre ininterrotta fin dalle origini [43] sono i sacramenti attraverso i quali si trasmette il seme apostolico [44] . Così, come attesta S. Ireneo, per mezzo di coloro che gli apostoli costituirono vescovi e dei loro successori fino a noi, la tradizione apostolica in tutto il mondo è manifestata [45] e custodita [46].
I vescovi dunque hanno ricevuto il ministero della comunità per esercitarlo con i loro collaboratori, sacerdoti e diaconi [47]. Presiedono in luogo di Dio al gregge [48] di cui sono pastori quali maestri di dottrina, sacerdoti del sacro culto, ministri del governo della Chiesa [49]. Come quindi è permanente l’ufficio dal Signore concesso singolarmente a Pietro, il primo degli apostoli, e da trasmettersi ai suoi successori, cosi è permanente l’ufficio degli apostoli di pascere la Chiesa, da esercitarsi in perpetuo dal sacro ordine dei Vescovi [50]. Perciò il sacro Concilio insegna che i vescovi per divina istituzione sono succeduti al posto degli Apostoli [51] quali pastori della Chiesa, e che chi li ascolta, ascolta Cristo, chi li disprezza, disprezza Cristo e colui che ha mandato Cristo (cfr. Lc 10,16) [52].
Sacramentalità dell’episcopato
21. Nella persona quindi dei vescovi, assistiti dai sacerdoti, è presente in mezzo ai credenti il Signore Gesù Cristo, pontefice sommo. Pur sedendo infatti alla destra di Dio Padre, egli non cessa di essere presente alla comunità dei suoi pontefici [53] in primo luogo, per mezzo dell’eccelso loro ministero, predica la parola di Dio a tutte le genti e continuamente amministra ai credenti i sacramenti della fede; per mezzo del loro ufficio paterno (cfr. 1 Cor 4,15) integra nuove membra al suo corpo con la rigenerazione soprannaturale; e infine, con la loro sapienza e prudenza, dirige e ordina il popolo del Nuovo Testamento nella sua peregrinazione verso l’eterna beatitudine. Questi pastori, scelti a pascere il gregge del Signore, sono ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio (cfr. 1 Cor 4,1). Ad essi è stata affidata la testimonianza al Vangelo della grazia di Dio (cfr. Rm 15,16; At 20,24) e il glorioso ministero dello Spirito e della giustizia (cfr. 2 Cor 3,8-9).
Per compiere cosi grandi uffici, gli apostoli sono stati arricchiti da Cristo con una effusione speciale dello Spirito Santo disceso su loro (cfr. At 1,8; 2,4; Gv 20,22-23), ed essi stessi con la imposizione delle mani diedero questo dono spirituale ai loro collaboratori (cfr. 1 Tm 4,14; 2 Tm 1,6-7), dono che è stato trasmesso fino a noi nella consacrazione Episcopale [54]. Il santo Concilio insegna quindi che con la consacrazione episcopale viene conferita la pienezza del sacramento dell’ordine, quella cioè che dalla consuetudine liturgica della Chiesa e dalla voce dei santi Padri viene chiamata sommo sacerdozio, realtà totale del sacro ministero [55]. La consacrazione episcopale conferisce pure, con l’ufficio di santificare, gli uffici di insegnare e governare; questi però, per loro natura, non possono essere esercitati se non nella comunione gerarchica col capo e con le membra del collegio. Dalla tradizione infatti, quale risulta specialmente dai riti liturgici e dall’uso della Chiesa sia d’Oriente che d’Occidente, consta chiaramente che dall’imposizione delle mani e dalle parole della consacrazione è conferita la grazia dello Spirito Santo [56] ed è impresso il sacro carattere [57] in maniera tale che i vescovi, in modo eminente e visibile, tengono il posto dello stesso Cristo maestro, pastore e pontefice, e agiscono in sua vece [58]. È proprio dei vescovi assumere col sacramento dell’ordine nuovi eletti nel corpo episcopale.
Il collegio dei vescovi e il suo capo
22. Come san Pietro e gli altri apostoli costituiscono, per volontà del Signore, un unico collegio apostolico, similmente il romano Pontefice, successore di Pietro, e i vescovi, successori degli apostoli, sono uniti tra loro. Già l’antichissima disciplina, in virtù della quale i vescovi di tutto il mondo vivevano in comunione tra loro e col vescovo di Roma nel vincolo dell’unità, della carità e della pace [59] e parimenti la convocazione dei Concili [60] per decidere in comune di tutte le questioni più importanti [61] mediante una decisione che l’opinione dell’insieme [62] permetteva di equilibrare significano il carattere e la natura collegiale dell’ordine episcopale, che risulta manifestamente confermata dal fatto dei Concili ecumenici tenuti lungo i secoli. La stessa è pure suggerita dall’antico uso di convocare più vescovi per partecipare all elevazione del nuovo eletto al ministero del sommo sacerdozio. Uno è costituito membro del corpo episcopale in virtù della consacrazione sacramentale e mediante la comunione gerarchica col capo del collegio e con le sue membra.
Il collegio o corpo episcopale non ha però autorità, se non lo si concepisce unito al Pontefice romano, successore di Pietro, quale suo capo, e senza pregiudizio per la sua potestà di primato su tutti, sia pastori che fedeli. Infatti il Romano Pontefice, in forza del suo Ufficio, cioè di Vicario di Cristo e Pastore di tutta la Chiesa, ha su questa una potestà piena, suprema e universale, che può sempre esercitare liberamente. D’altra parte, l’ordine dei vescovi, il quale succede al collegio degli apostoli nel magistero e nel governo pastorale, anzi, nel quale si perpetua il corpo apostolico, è anch’esso insieme col suo capo il romano Pontefice, e mai senza questo capo, il soggetto di una suprema e piena potestà su tutta la Chiesa [63] sebbene tale potestà non possa essere esercitata se non col consenso del romano Pontefice. Il Signore ha posto solo Simone come pietra e clavigero della Chiesa (cfr. Mt 16,18-19), e lo ha costituito pastore di tutto il suo gregge (cfr. Gv 21,15 ss); ma l’ufficio di legare e di sciogliere, che è stato dato a Pietro (cfr. Mt 16,19), è noto essere stato pure concesso al collegio degli apostoli, congiunto col suo capo (cfr. Mt 18,18; 28,16-20) [64]. Questo collegio, in quanto composto da molti, esprime la varietà e l’universalità del popolo di Dio; in quanto poi è raccolto sotto un solo capo, significa l’unità del gregge di Cristo. In esso i vescovi, rispettando fedelmente il primato e la preminenza del loro capo, esercitano la propria potestà per il bene dei loro fedeli, anzi di tutta la Chiesa, mente lo Spirito Santo costantemente consolida la sua struttura organica e la sua concordia. La suprema potestà che questo collegio possiede su tutta la Chiesa, è esercitata in modo solenne nel Concilio ecumenico. Mai può esserci Concilio ecumenico, che come tale non sia confermato o almeno accettato dal successore di Pietro; ed è prerogativa del romano Pontefice convocare questi Concili, presiederli e confermarli [65]. La stessa potestà collegiale insieme col papa può essere esercitata dai vescovi sparsi per il mondo, purché il capo del collegio li chiami ad agire collegialmente, o almeno approvi o liberamente accetti l’azione congiunta dei vescovi dispersi, così da risultare un vero atto collegiale.
Le relazioni all’interno del collegio episcopale
23. L’unità collegiale appare anche nelle mutue relazioni dei singoli vescovi con Chiese particolari e con la Chiesa universale. Il romano Pontefice, quale successore di Pietro, è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli [66]. I singoli vescovi, invece, sono il visibile principio e fondamento di unità nelle loro Chiese particolari [67] queste sono formate ad immagine della Chiesa universale, ed è in esse e a partire da esse che esiste la Chiesa cattolica una e unica [68]. Perciò i singoli vescovi rappresentano la propria Chiesa, e tutti insieme col Papa rappresentano la Chiesa universale in un vincolo di pace, di amore e di unità. I singoli vescovi, che sono preposti a Chiese particolari, esercitano il loro pastorale governo sopra la porzione del popolo di Dio che è stata loro affidata, non sopra le altre Chiese né sopra la Chiesa universale. Ma in quanto membri del collegio episcopale e legittimi successori degli apostoli, per istituzione e precetto di Cristo sono tenuti ad avere per tutta la Chiesa [69] una sollecitudine che, sebbene non sia esercitata con atti di giurisdizione, contribuisce sommamente al bene della Chiesa universale. Tutti i vescovi, infatti, devono promuovere e difendere l’unità della fede e la disciplina comune all’insieme della Chiesa, formare i fedeli all’amore per tutto il corpo mistico di Cristo, specialmente delle membra povere, sofferenti e di quelle che sono perseguitate a causa della giustizia (cfr. Mt 5,10), e infine promuovere ogni attività comune alla Chiesa, specialmente nel procurare che la fede cresca e sorga per tutti gli uomini la luce della piena verità. Del resto è certo che, reggendo bene la propria Chiesa come una porzione della Chiesa universale, contribuiscono essi stessi efficacemente al bene di tutto il corpo mistico, che è pure il corpo delle Chiese [70].
La cura di annunziare il Vangelo in ogni parte della terra appartiene al corpo dei pastori, ai quali tutti, in comune, Cristo diede il mandato, imponendo un comune dovere, come già papa Celestino ricordava ai Padri del Concilio Efesino [71]. Quindi i singoli vescovi, per quanto lo permette l’esercizio del particolare loro dovere, sono tenuti a collaborare tra di loro e col successore di Pietro, al quale in modo speciale fu affidato l’altissimo ufficio di propagare il nome cristiano [72]. Con tutte le forze devono fornire alle missioni non solo gli operai della messe, ma anche aiuti spirituali e materiali, sia da sé direttamente, sia suscitando la fervida cooperazione dei fedeli. I vescovi, infine, in universale comunione di carità, offrano volentieri il loro fraterno aiuto alle altre Chiese, specialmente alle più vicine e più povere, seguendo in questo il venerando esempio dell’antica Chiesa.
Per divina Provvidenza è avvenuto che varie Chiese, in vari luoghi stabilite dagli apostoli e dai loro successori, durante i secoli si sono costituite in vari raggruppamenti, organicamente congiunti, i quali, salva restando l’unità della fede e l’unica costituzione divina della Chiesa universale, godono di una propria disciplina, di un proprio uso liturgico, di un proprio patrimonio teologico e spirituale. Alcune fra esse, soprattutto le antiche Chiese patriarcali, quasi matrici della fede, ne hanno generate altre a modo di figlie, colle quali restano fino ai nostri tempi legate da un più stretto vincolo di carità nella vita sacramentale e nel mutuo rispetto dei diritti e dei doveri [73]. Questa varietà di Chiese locali tendenti all’unità dimostra con maggiore evidenza la cattolicità della Chiesa indivisa. In modo simile le Conferenze episcopali possono oggi portare un molteplice e fecondo contributo acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente.
Il ministero episcopale
24. I vescovi, quali successori degli apostoli, ricevono dal Signore, cui è data ogni potestà in cielo e in terra, la missione d’insegnare a tutte le genti e di predicare il Vangelo ad ogni creatura, affinché tutti gli uomini, per mezzo della fede, del battesimo e dell’osservanza dei comandamenti, ottengano la salvezza (cfr. Mt 28,18-20; Mc 16,15-16; At 26,17 ss). Per compiere questa missione, Cristo Signore promise agli apostoli lo Spirito Santo e il giorno di Pentecoste lo mandò dal cielo, perché con la sua forza essi gli fossero testimoni fino alla estremità della terra, davanti alle nazioni e ai popoli e ai re (cfr. At 1,8; 2,1 ss; 9,15). L’ufficio poi che il Signore affidò ai pastori del suo popolo, è un vero servizio, che nella sacra Scrittura è chiamato significativamente « diaconia », cioè ministero (cfr. At 1,17 e 25; 21,19; Rm 11,13; 1 Tm 1,12).
La missione canonica dei vescovi può essere data per mezzo delle legittime consuetudini, non revocate dalla suprema e universale potestà della Chiesa, o per mezzo delle leggi fatte dalla stessa autorità o da essa riconosciute, oppure direttamente dallo stesso successore di Pietro; se questi rifiuta o nega la comunione apostolica, i vescovi non possono essere assunti all’ufficio [74].
La funzione d’insegnamento dei vescovi
25. Tra i principali doveri dei vescovi eccelle la predicazione del Vangelo [75]. I vescovi, infatti, sono gli araldi della fede che portano a Cristo nuovi discepoli; sono dottori autentici, cioè rivestiti dell’autorità di Cristo, che predicano al popolo loro affidato la fede da credere e da applicare nella pratica della vita, la illustrano alla luce dello Spirito Santo, traendo fuori dal tesoro della Rivelazione cose nuove e vecchie (cfr. Mt 13,52), la fanno fruttificare e vegliano per tenere lontano dal loro gregge gli errori che lo minacciano (cfr. 2 Tm 4,1-4) . I vescovi che insegnano in comunione col romano Pontefice devono essere da tutti ascoltati con venerazione quali testimoni della divina e cattolica verità; e i fedeli devono accettare il giudizio dal loro vescovo dato a nome di Cristo in cose di fede e morale, e dargli l’assenso religioso del loro spirito. Ma questo assenso religioso della volontà e della intelligenza lo si deve in modo particolare prestare al magistero autentico del romano Pontefice, anche quando non parla « ex cathedra ». Ciò implica che il suo supremo magistero sia accettato con riverenza, e che con sincerità si aderisca alle sue affermazioni in conformità al pensiero e in conformità alla volontà di lui manifestatasi che si possono dedurre in particolare dal carattere dei documenti, o dall’insistenza nel proporre una certa dottrina, o dalla maniera di esprimersi.
Quantunque i vescovi, presi a uno a uno, non godano della prerogativa dell’infallibilità, quando tuttavia, anche dispersi per il mondo, ma conservando il vincolo della comunione tra di loro e col successore di Pietro, si accordano per insegnare autenticamente che una dottrina concernente la fede e i costumi si impone in maniera assoluta, allora esprimono infallibilmente la dottrina di Cristo [76]. La cosa è ancora più manifesta quando, radunati in Concilio ecumenico, sono per tutta la Chiesa dottori e giudici della fede e della morale; allora bisogna aderire alle loro definizioni con l’ossequio della fede [77].
Questa infallibilità, della quale il divino Redentore volle provveduta la sua Chiesa nel definire la dottrina della fede e della morale, si estende tanto, quanto il deposito della divina Rivelazione, che deve essere gelosamente custodito e fedelmente esposto. Di questa infallibilità il romano Pontefice, capo del collegio dei vescovi, fruisce in virtù del suo ufficio, quando, quale supremo pastore e dottore di tutti i fedeli che conferma nella fede i suoi fratelli (cfr. Lc 22,32), sancisce con atto definitivo una dottrina riguardante la fede e la morale [78]. Perciò le sue definizioni giustamente sono dette irreformabili per se stesse e non in virtù del consenso della Chiesa, essendo esse pronunziate con l’assistenza dello Spirito Santo a lui promessa nella persona di san Pietro, per cui non hanno bisogno di una approvazione di altri, né ammettono appello alcuno ad altro giudizio. In effetti allora il romano Pontefice pronunzia sentenza non come persona privata, ma espone o difende la dottrina della fede cattolica quale supremo maestro della Chiesa universale, singolarmente insignito del carisma dell’infallibilità della Chiesa stessa [79]. L’infallibilità promessa alla Chiesa risiede pure nel corpo episcopale quando esercita il supremo magistero col successore di Pietro. A queste definizioni non può mai mancare l’assenso della Chiesa, data l’azione dello stesso Spirito Santo che conserva e fa progredire nell’unità della fede tutto il gregge di Cristo [80].
Quando poi il romano Pontefice o il corpo dei vescovi con lui esprimono una sentenza, la emettono secondo la stessa Rivelazione, cui tutti devono attenersi e conformarsi, Rivelazione che è integralmente trasmessa per scritto o per tradizione dalla legittima successione dei vescovi e specialmente a cura dello stesso Pontefice romano, e viene nella Chiesa gelosamente conservata e fedelmente esposta sotto la luce dello Spirito di verità [81]. Perché poi sia debitamente indagata ed enunziata in modo adatto [82], il romano Pontefice e i vescovi nella coscienza del loro ufficio e della gravità della cosa, prestano la loro vigile opera usando i mezzi convenienti però non ricevono alcuna nuova rivelazione pubblica come appartenente al deposito divino della fede [83].
La funzione di santificazione
26. Il vescovo, insignito della pienezza del sacramento dell’ordine, è « l’economo della grazia del supremo sacerdozio» [84] specialmente nell’eucaristia, che offre egli stesso o fa offrire [85] e della quale la Chiesa continuamente vive e cresce. Questa Chiesa di Cristo è veramente presente nelle legittime comunità locali di fedeli, le quali, unite ai loro pastori, sono anch’esse chiamate Chiese nel Nuovo Testamento [86]. Esse infatti sono, ciascuna nel proprio territorio, il popolo nuovo chiamato da Dio nello Spirito Santo e in una grande fiducia (cfr. 1 Ts 1,5). In esse con la predicazione del Vangelo di Cristo vengono radunati i fedeli e si celebra il mistero della Cena del Signore, « affinché per mezzo della carne e del sangue del Signore siano strettamente uniti tutti i fratelli della comunità» [87]. In ogni comunità che partecipa all’altare, sotto la sacra presidenza del Vescovo [88] viene offerto il simbolo di quella carità e « unità del corpo mistico, senza la quale non può esserci salvezza» [89]. In queste comunità, sebbene spesso piccole e povere e disperse, è presente Cristo, per virtù del quale si costituisce la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica [90]. Infatti « la partecipazione del corpo e del sangue di Cristo altro non fa, se non che ci mutiamo in ciò che riceviamo » [91].
Ogni legittima celebrazione dell’eucaristia è diretta dal vescovo, al quale è demandato il compito di prestare e regolare il culto della religione cristiana alla divina Maestà, secondo i precetti del Signore e le leggi della Chiesa, dal suo particolare giudizio ulteriormente determinante per la propria diocesi. In questo modo i vescovi, con la preghiera e il lavoro per il popolo, in varie forme effondono abbondantemente la pienezza della santità di Cristo. Col ministero della parola comunicano la forza di Dio per la salvezza dei credenti (cfr. Rm 1,16), e con i sacramenti, dei quali con la loro autorità organizzano la regolare e fruttuosa distribuzione santificano i fedeli [92]. Regolano l’amministrazione del battesimo, col quale è concesso partecipare al regale sacerdozio di Cristo. Sono i ministri originari della confermazione, dispensatori degli ordini sacri e moderatori della disciplina penitenziale, e con sollecitudine esortano e istruiscono le loro popolazioni, affinché nella liturgia e specialmente nel santo sacrificio della messa compiano la loro parte con fede e devozione. Devono, infine, coll’esempio della loro vita aiutare quelli a cui presiedono, serbando i loro costumi immuni da ogni male, e per quanto possono, con l’aiuto di Dio mutandoli in bene, onde possano, insieme col gregge loro affidato, giungere alla vita eterna [93].
La funzione di governo
27. I vescovi reggono le Chiese particolari a loro affidate come vicari e legati di Cristo [94], col consiglio, la persuasione, l’esempio, ma anche con l’autorità e la sacra potestà, della quale però non si servono se non per edificare il proprio gregge nella verità e nella santità, ricordandosi che chi è più grande si deve fare come il più piccolo, e chi è il capo, come chi serve (cfr. Lc 22,26-27). Questa potestà, che personalmente esercitano in nome di Cristo, è propria, ordinaria e immediata, quantunque il suo esercizio sia in ultima istanza sottoposto alla suprema autorità della Chiesa e, entro certi limiti, in vista dell’utilità della Chiesa o dei fedeli, possa essere ristretto. In virtù di questa potestà i vescovi hanno il sacro diritto e davanti al Signore il dovere di dare leggi ai loro sudditi, di giudicare e di regolare tutto quanto appartiene al culto e all’apostolato.
Ad essi è pienamente affidato l’ufficio pastorale ossia l’abituale e quotidiana cura del loro gregge; né devono essere considerati vicari dei romani Pontefici, perché sono rivestiti di autorità propria e con tutta verità sono detti « sovrintendenti delle popolazioni » che governano [95]. La loro potestà quindi non è annullata dalla potestà suprema e universale [96], ma anzi è da essa affermata, corroborata e rivendicata, poiché è lo Spirito Santo che conserva invariata la forma di governo da Cristo Signore stabilita nella sua Chiesa.
Il vescovo, mandato dal padre di famiglia a governare la sua famiglia, tenga innanzi agli occhi l’esempio del buon Pastore, che è venuto non per essere servito ma per servire (cfr. Mt 20,28; Mc 10,45) e dare la sua vita per le pecore (cfr. Gv 10,11). Preso di mezzo agli uomini e soggetto a debolezza, può benignamente compatire gli ignoranti o gli sviati (cfr. Eb 5,1-2). Non rifugga dall’ascoltare quelli che dipendono da lui, curandoli come veri figli suoi ed esortandoli a cooperare alacremente con lui. Dovendo render conto a Dio delle loro anime (cfr. Eb 13,17), abbia cura di loro con la preghiera, la predicazione e ogni opera di carità; la sua sollecitudine si estenda anche a quelli che non fanno ancor parte dell’unico gregge e li consideri come affidatigli dal Signore. Essendo egli, come l’apostolo Paolo, debitore a tutti, sia pronto ad annunziare il Vangelo a tutti (cfr. Rm 1,14-15) e ad esortare i suoi fedeli all’attività apostolica e missionaria. I fedeli poi devono aderire al vescovo come la Chiesa a Gesù Cristo e come Gesù Cristo al Padre, affinché tutte le cose siano concordi e unite [97] e siano feconde per la gloria di Dio (cfr. 2 Cor 4,15).
I sacerdoti e i loro rapporti con Cristo, con i vescovi, con i confratelli e con il popolo cristiano
28. Cristo, santificato e mandato nel mondo dal Padre (cfr. Gv 10,36), per mezzo degli apostoli ha reso partecipi della sua consacrazione e della sua missione i loro successori, cioè i vescovi a loro volta i vescovi [98] hanno legittimamente affidato a vari membri della Chiesa, in vario grado, l’ufficio del loro ministero. Così il ministero ecclesiastico di istituzione divina viene esercitato in diversi ordini, da quelli che già anticamente sono chiamati vescovi, presbiteri, diaconi [99]. I presbiteri, pur non possedendo l’apice del sacerdozio e dipendendo dai vescovi nell’esercizio della loro potestà, sono tuttavia a loro congiunti nella dignità sacerdotale [100] e in virtù del sacramento dell’ordine [101] ad immagine di Cristo, sommo ed eterno sacerdote (cfr. Eb 5,1-10; 7,24; 9,11-28), sono consacrati per predicare il Vangelo, essere i pastori fedeli e celebrare il culto divino [102], quali veri sacerdoti del Nuovo Testamento. Partecipi, nel loro grado di ministero, dell’ufficio dell’unico mediatore, che è il Cristo (cfr. 1 Tm 2,5) annunziano a tutti la parola di Dio. Esercitano il loro sacro ministero soprattutto nel culto eucaristico o sinassi, dove, agendo in persona di Cristo [103] e proclamando il suo mistero, uniscono le preghiere dei fedeli al sacrificio del loro capo e nel sacrificio della messa rendono presente e applicano fino alla venuta del Signore (cfr. 1 Cor 11,26), l’unico sacrificio del Nuovo Testamento, quello cioè di Cristo, il quale una volta per tutte offrì se stesso al Padre quale vittima immacolata (cfr. Eb 9,11-28) [104]. Esercitano inoltre il ministero della riconciliazione e del conforto a favore dei fedeli penitenti o ammalati e portano a Dio Padre le necessità e le preghiere dei fedeli (cfr. Eb 5,1-4). Esercitando, secondo la loro parte di autorità, l’ufficio di Cristo, pastore e capo [105], raccolgono la famiglia di Dio, quale insieme di fratelli animati da un solo spirito, per mezzo di Cristo nello Spirito [106] li portano al Padre e in mezzo al loro gregge lo adorano in spirito e verità (cfr. Gv 4,24). Si affaticano inoltre nella predicazione e nell’insegnamento (cfr. 1 Tm 5,17), credendo ciò che hanno letto e meditato nella legge del Signore, insegnando ciò che credono, vivendo ciò che insegnano [107].
I sacerdoti, saggi collaboratori dell’ordine Episcopale [108] e suo aiuto e strumento, chiamati a servire il popolo di Dio, costituiscono col loro vescovo un solo presbiterio [109] sebbene destinato a uffici diversi. Nelle singole comunità locali di fedeli rendono in certo modo presente il vescovo, cui sono uniti con cuore confidente e generoso, ne assumono secondo il loro grado, gli uffici e la sollecitudine e li esercitano con dedizione quotidiana. Essi, sotto l’autorità del vescovo, santificano e governano la porzione di gregge del Signore loro affidata, nella loro sede rendono visibile la Chiesa universale e portano un grande contributo all’edificazione di tutto il corpo mistico di Cristo (cfr. Ef 4,12). Sempre intenti al bene dei figli di Dio, devono mettere il loro zelo nel contribuire al lavoro pastorale di tutta la diocesi, anzi di tutta la Chiesa. In ragione di questa loro partecipazione nel sacerdozio e nel lavoro apostolico del vescovo, i sacerdoti riconoscano in lui il loro padre e gli obbediscano con rispettoso amore. Il vescovo, poi, consideri i sacerdoti, i suoi cooperatori, come figli e amici così come il Cristo chiama i suoi discepoli non servi, ma amici (cfr. Gv 15,15). Per ragione quindi dell’ordine e del ministero, tutti i sacerdoti sia diocesani che religiosi, sono associati al corpo episcopale e, secondo la loro vocazione e grazia, servono al bene di tutta la Chiesa.
In virtù della comunità di ordinazione e missione tutti i sacerdoti sono fra loro legati da un’intima fraternità, che deve spontaneamente e volentieri manifestarsi nel mutuo aiuto, spirituale e materiale, pastorale e personale, nelle riunioni e nella comunione di vita, di lavoro e di carità.
Abbiano poi cura, come padri in Cristo, dei fedeli che hanno spiritualmente generato col battesimo e l’insegnamento (cfr. 1 Cor 4,15; 1 Pt 1,23). Divenuti spontaneamente modelli del gregge (cfr. 1 Pt 5,3) presiedano e servano la loro comunità locale, in modo che questa possa degnamente esser chiamata col nome di cui è insignito l’unico popolo di Dio nella sua totalità, cioè Chiesa di Dio (cfr. 1 Cor 1,2; 2 Cor 1,1). Si ricordino che devono, con la loro quotidiana condotta e con la loro sollecitudine, presentare ai fedeli e infedeli, cattolici e non cattolici, l’immagine di un ministero veramente sacerdotale e pastorale, e rendere a tutti la testimonianza della verità e della vita; e come buoni pastori ricercare anche quelli (cfr. Lc 15,4-7) che, sebbene battezzati nella Chiesa cattolica, hanno abbandonato la pratica dei sacramenti o persino la fede.
Siccome oggigiorno l’umanità va sempre più organizzandosi in una unità civile, economica e sociale, tanto più bisogna che i sacerdoti, consociando il loro zelo e il loro lavoro sotto la guida dei vescovi e del sommo Pontefice, eliminino ogni causa di dispersione, affinché tutto il genere umano sia ricondotto all’unità della famiglia di Dio.
I diaconi
29. In un grado inferiore della gerarchia stanno i diaconi, ai quali sono imposte le mani « non per il sacerdozio, ma per il servizio » [110]. Infatti, sostenuti dalla grazia sacramentale, nella « diaconia » della liturgia, della predicazione e della carità servono il popolo di Dio, in comunione col vescovo e con il suo presbiterio. È ufficio del diacono, secondo le disposizioni della competente autorità, amministrare solennemente il battesimo, conservare e distribuire l’eucaristia, assistere e benedire il matrimonio in nome della Chiesa, portare il viatico ai moribondi, leggere la sacra Scrittura ai fedeli, istruire ed esortare il popolo, presiedere al culto e alla preghiera dei fedeli, amministrare i sacramentali, presiedere al rito funebre e alla sepoltura. Essendo dedicati agli uffici di carità e di assistenza, i diaconi si ricordino del monito di S. Policarpo: « Essere misericordiosi, attivi, camminare secondo la verità del Signore, il quale si è fatto servo di tutti » [111].
E siccome questi uffici, sommamente necessari alla vita della Chiesa, nella disciplina oggi vigente della Chiesa latina in molte regioni difficilmente possono essere esercitati, il diaconato potrà in futuro essere ristabilito come proprio e permanente grado della gerarchia. Spetterà poi alla competenza dei raggruppamenti territoriali dei vescovi, nelle loro diverse forme, di decidere, con l’approvazione dello stesso sommo Pontefice, se e dove sia opportuno che tali diaconi siano istituiti per la cura delle anime. Col consenso del romano Pontefice questo diaconato potrà essere conferito a uomini di età matura anche viventi nel matrimonio, e così pure a dei giovani idonei, per i quali però deve rimanere ferma la legge del celibato.
I LAICI
I laici nella Chiesa
30. Il santo Concilio, dopo aver illustrati gli uffici della gerarchia, con piacere rivolge il pensiero allo stato di quei fedeli che si chiamano laici. Sebbene quanto fu detto del popolo di Dio sia ugualmente diretto ai laici, ai religiosi e al clero, ai laici tuttavia, sia uomini che donne, per la loro condizione e missione, appartengono in particolare alcune cose, i fondamenti delle quali, a motivo delle speciali circostanze del nostro tempo, devono essere più accuratamente ponderati. I sacri pastori, infatti, sanno benissimo quanto i laici contribuiscano al bene di tutta la Chiesa. Sanno di non essere stati istituiti da Cristo per assumersi da soli tutto il peso della missione salvifica della Chiesa verso il mondo, ma che il loro eccelso ufficio consiste nel comprendere la loro missione di pastori nei confronti dei fedeli e nel riconoscere i ministeri e i carismi propri a questi, in maniera tale che tutti concordemente cooperino, nella loro misura, al bene comune. Bisogna infatti che tutti « mediante la pratica di una carità sincera, cresciamo in ogni modo verso colui che è il capo, Cristo; da lui tutto il corpo, ben connesso e solidamente collegato, attraverso tutte le giunture di comunicazione, secondo l’attività proporzionata a ciascun membro, opera il suo accrescimento e si va edificando nella carità» (Ef 4,15-16).
Natura e missione dei laici
31. Col nome di laici si intende qui l’insieme dei cristiani ad esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello stato religioso sancito nella Chiesa, i fedeli cioè, che, dopo essere stati incorporati a Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio e, nella loro misura, resi partecipi dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano.
Il carattere secolare è proprio e peculiare dei laici. Infatti, i membri dell’ordine sacro, sebbene talora possano essere impegnati nelle cose del secolo, anche esercitando una professione secolare, tuttavia per la loro speciale vocazione sono destinati principalmente e propriamente al sacro ministero, mentre i religiosi col loro stato testimoniano in modo splendido ed esimio che il mondo non può essere trasfigurato e offerto a Dio senza lo spirito delle beatitudini. Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti i diversi doveri e lavori del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta. Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall’interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo esercitando il proprio ufficio sotto la guida dello spirito evangelico, e in questo modo a manifestare Cristo agli altri principalmente con la testimonianza della loro stessa vita e col fulgore della loro fede, della loro speranza e carità. A loro quindi particolarmente spetta di illuminare e ordinare tutte le cose temporali, alle quali sono strettamente legati, in modo che siano fatte e crescano costantemente secondo il Cristo e siano di lode al Creatore e Redentore.
Dignità dei laici nel popolo di Dio
32. La santa Chiesa è, per divina istituzione, organizzata e diretta con mirabile varietà. «A quel modo, infatti, che in uno- stesso corpo abbiamo molte membra, e le membra non hanno tutte le stessa funzione, così tutti insieme formiamo un solo corpo in Cristo, e individualmente siano membri gli uni degli altri » (Rm 12,4-5).
Non c’è quindi che un popolo di Dio scelto da lui: « un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo » (Ef 4,5); comune è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la grazia di adozione filiale, comune la vocazione alla perfezione; non c’è che una sola salvezza, una sola speranza e una carità senza divisioni. Nessuna ineguaglianza quindi in Cristo e nella Chiesa per riguardo alla stirpe o nazione, alla condizione sociale o al sesso, poiché « non c’è né Giudeo né Gentile, non c’è né schiavo né libero, non c’è né uomo né donna: tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28 gr.; cfr. Col 3,11).
Se quindi nella Chiesa non tutti camminano per la stessa via, tutti però sono chiamati alla santità e hanno ricevuto a titolo uguale la fede che introduce nella giustizia di Dio (cfr. 2 Pt 1,1). Quantunque alcuni per volontà di Cristo siano costituiti dottori, dispensatori dei misteri e pastori per gli altri, tuttavia vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo. La distinzione infatti posta dal Signore tra i sacri ministri e il resto del popolo di Dio comporta in sé unione, essendo i pastori e gli altri fedeli legati tra di loro da una comunità di rapporto: che i pastori della Chiesa sull’esempio di Cristo sono a servizio gli uni degli altri e a servizio degli altri fedeli, e questi a loro volta prestano volenterosi la loro collaborazione ai pastori e ai maestri. Così, nella diversità stessa, tutti danno testimonianza della mirabile unità nel corpo di Cristo: poiché la stessa diversità di grazie, di ministeri e di operazioni raccoglie in un tutto i figli di Dio, dato che « tutte queste cose opera… un unico e medesimo Spirito» (1 Cor 12,11).
I laici quindi, come per benevolenza divina hanno per fratello Cristo, il quale, pur essendo Signore di tutte le cose, non è venuto per essere servito, ma per servire (cfr. Mt 20,28), così anche hanno per fratelli coloro che, posti nel sacro ministero, insegnando e santificando e reggendo per autorità di Cristo, svolgono presso la famiglia di Dio l’ufficio di pastori, in modo che sia da tutti adempito il nuovo precetto della carità. A questo proposito dice molto bene sant’Agostino: « Se mi spaventa l’essere per voi, mi rassicura l’essere con voi. Perché per voi sono vescovo, con voi sono cristiano. Quello è nome di ufficio, questo di grazia; quello è nome di pericolo, questo di salvezza » [112].
L’apostolato dei laici
33. I laici, radunati nel popolo di Dio e costituiti nell’unico corpo di Cristo sotto un solo capo, sono chiamati chiunque essi siano, a contribuire come membra vive, con tutte le forze ricevute dalla bontà del Creatore e dalla grazia del Redentore, all’incremento della Chiesa e alla sua santificazione permanente.
L’apostolato dei laici è quindi partecipazione alla missione salvifica stessa della Chiesa; a questo apostolato sono tutti destinati dal Signore stesso per mezzo del battesimo e della confermazione. Dai sacramenti poi, e specialmente dalla sacra eucaristia, viene comunicata e alimentata quella carità verso Dio e gli uomini che è l’anima di tutto l’apostolato. Ma i laici sono soprattutto chiamati a rendere presente e operosa la Chiesa in quei luoghi e in quelle circostanze, in cui essa non può diventare sale della terra se non per loro mezzo [113]. Così ogni laico, in virtù dei doni che gli sono stati fatti, è testimonio e insieme vivo strumento della stessa missione della Chiesa « secondo la misura del dono del Cristo » (Ef 4,7).
Oltre a questo apostolato, che spetta a tutti i fedeli senza eccezione, i laici possono anche essere chiamati in diversi modi a collaborare più immediatamente con l’apostolato della Gerarchia [114] a somiglianza di quegli uomini e donne che aiutavano l’apostolo Paolo nell’evangelizzazione, faticando molto per il Signore (cfr. Fil 4,3; Rm 16,3 ss). Hanno inoltre la capacità per essere assunti dalla gerarchia ad esercitare, per un fine spirituale, alcuni uffici ecclesiastici.
Grava quindi su tutti i laici il glorioso peso di lavorare, perché il disegno divino di salvezza raggiunga ogni giorno più tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutta la terra. Sia perciò loro aperta qualunque via affinché, secondo le loro forze e le necessità dei tempi, anch’essi attivamente partecipino all’opera salvifica della Chiesa.
Partecipazione dei laici al sacerdozio comune
34. Il sommo ed eterno sacerdote Gesù Cristo, volendo continuare la sua testimonianza e il suo ministero anche attraverso i laici, li vivifica col suo Spirito e incessantemente li spinge ad ogni opera buona e perfetta.
A coloro infatti che intimamente congiunge alla sua vita e alla sua missione, concede anche di aver parte al suo ufficio sacerdotale per esercitare un culto spirituale, in vista della glorificazione di Dio e della salvezza degli uomini. Perciò i laici, essendo dedicati a Cristo e consacrati dallo Spirito Santo, sono in modo mirabile chiamati e istruiti per produrre frutti dello Spirito sempre più abbondanti. Tutte infatti le loro attività, preghiere e iniziative apostoliche, la vita coniugale e familiare, il lavoro giornaliero, il sollievo spirituale e corporale, se sono compiute nello Spirito, e anche le molestie della vita, se sono sopportate con pazienza, diventano offerte spirituali gradite a Dio attraverso Gesù Cristo (cfr. 1 Pt 2,5); nella celebrazione dell’eucaristia sono in tutta pietà presentate al Padre insieme all’oblazione del Corpo del Signore. Così anche i laici, in quanto adoratori dovunque santamente operanti, consacrano a Dio il mondo stesso.
Partecipazione dei laici alla funzione profetica del Cristo
35. Cristo, il grande profeta, il quale con la testimonianza della sua vita e con la potenza della sua parola ha proclamato il regno del Padre, adempie il suo ufficio profetico fino alla piena manifestazione della gloria, non solo per mezzo della gerarchia, che insegna in nome e con la potestà di lui, ma anche per mezzo dei laici, che perciò costituisce suoi testimoni provvedendoli del senso della fede e della grazia della parola (cfr. At 2,17-18; Ap 19,10), perché la forza del Vangelo risplenda nella vita quotidiana, familiare e sociale. Essi si mostrano figli della promessa quando, forti nella fede e nella speranza, mettono a profitto il tempo presente (cfr. Ef 5,16; Col 4,5) e con pazienza aspettano la gloria futura (cfr. Rm 8,25). E questa speranza non devono nasconderla nel segreto del loro cuore, ma con una continua conversione e lotta «contro i dominatori di questo mondo tenebroso e contro gli spiriti maligni» (Ef 6,12), devono esprimerla anche attraverso le strutture della vita secolare.
Come i sacramenti della nuova legge, alimento della vita e dell’apostolato dei fedeli, prefigurano un cielo nuovo e una nuova terra (cfr. Ap 21,1), così i laici diventano araldi efficaci della fede in ciò che si spera (cfr. Eb 11,1), se senza incertezze congiungono a una vita di fede la professione di questa stessa fede. Questa evangelizzazione o annunzio di Cristo fatto con la testimonianza della vita e con la parola acquista una certa nota specifica e una particolare efficacia dal fatto che viene compiuta nelle comuni condizioni del secolo.
In questo ordine di funzioni appare di grande valore quello stato di vita che è santificato da uno speciale sacramento: la vita matrimoniale e familiare. L’esercizio e scuola per eccellenza di apostolato dei laici si ha là dove la religione cristiana permea tutta l’organizzazione della vita e ogni giorno più la trasforma. Là i coniugi hanno la propria vocazione: essere l’uno all’altro e ai figli testimoni della fede e dell’amore di Cristo. La famiglia cristiana proclama ad alta voce allo stesso tempo le virtù presenti del regno di Dio e la speranza della vita beata. Così, col suo esempio e con la sua testimonianza, accusa il mondo di peccato e illumina quelli che cercano la verità.
I laici quindi, anche quando sono occupati in cure temporali, possono e devono esercitare una preziosa azione per l’evangelizzazione del mondo. Alcuni di loro, in mancanza di sacri ministri o essendo questi impediti in regime di persecuzione, suppliscono alcuni uffici sacri secondo le proprie possibilità; altri, più numerosi, spendono tutte le loro forze nel lavoro apostolico: bisogna tuttavia che tutti cooperino all’ estensione e al progresso del regno di Cristo nel mondo. Perciò i laici si applichino con diligenza all’approfondimento della verità rivelata e domandino insistentemente a Dio il dono della sapienza.
Partecipazione dei laici al servizio regale
36. Cristo, fattosi obbediente fino alla morte e perciò esaltato dal Padre (cfr. Fil 2,8-9), è entrato nella gloria del suo regno; a lui sono sottomesse tutte le cose, fino a che egli sottometta al Padre se stesso e tutte le creature, affinché Dio sia tutto in tutti (cfr. 1 Cor 15,27-28). Questa potestà egli l’ha comunicata ai discepoli, perché anch’essi siano costituiti nella libertà regale e con l’abnegazione di sé e la vita santa vincano in se stessi il regno del peccato anzi, servendo il Cristo anche negli altri, con umiltà e pazienza conducano i loro fratelli al Re, servire i1 quale è regnare. Il Signore infatti desidera estendere il suo regno anche per mezzo dei fedeli laici: i1 suo regno che è regno « di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace » [115] e in questo regno anche le stesse creature saranno liberate dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla gloriosa libertà dei figli di Dio (cfr. Rm 8,21). Grande veramente è la promessa, grande il comandamento dato ai discepoli: « Tutto è vostro, ma voi siete di Cristo, e Cristo è di Dio » (1 Cor 3,23).
I fedeli perciò devono riconoscere la natura profonda di tutta la creazione, il suo valore e la sua ordinazione alla lode di Dio, e aiutarsi a vicenda a una vita più santa anche con opere propriamente secolari, affinché il mondo si impregni dello spirito di Cristo e raggiunga più efficacemente il suo fine nella giustizia, nella carità e nella pace. Nel compimento universale di questo ufficio, i laici hanno il posto di primo piano. Con la loro competenza quindi nelle discipline profane e con la loro attività, elevata intrinsecamente dalla grazia di Cristo, portino efficacemente l’opera loro, affinché i beni creati, secondo i fini del Creatore e la luce del suo Verbo, siano fatti progredire dal lavoro umano, dalla tecnica e dalla cultura civile per l’utilità di tutti gli uomini senza eccezione, e siano tra loro più convenientemente distribuiti e, secondo la loro natura, portino al progresso universale nella libertà umana e cristiana. Così Cristo per mezzo dei membri della Chiesa illuminerà sempre di più l’intera società umana con la sua luce che salva.
Inoltre i laici, anche consociando le forze, risanino le istituzioni e le condizioni del mondo, se ve ne siano che provocano al peccato, così che tutte siano rese conformi alle norme della giustizia e, anziché ostacolare, favoriscano l’esercizio delle virtù. Così agendo impregneranno di valore morale la cultura e le opere umane. In questo modo il campo del mondo si trova meglio preparato per accogliere il seme della parola divina, e insieme le porte della Chiesa si aprono più larghe, per permettere che l’annunzio della pace entri nel mondo.
Per l’economia stessa della salvezza imparino i fedeli a ben distinguere tra i diritti e i doveri, che loro incombono in quanto membri della Chiesa, e quelli che competono loro in quanto membri della società umana. cerchino di metterli in armonia fra loro, ricordandosi che in ogni cosa temporale devono essere guidati dalla coscienza cristiana, poiché nessuna attività umana, neanche nelle cose temporali, può essere sottratta al comando di Dio. Nel nostro tempo è sommamente necessario che questa distinzione e questa armonia risplendano nel modo più chiaro possibile nella maniera di agire dei fedeli, affinché la missione della Chiesa possa più pienamente rispondere alle particolari condizioni del mondo moderno. Come infatti si deve riconoscere che la città terrena, legittimamente dedicata alle cure secolari, è retta da propri principi, così a ragione è rigettata 1 infausta dottrina che pretende di costruire la società senza alcuna considerazione per la religione e impugna ed elimina la libertà religiosa dei cittadini [116].
I laici e la gerarchia
37. I laici, come tutti i fedeli, hanno il diritto di ricevere abbondantemente dai sacri pastori i beni spirituali della Chiesa, soprattutto gli aiuti della parola di Dio e dei sacramenti [117]; ad essi quindi manifestino le loro necessità e i loro desideri con quella libertà e fiducia che si addice ai figli di Dio e ai fratelli in Cristo. Secondo la scienza, competenza e prestigio di cui godono, hanno la facoltà, anzi talora anche il dovere, di far conoscere il loro parere su cose concernenti il bene della Chiesa [118]. Se occorre, lo facciano attraverso gli organi stabiliti a questo scopo dalla Chiesa, e sempre con verità, fortezza e prudenza, con rispetto e carità verso coloro che, per ragione del loro sacro ufficio, rappresentano Cristo. I laici, come tutti i fedeli, con cristiana obbedienza prontamente abbraccino ciò che i pastori, quali rappresentanti di Cristo, stabiliscono in nome del loro magistero e della loro autorità nella Chiesa, seguendo in ciò l’esempio di Cristo, il quale con la sua obbedienza fino alla morte ha aperto a tutti gli uomini la via beata della libertà dei figli di Dio. Né tralascino di raccomandare a Dio con le preghiere i loro superiori, affinché, dovendo questi vegliare sopra le nostre anime come persone che ne dovranno rendere conto, lo facciano con gioia e non gemendo (cfr. Eb 13,17).
I pastori, da parte loro, riconoscano e promuovano la dignità e la responsabilità dei laici nella Chiesa; si servano volentieri del loro prudente consiglio, con fiducia affidino loro degli uffici in servizio della Chiesa e lascino loro libertà e margine di azione, anzi li incoraggino perché intraprendano delle opere anche di propria iniziativa. Considerino attentamente e con paterno affetto in Cristo le iniziative, le richieste e i desideri proposti dai laici e, infine, rispettino e riconoscano quella giusta libertà, che a tutti compete nella città terrestre.
Da questi familiari rapporti tra i laici e i pastori si devono attendere molti vantaggi per la Chiesa: in questo modo infatti si afferma nei laici il senso della propria responsabilità, ne è favorito lo slancio e le loro forze più facilmente vengono associate all’opera dei pastori. E questi, aiutati dall’esperienza dei laici [119], possono giudicare con più chiarezza e opportunità sia in cose spirituali che temporali; e così tutta la Chiesa, forte di tutti i suoi membri, compie con maggiore efficacia la sua missione per la vita del mondo.
Conclusione
38. Ogni laico deve essere davanti al mondo un testimone della risurrezione e della vita del Signore Gesù e un segno del Dio vivo. Tutti insieme, e ognuno per la sua parte, devono nutrire il mondo con i frutti spirituali (cfr. Gal 5,22) e in esso diffondere lo spirito che anima i poveri, miti e pacifici, che il Signore nel Vangelo proclamò beati (cfr. Mt 5,3-9). In una parola: « ciò che l’anima è nel corpo, questo siano i cristiani nel mondo » [120].
UNIVERSALE VOCAZIONE ALLA SANTITÀ NELLA CHIESA
La santità nella Chiesa
39. La Chiesa, il cui mistero è esposto dal sacro Concilio, è agli occhi della fede indefettibilmente santa. Infatti Cristo, Figlio di Dio, il quale col Padre e lo Spirito è proclamato « il solo Santo » [121], amò la Chiesa come sua sposa e diede se stesso per essa, al fine di santificarla (cfr. Ef 5,25-26), l’ha unita a sé come suo corpo e l’ha riempita col dono dello Spirito Santo, per la gloria di Dio. Perciò tutti nella Chiesa, sia che appartengano alla gerarchia, sia che siano retti da essa, sono chiamati alla santità, secondo le parole dell’Apostolo: « Sì, ciò che Dio vuole è la vostra santificazione » (1 Ts 4,3; cfr. Ef 1,4). Orbene, questa santità della Chiesa costantemente si manifesta e si deve manifestare nei frutti della grazia che lo Spirito produce nei fedeli; si esprime in varie forme in ciascuno di quelli che tendono alla carità perfetta nella linea propria di vita ed edificano gli altri; e in un modo tutto suo proprio si manifesta nella pratica dei consigli che si sogliono chiamare evangelici. Questa pratica dei consigli, abbracciata da molti cristiani per impulso dello Spirito Santo, sia a titolo privato, sia in una condizione o stato sanciti nella Chiesa, porta e deve portare nel mondo una luminosa testimonianza e un esempio di questa santità.
Vocazione universale alla santità
40. Il Signore Gesù, maestro e modello divino di ogni perfezione, a tutti e a ciascuno dei suoi discepoli di qualsiasi condizione ha predicato quella santità di vita, di cui egli stesso è autore e perfezionatore: «Siate dunque perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste» (Mt 5,48) [122]. Mandò infatti a tutti lo Spirito Santo, che li muova internamente ad amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente, con tutte le forze (cfr Mc 12,30), e ad amarsi a vicenda come Cristo ha amato loro (cfr. Gv 13,34; 15,12). I seguaci di Cristo, chiamati da Dio, non a titolo delle loro opere, ma a titolo del suo disegno e della grazia, giustificati in Gesù nostro Signore, nel battesimo della fede sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, e perciò realmente santi. Essi quindi devono, con l’aiuto di Dio, mantenere e perfezionare con la loro vita la santità che hanno ricevuto. Li ammonisce l’Apostolo che vivano « come si conviene a santi » (Ef 5,3), si rivestano «come si conviene a eletti di Dio, santi e prediletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di dolcezza e di pazienza » (Col 3,12) e portino i frutti dello Spirito per la loro santificazione (cfr. Gal 5,22; Rm 6,22). E poiché tutti commettiamo molti sbagli (cfr. Gc 3,2), abbiamo continuamente bisogno della misericordia di Dio e dobbiamo ogni giorno pregare: « Rimetti a noi i nostri debiti » (Mt 6,12) [123].
È dunque evidente per tutti, che tutti coloro che credono nel Cristo di qualsiasi stato o rango, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità [124] e che tale santità promuove nella stessa società terrena un tenore di vita più umano. Per raggiungere questa perfezione i fedeli usino le forze ricevute secondo la misura con cui Cristo volle donarle, affinché, seguendo l’esempio di lui e diventati conformi alla sua immagine, in tutto obbedienti alla volontà del Padre, con piena generosità si consacrino alla gloria di Dio e al servizio del prossimo. Così la santità del popolo di Dio crescerà in frutti abbondanti, come è splendidamente dimostrato nella storia della Chiesa dalla vita di tanti santi.
Esercizio multiforme della santità
41. Nei vari generi di vita e nei vari compiti una unica santità è coltivata da quanti sono mossi dallo Spirito di Dio e, obbedienti alla voce del Padre e adorando in spirito e verità Dio Padre, camminano al seguito del Cristo povero, umile e carico della croce, per meritare di essere partecipi della sua gloria. Ognuno secondo i propri doni e uffici deve senza indugi avanzare per la via della fede viva, la quale accende la speranza e opera per mezzo della carità . In primo luogo i pastori del gregge di Cristo devono, a immagine del sommo ed eterno sacerdote, pastore e vescovo delle anime nostre, compiere con santità e slancio, umiltà e forza il proprio ministero: esso, così adempiuto, sarà anche per loro un eccellente mezzo di santificazione. Chiamati per ricevere la pienezza del sacerdozio, è loro data la grazia sacramentale affinché, mediante la preghiera, il sacrificio e la predicazione, mediante ogni forma di cura e di servizio episcopale, esercitino un perfetto ufficio di carità pastorale [125] non temano di dare la propria vita per le pecorelle e, fattisi modello del gregge (cfr. 1 Pt 5,3), aiutino infine con l’esempio la Chiesa ad avanzare verso una santità ogni giorno più grande.
I sacerdoti, a somiglianza dell’ordine dei vescovi, dei quali formano la corona spirituale [126] partecipando alla grazia dell’ufficio di quelli per mezzo di Cristo, eterno ed unico mediatore, mediante il quotidiano esercizio del proprio ufficio crescano nell’amore di Dio e del prossimo, conservino il vincolo della comunione sacerdotale, abbondino in ogni bene spirituale e diano a tutti la viva testimonianza di Dio [127] emuli di quei sacerdoti che nel corso dei secoli, in un servizio spesso umile e nascosto, hanno lasciato uno splendido esempio di santità. La loro lode risuona nella Chiesa di Dio. Pregando e offrendo il sacrificio, com’è loro dovere, per il loro popolo e per tutto il popolo di Dio, cosciente di ciò che fanno e confermandosi ai misteri che compiono [128] anziché essere ostacolati dalle cure apostoliche, dai pericoli e dalle tribolazioni, ascendano piuttosto per mezzo dì esse ad una maggiore santità, nutrendo e dando slancio con l’abbondanza della contemplazione alla propria attività, per il conforto di tutta la Chiesa di Dio. Tutti i sacerdoti e specialmente quelli che, a titolo particolare della loro ordinazione, portano il nome di sacerdoti diocesani, ricordino quanto contribuiscano alla loro santificazione la fedele unione e la generosa cooperazione col loro vescovo.
Alla missione e alla grazia del supremo Sacerdote partecipano in modo proprio anche i ministri di ordine inferiore; e prima di tutto i diaconi, i quali, servendo i misteri di Dio e della Chiesa [129] devono mantenersi puri da ogni vizio, piacere a Dio e studiarsi di fare ogni genere di opere buone davanti agli uomini (cfr. 1 Tm 3,8-10; e 12-13). I chierici che, chiamati dal Signore e separati per aver parte con lui, sotto la vigilanza dei pastori si preparano alle funzioni di sacri ministri, sono tenuti a conformare le loro menti e i loro cuori a una così eccelsa vocazione; assidui nell’orazione, ferventi nella carità, intenti a quanto è vero, giusto e onorevole, facendo tutto per la gloria e l’onore di Dio. A questi bisogna aggiungere quei laici scelti da Dio, i quali sono chiamati dal vescovo, perché si diano più completamente alle opere apostoliche, e nel campo del Signore lavorano con molto frutto [130].
I coniugi e i genitori cristiani, seguendo la loro propria via, devono sostenersi a vicenda nella fedeltà dell’amore con l’aiuto della grazia per tutta la vita, e istruire nella dottrina cristiana e nelle virtù evangeliche la prole, che hanno amorosamente accettata da Dio. Così infatti offrono a tutti l’esempio di un amore instancabile e generoso, edificando la carità fraterna e diventano testimoni e cooperatori della fecondità della madre Chiesa, in segno e partecipazione di quell’amore, col quale Cristo amò la sua sposa e si è dato per lei [131]. Un simile esempio è offerto in altro modo dalle persone vedove e celibatarie, le quali pure possono contribuire non poco alla santità e alla operosità della Chiesa. Quelli poi che sono dediti a lavori spesso faticosi, devono con le opere umane perfezionare se stessi, aiutare i concittadini e far progredire tutta la società e la creazione verso uno stato migliore; devono infine, con carità operosa, imitare Cristo, le cui mani si esercitarono in lavori manuali e il quale sempre opera col Padre alla salvezza di tutti, in ciò animati da una gioiosa speranza, aiutandosi gli uni gli altri a portare i propri fardelli, ascendendo mediante il lavoro quotidiano a una santità sempre più alta, santità che sarà anche apostolica.
Sappiano che sono pure uniti in modo speciale a Cristo sofferente per la salute del mondo quelli che sono oppressi dalla povertà, dalla infermità, dalla malattia e dalle varie tribolazioni, o soffrono persecuzioni per la giustizia: il Signore nel Vangelo li ha proclamati beati, e « il Dio… di ogni grazia, che ci ha chiamati all’eterna sua gloria in Cristo Gesù, dopo un po’ di patire, li condurrà egli stesso a perfezione e li renderà stabili e sicuri» (1 Pt 5,10).
Tutti quelli che credono in Cristo saranno quindi ogni giorno più santificati nelle condizioni, nei doveri o circostanze che sono quelle della loro vita, e per mezzo di tutte queste cose, se le ricevono con fede dalla mano del Padre celeste e cooperano con la volontà divina, manifestando a tutti, nello stesso servizio temporale, la carità con la quale Dio ha amato il mondo.
Vie e mezzi di santità
42. « Dio è amore e chi rimane nell’amore, rimane in Dio e Dio in lui » (1 Gv 4,16). Dio ha diffuso il suo amore nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci fu dato (cfr. Rm 5,5); perciò il dono primo e più necessario è la carità, con la quale amiamo Dio sopra ogni cosa e il prossimo per amore di lui. Ma perché la carità, come buon seme, cresca e nidifichi, ogni fedele deve ascoltare volentieri la parola di Dio e con l’aiuto della sua grazia compiere con le opere la sua volontà, partecipare frequentemente ai sacramenti, soprattutto all’eucaristia, e alle azioni liturgiche; applicarsi costantemente alla preghiera, all’abnegazione di se stesso, all’attivo servizio dei fratelli e all’esercizio di tutte le virtù. La carità infatti, quale vincolo della perfezione e compimento della legge (cfr. Col 3,14; Rm 13,10), regola tutti i mezzi di santificazione, dà loro forma e li conduce al loro fine [132]. Perciò il vero discepolo di Cristo è contrassegnato dalla carità verso Dio e verso il prossimo.
Avendo Gesù, Figlio di Dio, manifestato la sua carità dando per noi la vita, nessuno ha più grande amore di colui che dà la vita per lui e per i fratelli (cfr. 1 Gv 3,16; Gv 15,13). Già fin dai primi tempi quindi, alcuni cristiani sono stati chiamati, e altri lo saranno sempre, a rendere questa massima testimonianza d’amore davanti agli uomini, e specialmente davanti ai persecutori. Perciò il martirio, col quale il discepolo è reso simile al suo maestro che liberamente accetta la morte per la salute del mondo, e col quale diventa simile a lui nella effusione del sangue, è stimato dalla Chiesa come dono insigne e suprema prova di carità. Ché se a pochi è concesso, tutti però devono essere pronti a confessare Cristo davanti agli uomini e a seguirlo sulla via della croce durante le persecuzioni, che non mancano mai alla Chiesa.
Parimenti la santità della Chiesa è favorita in modo speciale dai molteplici consigli che il Signore nel Vangelo propone all’osservanza dei suoi discepoli [133]. Tra essi eccelle il prezioso dono della grazia divina, dato dal Padre ad alcuni (cfr. Mt 19,11; 1 Cor 7,7), di consacrarsi, più facilmente e senza divisione del cuore (cfr. 1 Cor 7,7), a Dio solo nella verginità o nel celibato [134]. Questa perfetta continenza per il regno dei cieli è sempre stata tenuta in singolare onore dalla Chiesa, quale segno e stimolo della carità e speciale sorgente di fecondità spirituale nel mondo.
La Chiesa ripensa anche al monito dell’Apostolo, il quale incitando i fede]i alla carità, ]i esorta ad avere in sé gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale « spogliò se stesso, prendendo la natura di un servo… facendosi obbediente fino alla morte » (Fil 2,7-8), e per noi «da ricco che era si fece povero » (2 Cor 8,9). L’imitazione e la testimonianza di questa carità e umiltà del Cristo si impongono ai discepoli in permanenza; per questo la Chiesa, nostra madre, si rallegra di trovare nel suo seno molti uomini e donne che seguono più da vicino questo annientamento del Salvatore e più chiaramente lo mostrano, abbracciando, nella libertà dei figli di Dio, la povertà e rinunziando alla propria volontà: essi cioè per amore di Dio, in ciò che riguarda la perfezione, si sottomettono a una creatura umana al di là della stretta misura del precetto, al fine di conformarsi più pienamente a Cristo obbediente [135].
Tutti i fedeli del Cristo quindi sono invitati e tenuti a perseguire la santità e la perfezione del proprio stato. Perciò tutti si sforzino di dirigere rettamente i propri affetti, affinché dall’uso delle cose di questo mondo e da un attaccamento alle ricchezze contrario allo spirito della povertà evangelica non siano impediti di tendere alla carità perfetta; ammonisce infatti l’Apostolo: Quelli che usano di questo mondo, non vi ci si arrestino, perché passa la scena di questo mondo (cfr. 1 Cor 7,31 gr.) [136].
I RELIGIOSI
I consigli evangelici nella Chiesa
43. I consigli evangelici della castità consacrata a Dio, della povertà e dell’obbedienza, essendo fondati sulle parole e sugli esempi del Signore e raccomandati dagli apostoli, dai Padri e dai dottori e pastori della Chiesa, sono un dono divino che la Chiesa ha ricevuto dal suo Signore e con la sua grazia sempre conserva. La stessa autorità della Chiesa, sotto la guida dello Spirito Santo, si è data cura di interpretarli, di regolarne la pratica e anche di stabilire sulla loro base delle forme stabili di vita. Avvenne quindi che, come un albero che si ramifica in modi mirabili e molteplici nel campo del Signore a partire da un germe seminato da Dio, si sviluppassero varie forme di vita solitaria o comune e varie famiglie, il cui capitale spirituale contribuisce al bene sia dei membri di quelle famiglie, sia di tutto il corpo di Cristo [137]. Quelle famiglie infatti forniscono ai loro membri gli aiuti di una maggiore stabilità nella loro forma di vita, di una dottrina provata per il conseguimento della perfezione, della comunione fraterna nella milizia di Cristo, di una libertà corroborata dall’obbedienza, così che possano adempiere con sicurezza e custodire con fedeltà la loro professione religiosa, avanzando nella gioia spirituale sul cammino della carità [138].
Un simile stato, se si riguardi la divina e gerarchica costituzione della Chiesa, non è intermedio tra la condizione clericale e laicale, ma da entrambe le parti alcuni fedeli sono chiamati da Dio a fruire di questo speciale dono nella vita della Chiesa e ad aiutare, ciascuno a suo modo, la sua missione salvifica [139].
Natura e importanza dello stato religioso
44. Con i voti o altri impegni sacri simili ai voti secondo il modo loro proprio, il fedele si obbliga all’osservanza dei tre predetti consigli evangelici; egli si dona totalmente a Dio amato al di sopra di tutto, così da essere con nuovo e speciale titolo destinato al servizio e all’onore di Dio. Già col battesimo è morto al peccato e consacrato a Dio; ma per poter raccogliere in più grande abbondanza i frutti della grazia battesimale, con la professione dei consigli evangelici nella Chiesa intende liberarsi dagli impedimenti che potrebbero distoglierlo dal fervore della carità e dalla perfezione del culto divino, e si consacra più intimamente al servizio di Dio [140]. La consacrazione poi sarà più perfetta, in quanto legami più solidi e stabili riproducono di più l’immagine del Cristo unito alla Chiesa sua sposa da un legame indissolubile.
Siccome quindi i consigli evangelici, per mezzo della carità alla quale conducono [141] congiungono in modo speciale coloro che li praticano alla Chiesa e al suo mistero, la loro vita spirituale deve pure essere consacrata al bene di tutta la Chiesa. Di qui deriva il dovere di lavorare, secondo le forze e la forma della propria vocazione, sia con la preghiera, sia anche con l’attività effettiva, a radicare e consolidare negli animi il regno di Cristo e a dilatarlo in ogni parte della terra. Per questo la Chiesa difende e sostiene l’indole propria dei vari istituti religiosi. Perciò la professione dei consigli evangelici appare come un segno, il quale può e deve attirare efficacemente tutti i membri della Chiesa a compiere con slancio i doveri della vocazione cristiana. Poiché infatti il popolo di Dio non ha qui città permanente, ma va in cerca della futura, lo stato religioso, il quale rende più liberi i suoi seguaci dalle cure terrene, meglio anche manifesta a tutti i credenti i beni celesti già presenti in questo tempo, meglio testimonia l’esistenza di una vita nuova ed eterna, acquistata dalla redenzione di Cristo, e meglio preannunzia la futura resurrezione e la gloria del regno celeste. Parimenti, lo stato religioso imita più fedelmente e rappresenta continuamente nella Chiesa la forma di vita che il Figlio di Dio abbracciò venendo nel mondo per fare la volontà del Padre e che propose ai discepoli che lo seguivano. Infine, in modo speciale manifesta l’elevazione del regno di Dio sopra tutte le cose terrestri e le sue esigenze supreme; dimostra pure a tutti gli uomini la preminente grandezza della potenza di Cristo-Re e la infinita potenza dello Spirito Santo, mirabilmente operante nella Chiesa.
Lo stato di vita dunque costituito dalla professione dei consigli evangelici, pur non concernendo la struttura gerarchica della Chiesa, appartiene tuttavia inseparabilmente alla sua vita e alla sua santità.
La gerarchia e lo stato religioso
45. Essendo ufficio della gerarchia ecclesiastica di pascere il popolo di Dio e condurlo a pascoli ubertosi (cfr. Ez 34,14), spetta ad essa di regolare sapientemente con le sue leggi la pratica dei consigli evangelici, strumento singolare al servizio della carità perfetta verso Dio e verso il prossimo [142], Essa inoltre, seguendo docilmente gli impulsi dello Spirito Santo, accoglie le regole proposte da uomini e donne esimi, e, infine dopo averle messe a punto più perfettamente, dà loro una approvazione autentica; con la sua autorità vigile e protettrice viene pure in aiuto agli istituti, dovunque eretti per l’edificazione del corpo di Cristo, perché abbiano a crescere e fiorire secondo lo spirito dei fondatori.
Perché poi sia provveduto il meglio possibile alle necessità dell’intero gregge del Signore, il sommo Pontefice può, in ragione del suo primato sulla Chiesa universale e in vista dell’interesse comune esentare ogni istituto di perfezione e ciascuno dei suoi membri dalla giurisdizione dell’ordinario del luogo e sottoporli a sé solo [143]. Similmente essi possono essere lasciati o affidati alle proprie autorità patriarcali. Da parte loro i membri nel compiere i loro doveri verso la Chiesa secondo la loro forma particolare di vita, devono, conforme alle leggi canoniche, prestare riverenza e obbedienza ai vescovi, a causa della loro autorità pastorale nelle Chiese particolari e per la necessaria unità e concordia nel lavoro apostolico [144].
La Chiesa non solo erige con la sua sanzione la professione religiosa alla dignità dello stato canonico, ma con la sua azione liturgica la presenta pure come stato di consacrazione a Dio. La stessa Chiesa infatti, in nome dell’autorità affidatagli da Dio, riceve i voti di quelli che fanno la professione, per loro impetra da Dio gli aiuti e la grazia con la sua preghiera pubblica, li raccomanda a Dio e impartisce loro una benedizione spirituale, associando la loro offerta al sacrificio eucaristico.
Grandezza della consacrazione religiosa
46. I religiosi pongano ogni cura, affinché per loro mezzo la Chiesa abbia ogni giorno meglio da presentare Cristo ai fedeli e agli infedeli: sia nella sua contemplazione sul monte, sia nel suo annuncio del regno di Dio alle turbe, sia quando risana i malati e gli infermi e converte a miglior vita i peccatori, sia quando benedice i fanciulli e fa del bene a tutti, sempre obbediente alla volontà del Padre che lo ha mandato [145].
Tutti infine abbiano ben chiaro che la professione dei consigli evangelici, quantunque comporti la rinunzia di beni certamente molto apprezzabili, non si oppone al vero progresso della persona umana, ma al contrario per sua natura le è di grandissimo profitto. Infatti i consigli, volontariamente abbracciati secondo la personale vocazione di ognuno, contribuiscono considerevolmente alla purificazione del cuore e alla libertà spirituale, stimolano in permanenza il fervore della carità e soprattutto come è comprovato dall’esempio di tanti santi fondatori, sono capaci di assicurare al cristiano una conformità più grande col genere di vita verginale e povera che Cristo Signore si scelse per sé e che la vergine Madre sua abbracciò. Né pensi alcuno che i religiosi con la loro consacrazione diventino estranei agli uomini o inutili nella città terrestre. Poiché, se anche talora non sono direttamente presenti a fianco dei loro contemporanei, li tengono tuttavia presenti in modo più profondo con la tenerezza di Cristo, e con essi collaborano spiritualmente, affinché la edificazione della città terrena sia sempre fondata nel Signore, e a lui diretta, né avvenga che lavorino invano quelli che la stanno edificando [146].
Perciò il sacro Concilio conferma e loda quegli uomini e quelle donne, quei fratelli e quelle sorelle, i quali nei monasteri, nelle scuole, negli ospedali e nelle missioni, con perseverante e umile fedeltà alla loro consacrazione, onorano la sposa di Cristo e a tutti gli uomini prestano generosi e diversissimi servizi.
Esortazione alla perseveranza
47. Ognuno poi che è chiamato alla professione dei consigli, ponga ogni cura nel perseverare e maggiormente eccellere nella vocazione a cui Dio l’ha chiamato, per una più grande santità della Chiesa e per la maggior gloria della Trinità, una e indivisa, la quale in Cristo e per mezzo di Cristo è la fonte e l’origine di ogni santità.
INDOLE ESCATOLOGICA DELLA CHIESA PEREGRINANTE
E SUA UNIONE CON LA CHIESA CELESTE
Natura escatologica della nostra vocazione
48. La Chiesa, alla quale tutti siamo chiamati in Cristo Gesù e nella quale per mezzo della grazia di Dio acquistiamo la santità, non avrà il suo compimento se non nella gloria celeste, quando verrà il tempo in cui tutte le cose saranno rinnovate (cfr. Ap 3,21), e col genere umano anche tutto l’universo, il quale è intimamente congiunto con l’uomo e per mezzo di lui arriva al suo fine, troverà nel Cristo la sua definitiva perfezione (cfr. Ef 1,10; Col 1,20).
E invero il Cristo, quando fu levato in alto da terra, attirò tutti a sé (cfr. Gv 12,32 gr.); risorgendo dai morti (cfr. Rm 6,9) immise negli apostoli il suo Spirito vivificatore, e per mezzo di lui costituì il suo corpo, che è la Chiesa, quale sacramento universale della salvezza; assiso alla destra del Padre, opera continuamente nel mondo per condurre gli uomini alla Chiesa e attraverso di essa congiungerli più strettamente a sé e renderli partecipi della sua vita gloriosa col nutrimento del proprio corpo e del proprio sangue. Quindi la nuova condizione promessa e sperata è già incominciata con Cristo; l’invio dello Spirito Santo le ha dato il suo slancio e per mezzo di lui essa continua nella Chiesa, nella quale siamo dalla fede istruiti anche sul senso della nostra vita temporale, mentre portiamo a termine, nella speranza dei beni futuri, l’opera a noi affidata nel mondo dal Padre e attuiamo così la nostra salvezza (cfr. Fil 2,12).
Già dunque è arrivata a noi l’ultima fase dei tempi (cfr. 1 Cor 10,11). La rinnovazione del mondo è irrevocabilmente acquisita e in certo modo reale è anticipata in questo mondo: difatti la Chiesa già sulla terra è adornata di vera santità, anche se imperfetta. Tuttavia, fino a che non vi saranno i nuovi cieli e la terra nuova, nei quali la giustizia ha la sua dimora (cfr. 2 Pt 3,13), la Chiesa peregrinante nei suoi sacramenti e nelle sue istituzioni, che appartengono all’età presente, porta la figura fugace di questo mondo; essa vive tra le creature, le quali ancora gemono, sono nel travaglio del parto e sospirano la manifestazione dei figli di Dio (cfr. Rm 8,19-22).
Congiunti dunque con Cristo nella Chiesa e contrassegnati dallo Spirito Santo « che è il pegno della nostra eredità » (Ef 1,14), con verità siamo chiamati figli di Dio, e lo siamo veramente (cfr. 1 Gv 3,1), ma non siamo ancora apparsi con Cristo nella gloria (cfr. Col 3,4), nella quale saremo simili a Dio, perché lo vedremo qual è (cfr. 1 Gv 3,2). Pertanto, « finché abitiamo in questo corpo siamo esuli lontani dal Signore » (2 Cor 5,6); avendo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente (cfr. Rm 8,23) e bramiamo di essere con Cristo (cfr. Fil 1,23). Dalla stessa carità siamo spronati a vivere più intensamente per lui, il quale per noi è morto e risuscitato (cfr. 2 Cor 5,15). E per questo ci sforziamo di essere in tutto graditi al Signore (cfr. 2 Cor 5,9) e indossiamo l’armatura di Dio per potere star saldi contro gli agguati del diavolo e resistergli nel giorno cattivo (cfr. Ef 6,11-13). Siccome poi non conosciamo il giorno né l’ora, bisogna che, seguendo l’avvertimento del Signore, vegliamo assiduamente, per meritare, finito il corso irrepetibile della nostra vita terrena (cfr.Eb 9,27), di entrare con lui al banchetto nuziale ed essere annoverati fra i beati (cfr. Mt 25,31-46), e non ci venga comandato, come a servi cattivi e pigri (cfr. Mt 25,26), di andare al fuoco eterno (cfr Mt 25,41), nelle tenebre esteriori dove «ci sarà pianto e stridore dei denti » (Mt 22,13 e 25,30). Prima infatti di regnare con Cristo glorioso, noi tutti compariremo « davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno il salario della sua vita mortale, secondo quel che avrà fatto di bene o di male » (2 Cor 5,10), e alla fine del mondo « usciranno dalla tomba, chi ha operato il bene a risurrezione di vita, e chi ha operato il male a risurrezione di condanna » (Gv 5,29, cfr Mt 25,46). Stimando quindi che « le sofferenze dei tempo presente non sono adeguate alla gloria futura che si dovrà manifestare in noi» (Rm 8,18; cfr 2 Tm 2,11-12), forti nella fede aspettiamo «la beata speranza e la manifestazione gloriosa del nostro grande Iddio e Salvatore Gesù Cristo» (Tt 2,13) « il quale trasformerà allora il nostro misero corpo, rendendolo conforme al suo corpo glorioso» (Fil 3,21), e verrà «per essere glorificato nei suoi santi e ammirato in tutti quelli che avranno creduto ».
La Chiesa celeste e la Chiesa peregrinante
49. Fino a che dunque il Signore non verrà nella sua gloria, accompagnato da tutti i suoi angeli (cfr. Mt 25,31) e, distrutta la morte, non gli saranno sottomesse tutte le cose (cfr. 1 Cor 15,26-27), alcuni dei suoi discepoli sono pellegrini sulla terra, altri, compiuta questa vita, si purificano ancora, altri infine godono della gloria contemplando « chiaramente Dio uno e trino, qual è » [147]. Tutti però, sebbene in grado e modo diverso, comunichiamo nella stessa carità verso Dio e verso il prossimo e cantiamo al nostro Dio lo stesso inno di gloria. Tutti infatti quelli che sono di Cristo, avendo lo Spirito Santo, formano una sola Chiesa e sono tra loro uniti in lui (cfr. Ef 4,16). L’unione quindi di quelli che sono ancora in cammino coi fratelli morti nella pace di Cristo non è minimamente spezzata; anzi, secondo la perenne fede della Chiesa, è consolidata dallo scambio dei beni spirituali [148]. A causa infatti della loro più intima unione con Cristo, gli abitanti del cielo rinsaldano tutta la Chiesa nella santità, nobilitano il culto che essa rende a Dio qui in terra e in molteplici maniere contribuiscono ad una più ampia edificazione (cfr. 1 Cor 12,12-27) [149]. Ammessi nella patria e presenti al Signore (cfr. 2 Cor 5,8), per mezzo di lui, con lui e in lui non cessano di intercedere per noi presso il Padre [150] offrendo i meriti acquistati in terra mediante Gesù Cristo, unico mediatore tra Dio e gli uomini (cfr. 1 Tm 2,5), servendo al Signore in ogni cosa e dando compimento nella loro carne a ciò che manca alle tribolazioni di Cristo a vantaggio del suo corpo che è la Chiesa (cfr. Col 1,24) [151]. La nostra debolezza quindi è molto aiutata dalla loro fraterna sollecitudine.
Relazioni della Chiesa celeste con la Chiesa peregrinante
50. La Chiesa di coloro che camminano sulla terra, riconoscendo benissimo questa comunione di tutto il corpo mistico di Gesù Cristo, fino dai primi tempi della religione cristiana coltivò con grande pietà la memoria dei defunti e, «poiché santo e salutare è il pensiero di pregare per i defunti [152] perché siano assolti dai peccati», ha offerto per loro anche suffragi. Che gli apostoli e i martiri di Cristo, i quali con l’effusione del loro sangue diedero la suprema testimonianza della fede e della carità, siano con noi strettamente uniti in Cristo, la Chiesa lo ha sempre creduto; li ha venerati con particolare affetto insieme con la beata vergine Maria e i santi angeli [153] e ha piamente implorato il soccorso della loro intercessione. A questi in breve se ne aggiunsero anche altri, che avevano più da vicino imitata la verginità e la povertà di Cristo [154] e infine altri, il cui singolare esercizio delle virtù cristiane [155] e le grazie insigni di Dio raccomandavano alla pia devozione e imitazione dei fedeli [156].
Il contemplare infatti la vita di coloro che hanno seguito fedelmente Cristo, è un motivo in più per sentirsi spinti a ricercare la città futura (cfr. Eb 13,14 e 11,10); nello stesso tempo impariamo la via sicurissima per la quale, tra le mutevoli cose del mondo e secondo lo stato e la condizione propria di ciascuno [157], potremo arrivare alla perfetta unione con Cristo, cioè alla santità. Nella vita di quelli che, sebbene partecipi della nostra natura umana, sono tuttavia più perfettamente trasformati nell’immagine di Cristo (cfr. 2 Cor 3,18), Dio manifesta agli uomini in una viva luce la sua presenza e il suo volto. In loro è egli stesso che ci parla e ci dà un segno del suo Regno [158] verso il quale, avendo intorno a noi un tal nugolo di testimoni (cfr. Eb 12,1) e una tale affermazione della verità del Vangelo, siamo potentemente attirati.
Non veneriamo però la memoria degli abitanti del cielo solo per il loro esempio, ma più ancora perché l’unione della Chiesa nello Spirito sia consolidata dall’esercizio della fraterna carità (cfr. Ef 4,1-6). Poiché, come la cristiana comunione tra i cristiani della terra ci porta più vicino a Cristo, così la comunità con i santi ci congiunge a lui, dal quale, come dalla loro fonte e dal loro capo, promana ogni grazia e la vita dello stesso popolo di Dio [159]. È quindi sommamente giusto che amiamo questi amici e coeredi di Gesù Cristo, che sono anche nostri fratelli e insigni benefattori, e che per essi rendiamo le dovute grazie a Dio [160], «rivolgiamo loro supplici invocazioni e ricorriamo alle loro preghiere e al loro potente aiuto per impetrare grazie da Dio mediante il Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro, il quale solo è il nostro Redentore e Salvatore » [161]. Infatti ogni nostra vera attestazione di amore fatta ai santi, per sua natura tende e termina a Cristo, che è « la corona di tutti i santi » [162] e per lui a Dio, che è mirabile nei suoi santi e in essi è glorificato [163].
La nostra unione poi con la Chiesa celeste si attua in maniera nobilissima, poiché specialmente nella sacra liturgia, nella quale la virtù dello Spirito Santo agisce su di noi mediante i segni sacramentali, in fraterna esultanza cantiamo le lodi della divina Maestà tutti [164], di ogni tribù e lingua, di ogni popolo e nazione, riscattati col sangue di Cristo (cfr. Ap 5,9) e radunati in un’unica Chiesa, con un unico canto di lode glorifichiamo Dio uno in tre Persone Perciò quando celebriamo il sacrificio eucaristico, ci uniamo in sommo grado al culto della Chiesa celeste, comunicando con essa e venerando la memoria soprattutto della gloriosa sempre vergine Maria, del beato Giuseppe, dei beati apostoli e martiri e di tutti i santi [165].
Disposizioni pastorali del Concilio
51. Questa veneranda fede dei nostri padri nella comunione di vita che esiste con i fratelli che sono nella gloria celeste o che dopo la morte stanno ancora purificandosi, questo sacrosanto Concilio la riceve con grande pietà e nuovamente propone i decreti dei sacri Concili Niceno II [166] Fiorentino [167] e Tridentino [168]. E allo stesso tempo con pastorale sollecitudine esorta tutti i responsabili, perché, se si fossero infiltrati qua e là abusi, eccessi o difetti, si adoperino per toglierli o correggerli e tutto ristabiliscano per una più piena lode di Cristo e di Dio. Insegnino dunque ai fedeli che il vero culto dei Santi [169] non consiste tanto nel moltiplicare gli atti esteriori, quanto piuttosto nell’intensità del nostro amore fattivo, col quale, per il maggiore bene nostro e della Chiesa, cerchiamo «dalla vita dei santi l’esempio, dalla comunione con loro la partecipazione alla loro sorte e dalla loro intercessione l’aiuto». E d’altra parte insegnino ai fedeli che il nostro rapporto con gli abitanti del cielo, purché lo si concepisca alla piena luce della fede, non diminuisce affatto il culto di adorazione reso a Dio Padre mediante Cristo nello Spirito, ma anzi lo arricchisce [170].
Tutti quanti infatti, noi che siamo figli di Dio e costituiamo in Cristo una sola famiglia (cfr. Eb 3), mentre comunichiamo tra noi nella mutua carità e nell’unica lode della Trinità santissima, rispondiamo all’intima vocazione della Chiesa e pregustando partecipiamo alla liturgia della gloria perfetta [171]. Poiché quando Cristo apparirà e vi sarà la gloriosa risurrezione dei morti, lo splendore di Dio illuminerà la città celeste e la sua lucerna sarà l’Agnello (cfr. Ap 21,24). Allora tutta la Chiesa dei santi con somma felicità di amore adorerà Dio e «l’Agnello che è stato ucciso» (Ap 5,12), proclamando a una voce: «A colui che siede sul trono e all’Agnello, benedizione onore, gloria e dominio per tutti i secoli dei secoli » (Ap 5,13-14).
LA BEATA MARIA VERGINE MADRE DI DIO
NEL MISTERO DI CRISTO E DELLA CHIESA
I. Proemio
52. Volendo Dio misericordiosissimo e sapientissimo compiere la redenzione del mondo, « quando venne la pienezza dei tempi, mandò il suo Figlio, nato da una donna… per fare di noi dei figli adottivi» (Gal 4,4-5), « Egli per noi uomini e per la nostra salvezza è disceso dal cielo e si è incarnato per opera dello Spirito Santo da Maria vergine » [172]. Questo divino mistero di salvezza ci è rivelato e si continua nella Chiesa, che il Signore ha costituita quale suo corpo e nella quale i fedeli, aderendo a Cristo capo e in comunione con tutti i suoi santi, devono pure venerare la memoria «innanzi tutto della gloriosa sempre vergine Maria, madre del Dio e Signore nostro Gesù Cristo » [173]
Maria e la Chiesa
53. Infatti Maria vergine, la quale all’annunzio dell’angelo accolse nel cuore e nel corpo il Verbo di Dio e portò la vita al mondo, è riconosciuta e onorata come vera madre di Dio e Redentore. Redenta in modo eminente in vista dei meriti del Figlio suo e a lui unita da uno stretto e indissolubile vincolo, è insignita del sommo ufficio e dignità di madre del Figlio di Dio, ed è perciò figlia prediletta del Padre e tempio dello Spirito Santo; per il quale dono di grazia eccezionale precede di gran lunga tutte le altre creature, celesti e terrestri. Insieme però, quale discendente di Adamo, è congiunta con tutti gli uomini bisognosi di salvezza; anzi, è « veramente madre delle membra (di Cristo)… perché cooperò con la carità alla nascita dei fedeli della Chiesa, i quali di quel capo sono le membra » [174]. Per questo è anche riconosciuta quale sovreminente e del tutto singolare membro della Chiesa, figura ed eccellentissimo modello per essa nella fede e nella carità; e la Chiesa cattolica, istruita dallo Spirito Santo, con affetto di pietà filiale la venera come madre amatissima.
L’intenzione del Concilio
54. Perciò il santo Concilio, mentre espone la dottrina riguardante la Chiesa, nella quale il divino Redentore opera la salvezza, intende illustrare attentamente da una parte, la funzione della beata Vergine nel mistero del Verbo incarnato e del corpo mistico, dall’altra i doveri degli uomini, e i doveri dei credenti in primo luogo. Il Concilio tuttavia non ha in animo di proporre una dottrina esauriente su Maria, né di dirimere le questioni che il lavoro dei teologi non ha ancora condotto a una luce totale. Permangono quindi nel loro diritto le sentenze, che nelle scuole cattoliche vengono liberamente proposte circa colei, che nella Chiesa santa occupa, dopo Cristo, il posto più alto e il più vicino a noi [175].
II. Funzione della beata Vergine nell’economia della salvezza
La madre del Messia nell’Antico Testamento
55. I libri del Vecchio e Nuovo Testamento e la veneranda tradizione mostrano in modo sempre più chiaro la funzione della madre del Salvatore nella economia della salvezza e la propongono per così dire alla nostra contemplazione. I libri del Vecchio Testamento descrivono la storia della salvezza, nella quale lentamente viene preparandosi la venuta di Cristo nel mondo. Questi documenti primitivi, come sono letti nella Chiesa e sono capiti alla luce dell’ulteriore e piena rivelazione, passo passo mettono sempre più chiaramente in luce la figura di una donna: la madre del Redentore. Sotto questa luce essa viene già profeticamente adombrata nella promessa, fatta ai progenitori caduti in peccato, circa la vittoria sul serpente (cfr. Gen 3,15). Parimenti, è lei, la Vergine, che concepirà e partorirà un Figlio, il cui nome sarà Emanuele (cfr. Is 7, 14; Mt 1,22-23). Essa primeggia tra quegli umili e quei poveri del Signore che con fiducia attendono e ricevono da lui la salvezza. E infine con lei, la figlia di Sion per eccellenza, dopo la lunga attesa della promessa, si compiono i tempi e si instaura la nuova « economia », quando il Figlio di Dio assunse da lei la natura umana per liberare l’uomo dal peccato coi misteri della sua carne.
Maria nell’annunciazione
56. Il Padre delle misericordie ha voluto che l’accettazione da parte della predestinata madre precedesse l’incarnazione, perché così, come una donna aveva contribuito a dare la morte, una donna contribuisse a dare la vita. Ciò vale in modo straordinario della madre di Gesù, la quale ha dato al mondo la vita stessa che tutto rinnova e da Dio è stata arricchita di doni consoni a tanto ufficio. Nessuna meraviglia quindi se presso i santi Padri invalse l’uso di chiamare la madre di Dio la tutta santa e immune da ogni macchia di peccato, quasi plasmata dallo Spirito Santo e resa nuova creatura[176]. Adornata fin dal primo istante della sua concezione dagli splendori di una santità del tutto singolare, la Vergine di Nazaret è salutata dall’angelo dell’annunciazione, che parla per ordine di Dio, quale « piena di grazia » (cfr. Lc 1,28) e al celeste messaggero essa risponde « Ecco l’ancella del Signore: si faccia in me secondo la tua parola » (Lc 1,38). Così Maria, figlia di Adamo, acconsentendo alla parola divina, diventò madre di Gesù, e abbracciando con tutto l’animo, senza che alcun peccato la trattenesse, la volontà divina di salvezza, consacrò totalmente se stessa quale ancella del Signore alla persona e all’opera del Figlio suo, servendo al mistero della redenzione in dipendenza da lui e con lui, con la grazia di Dio onnipotente. Giustamente quindi i santi Padri ritengono che Maria non fu strumento meramente passivo nelle mani di Dio, ma che cooperò alla salvezza dell’uomo con libera fede e obbedienza. Infatti, come dice Sant’Ireneo, essa «con la sua obbedienza divenne causa di salvezza per sé e per tutto il genere umano » [177]. Per cui non pochi antichi Padri nella loro predicazione volentieri affermano con Ireneo che «il nodo della disobbedienza di Eva ha avuto la sua soluzione coll’obbedienza di Maria; ciò che la vergine Eva legò con la sua incredulità, la vergine Maria sciolse con la sua fede» [178] e, fatto il paragone con Eva, chiamano Maria «madre dei viventi [179] e affermano spesso: « la morte per mezzo di Eva, la vita per mezzo di Maria » [180].
Maria e l’infanzia di Gesù
57. Questa unione della madre col figlio nell’opera della redenzione si manifesta dal momento della concezione verginale di Cristo fino alla morte di lui; e prima di tutto quando Maria, partendo in fretta per visitare Elisabetta, è da questa proclamata beata per la sua fede nella salvezza promessa, mentre il precursore esultava nel seno della madre (cfr. Lc 1,41-45); nella natività, poi, quando la madre di Dio mostrò lieta ai pastori e ai magi il Figlio suo primogenito, il quale non diminuì la sua verginale integrità, ma la consacrò [181] Quando poi lo presentò al Signore nel tempio con l’offerta del dono proprio dei poveri, udì Simeone profetizzare che il Figlio sarebbe divenuto segno di contraddizione e che una spada avrebbe trafitto l’anima della madre, perché fossero svelati i pensieri di molti cuori (cfr. Lc 2,34-35). Infine, dopo avere perduto il fanciullo Gesù e averlo cercato con angoscia, i suoi genitori lo trovarono nel tempio occupato nelle cose del Padre suo, e non compresero le sue parole. E la madre sua conservava tutte queste cose in cuor suo e le meditava (cfr. Lc 2,41-51).
Maria e la vita pubblica di Gesù
58. Nella vita pubblica di Gesù la madre sua appare distintamente fin da principio, quando alle nozze in Cana di Galilea, mossa a compassione, indusse con la sua intercessione Gesù Messia a dar inizio ai miracoli (cfr. Gv 2 1-11). Durante la predicazione di lui raccolse le parole con le quali egli, mettendo il Regno al di sopra delle considerazioni e dei vincoli della carne e del sangue, proclamò beati quelli che ascoltano e custodiscono la parola di Dio (cfr Mc 3,35; Lc 11,27-28), come ella stessa fedelmente faceva (cfr. Lc 2,19 e 51). Così anche la beata Vergine avanzò nella peregrinazione della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce, dove, non senza un disegno divino, se ne stette (cfr. Gv 19,25), soffrendo profondamente col suo Unigenito e associandosi con animo materno al suo sacrifico, amorosamente consenziente all’immolazione della vittima da lei generata; e finalmente dallo stesso Gesù morente in croce fu data quale madre al discepolo con queste parole: Donna, ecco tuo figlio (cfr. Gv 19,26-27) [182].
Maria dopo l’ascensione
59. Essendo piaciuto a Dio di non manifestare apertamente il mistero della salvezza umana prima di effondere lo Spirito promesso da Cristo, vediamo gli apostoli prima del giorno della Pentecoste « perseveranti d’un sol cuore nella preghiera con le donne e Maria madre di Gesù e i suoi fratelli» (At 1,14); e vediamo anche Maria implorare con le sue preghiere il dono dello Spirito che all’annunciazione, l’aveva presa sotto la sua ombra. Infine la Vergine immacolata, preservata immune da ogni macchia di colpa originale [183] finito il corso della sua vita terrena, fu assunta alla celeste gloria in anima e corpo [184] e dal Signore esaltata quale regina dell’universo per essere così più pienamente conforme al figlio suo, Signore dei signori (cfr. Ap 19,16) e vincitore del peccato e della morte [185].
III. La beata Vergine e la Chiesa
Maria e Cristo unico mediatore
60. Uno solo è il nostro mediatore, secondo le parole dell’Apostolo: « Poiché non vi è che un solo Dio, uno solo è anche il mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che per tutti ha dato se stesso in riscatto » (1 Tm 2,5-6). La funzione materna di Maria verso gli uomini in nessun modo oscura o diminuisce questa unica mediazione di Cristo, ma ne mostra l’efficacia. Ogni salutare influsso della beata Vergine verso gli uomini non nasce da una necessità oggettiva, ma da una disposizione puramente gratuita di Dio, e sgorga dalla sovrabbondanza dei meriti di Cristo; pertanto si fonda sulla mediazione di questi, da essa assolutamente dipende e attinge tutta la sua efficacia, e non impedisce minimamente l’unione immediata dei credenti con Cristo, anzi la facilita.
Cooperazione alla redenzione
61. La beata Vergine, predestinata fino dall’eternità, all’interno del disegno d’incarnazione del Verbo, per essere la madre di Dio, per disposizione della divina Provvidenza fu su questa terra l’alma madre del divino Redentore, generosamente associata alla sua opera a un titolo assolutamente unico, e umile ancella del Signore, concependo Cristo, generandolo, nutrendolo, presentandolo al Padre nel tempio, soffrendo col Figlio suo morente in croce, ella cooperò in modo tutto speciale all’opera del Salvatore, coll’obbedienza, la fede, la speranza e l’ardente carità, per restaurare la vita soprannaturale delle anime. Per questo ella è diventata per noi madre nell’ordine della grazia.
Funzione salvifíca subordinata
62. E questa maternità di Maria nell’economia della grazia perdura senza soste dal momento del consenso fedelmente prestato nell’Annunciazione e mantenuto senza esitazioni sotto la croce, fino al perpetuo coronamento di tutti gli eletti. Difatti anche dopo la sua assunzione in cielo non ha interrotto questa funzione salvifica, ma con la sua molteplice intercessione continua a ottenerci i doni che ci assicurano la nostra salvezza eterna [186]. Con la sua materna carità si prende cura dei fratelli del Figlio suo ancora peregrinanti e posti in mezzo a pericoli e affanni, fino a che non siano condotti nella patria beata. Per questo la beata Vergine è invocata nella Chiesa con i titoli di avvocata, ausiliatrice, soccorritrice, Mediatrice [187]. Ciò però va inteso in modo che nulla sia detratto o aggiunto alla dignità e alla efficacia di Cristo, unico Mediatore [188].
Nessuna creatura infatti può mai essere paragonata col Verbo incarnato e redentore. Ma come il sacerdozio di Cristo è in vari modi partecipato, tanto dai sacri ministri, quanto dal popolo fedele, e come l’unica bontà di Dio è realmente diffusa in vari modi nelle creature, così anche l’unica mediazione del Redentore non esclude, bensì suscita nelle creature una varia cooperazione partecipata da un’unica fonte. La Chiesa non dubita di riconoscere questa funzione subordinata a Maria, non cessa di farne l’esperienza e di raccomandarla al cuore dei fedeli, perché, sostenuti da questa materna protezione, aderiscano più intimamente al Mediatore e Salvatore.
Maria vergine e madre, modello della Chiesa
63. La beata Vergine, per il dono e l’ufficio della divina maternità che la unisce col Figlio redentore e per le sue singolari grazie e funzioni, è pure intimamente congiunta con la Chiesa: la madre di Dio è figura della Chiesa, come già insegnava sant’Ambrogio, nell’ordine cioè della fede, della carità e della perfetta unione con Cristo [189]. Infatti nel mistero della Chiesa, la quale pure è giustamente chiamata madre e vergine, la beata vergine Maria occupa il primo posto, presentandosi in modo eminente e singolare quale vergine e quale madre [190]. Ciò perché per la sua fede ed obbedienza generò sulla terra lo stesso Figlio di Dio, senza contatto con uomo, ma adombrata dallo Spirito Santo, come una nuova Eva credendo non all’antico serpente, ma, senza alcuna esitazione, al messaggero di Dio. Diede poi alla luce il Figlio, che Dio ha posto quale primogenito tra i molti fratelli (cfr. Rm 8,29), cioè tra i credenti, alla rigenerazione e formazione dei quali essa coopera con amore di madre.
La Chiesa vergine e madre
64. Orbene, la Chiesa contemplando la santità misteriosa della Vergine, imitandone la carità e adempiendo fedelmente la volontà del Padre, per mezzo della parola di Dio accolta con fedeltà diventa essa pure madre, poiché con la predicazione e il battesimo genera a una vita nuova e immortale i figli, concepiti ad opera dello Spirito Santo e nati da Dio. Essa pure è vergine, che custodisce integra e pura la fede data allo sposo; imitando la madre del suo Signore, con la virtù dello Spirito Santo conserva verginalmente integra la fede, salda la speranza, sincera la carità [191].
La Chiesa deve imitare la virtù di Maria
65. Mentre la Chiesa ha già raggiunto nella beatissima Vergine quella perfezione, che la rende senza macchia e senza ruga (cfr. Ef 5,27), i fedeli del Cristo si sforzano ancora di crescere nella santità per la vittoria sul peccato; e per questo innalzano gli occhi a Maria, la quale rifulge come modello di virtù davanti a tutta la comunità degli eletti. La Chiesa, raccogliendosi con pietà nel pensiero di Maria, che contempla alla luce del Verbo fatto uomo, con venerazione penetra più profondamente nel supremo mistero dell’incarnazione e si va ognor più conformando col suo sposo. Maria infatti, la quale, per la sua intima partecipazione alla storia della salvezza, riunisce per cosi dire e riverbera le esigenze supreme della fede, quando è fatta oggetto della predicazione e della venerazione chiama i credenti al Figlio suo, al suo sacrificio e all’amore del Padre. A sua volta la Chiesa, mentre ricerca la gloria di Cristo, diventa più simile al suo grande modello, progredendo continuamente nella fede, speranza e carità e in ogni cosa cercando e compiendo la divina volontà. Onde anche nella sua opera apostolica la Chiesa giustamente guarda a colei che generò il Cristo, concepito appunto dallo Spirito Santo e nato dalla Vergine per nascere e crescere anche nel cuore dei fedeli per mezzo della Chiesa. La Vergine infatti nella sua vita fu modello di quell’amore materno da cui devono essere animati tutti quelli che nella missione apostolica della Chiesa cooperano alla rigenerazione degli uomini.
IV. Il culto della beata Vergine nella Chiesa
Natura e fondamento del culto
66. Maria, perché madre santissima di Dio presente ai misteri di Cristo, per grazia di Dio esaltata, al di sotto del Figlio, sopra tutti gli angeli e gli uomini, viene dalla Chiesa giustamente onorata con culto speciale. E di fatto, già fino dai tempi più antichi, la beata Vergine è venerata col titolo di « madre di Dio » e i fedeli si rifugiano sotto la sua protezione, implorandola in tutti i loro pericoli e le loro necessità [192]. Soprattutto a partire dal Concilio di Efeso il culto del popolo di Dio verso Maria crebbe mirabilmente in venerazione e amore, in preghiera e imitazione, secondo le sue stesse parole profetiche: «Tutte le generazioni mi chiameranno beata, perché grandi cose mi ha fatto l’Onnipotente» (Lc 1,48). Questo culto, quale sempre è esistito nella Chiesa sebbene del tutto singolare, differisce essenzialmente dal culto di adorazione reso al Verbo incarnato cosi come al Padre e allo Spirito Santo, ed è eminentemente adatto a promuoverlo. Infatti le varie forme di devozione verso la madre di Dio, che la Chiesa ha approvato, mantenendole entro i limiti di una dottrina sana e ortodossa e rispettando le circostanze di tempo e di luogo, il temperamento e il genio proprio dei fedeli, fanno si che, mentre è onorata la madre, il Figlio, al quale sono volte tutte le cose (cfr Col 1,15-16) e nel quale «piacque all’eterno Padre di far risiedere tutta la pienezza » (Col 1,19), sia debitamente conosciuto, amato, glorificato, e siano osservati i suoi comandamenti.
Norme pastorali
67. Il santo Concilio formalmente insegna questa dottrina cattolica. Allo stesso tempo esorta tutti i figli della Chiesa a promuovere generosamente il culto, specialmente liturgico, verso la beata Vergine, ad avere in grande stima le pratiche e gli esercizi di pietà verso di lei, raccomandati lungo i secoli dal magistero della Chiesa; raccomanda di osservare religiosamente quanto in passato è stato sancito circa il culto delle immagini di Cristo, della beata Vergine e dei Santi [193]. Esorta inoltre caldamente i teologi e i predicatori della parola divina ad astenersi con ogni cura da qualunque falsa esagerazione, come pure da una eccessiva grettezza di spirito, nel considerare la singolare dignità della Madre di Dio [194]. Con lo studio della sacra Scrittura, dei santi Padri, dei dottori e delle liturgie della Chiesa, condotto sotto la guida del magistero, illustrino rettamente gli uffici e i privilegi della beata Vergine, i quali sempre sono orientati verso il Cristo, origine della verità totale, della santità e della pietà. Sia nelle parole che nei fatti evitino diligentemente ogni cosa che possa indurre in errore i fratelli separati o qualunque altra persona, circa la vera dottrina della Chiesa. I fedeli a loro volta si ricordino che la vera devozione non consiste né in uno sterile e passeggero sentimentalismo, né in una certa qual vana credulità, bensì procede dalla fede vera, dalla quale siamo portati a riconoscere la preminenza della madre di Dio, e siamo spinti al filiale amore verso la madre nostra e all’imitazione delle sue virtù.
V. Maria, segno di certa speranza e di consolazione per il peregrinante popolo di Dio
Maria, segno del popolo di Dio
68. La madre di Gesù, come in cielo, in cui è già glorificata nel corpo e nell’anima, costituisce l’immagine e l’inizio della Chiesa che dovrà avere il suo compimento nell’età futura, così sulla terra brilla ora innanzi al peregrinante popolo di Dio quale segno di sicura speranza e di consolazione, fino a quando non verrà il giorno del Signore (cfr. 2 Pt 3,10).
Maria interceda per l’unione dei cristiani
69. Per questo santo Concilio è di grande gioia e consolazione il fatto che vi siano anche tra i fratelli separati di quelli che tributano il debito onore alla madre del Signore e Salvatore, specialmente presso gli Orientali, i quali vanno, con ardente slancio ed anima devota, verso la madre di Dio sempre vergine per renderle il loro culto [195]. Tutti i fedeli effondano insistenti preghiere alla madre di Dio e madre degli uomini, perché, dopo aver assistito con le sue preghiere la Chiesa nascente, anche ora, esaltata in cielo sopra tutti i beati e gli angeli, nella comunione dei santi interceda presso il Figlio suo, fin tanto che tutte le famiglie di popoli, sia quelle insignite del nome cristiano, sia quelle che ancora ignorano il loro Salvatore, in pace e concordia siano felicemente riunite in un solo popolo di Dio, a gloria della santissima e indivisibile Trinità.
21 novembre 1964
DAGLI ATTI DEL SS. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II
Notificazioni
Fatte dall’Ecc.mo Segretario Generale del Ss. Concilio
nella CXXIII Congregazione Generale del 16 novembre 1964
È stato chiesto quale debba essere la qualificazione teologica della dottrina esposta nello schema sulla Chiesa e sottoposto alla votazione. La commissione dottrinale ha dato al quesito questa risposta: « Come è di per sé evidente, il testo del Concilio deve sempre essere interpretato secondo le regole generali da tutti conosciute ». In pari tempo la commissione dottrinale rimanda alla sua dichiarazione del 6 marzo 1964, di cui trascriviamo il testo:
«Tenuto conto dell’uso conciliare e del fine pastorale del presente Concilio, questo definisce come obbliganti per tutta la Chiesa i soli punti concernenti la fede o i costumi, che esso stesso abbia apertamente dichiarato come tali.
«Le altre cose che il Concilio propone, in quanto dottrina del magistero supremo della Chiesa, tutti e singoli i fedeli devono accettarle e tenerle secondo lo spirito dello stesso Concilio, il quale risulta sia dalla materia trattata, sia dalla maniera in cui si esprime, conforme alle norme d’interpretazione teologica».
Per mandato dell’autorità superiore viene comunicata ai Padri una nota esplicativa previa circa i « modi » concernenti il capo terzo dello schema sulla Chiesa. La dottrina esposta nello stesso capo terzo deve essere spiegata e compresa secondo lo spirito e la sentenza di questa nota.
16 novembre 1964
La commissione ha stabilito di premettere all’esame dei “modi” le seguenti osservazioni generali:
1) “Collegio” non si intende in senso « strettamente giuridico », cioè di un gruppo di eguali, i quali abbiano demandata la loro potestà al loro presidente, ma di un gruppo stabile, la cui struttura e autorità deve essere dedotta dalla Rivelazione. Perciò nella risposta al modus 12 si dice esplicitamente dei Dodici che il Signore li costituì « a modo di collegio o “gruppo” (coetus) stabile ». Cfr. anche il modus 53, c. Per la stessa ragione, per il collegio dei vescovi si usano con frequenza anche le parole “ordine” (ordo) o “corpo” (corpus). Il parallelismo fra Pietro e gli altri apostoli da una parte, e il sommo Pontefice e i vescovi dall’altra, non implica la trasmissione della potestà straordinaria degli apostoli ai loro successori, né, com’è chiaro, “uguaglianza” (aequalitatem) tra il capo e le membra del collegio, ma solo “proporzionalità” (proportionalitatem) fra la prima relazione (Pietro apostoli) e l’altra (papa vescovi). Perciò la commissione ha stabilito di scrivere nel n. 22 non “medesimo” (eodem) ma “pari” modo. Cfr. modus 57.
2) Si diventa “membro del collegio” in virtù della consacrazione episcopale e mediante la comunione gerarchica col capo del collegio e con le membra. Cfr. n. 22.
Nella consacrazione è data una “ontologica” partecipazione ai “sacri uffici”, come indubbiamente consta dalla tradizione, anche liturgica. Volutamente è usata la parola “uffici” (munerum), e non “potestà” (potestatum), perché quest’ultima voce potrebbe essere intesa di potestà esercitabile di fatto (ad actum expedita). Ma perché si abbia tale potestà esercitabile di fatto, deve intervenire la “determinazione” canonica o “giuridica” (iuridica determinatio) da parte dell’autorità gerarchica. E questa determinazione della potestà può consistere nella concessione di un particolare ufficio o nell’assegnazione dei sudditi, ed è concessa secondo le norme approvate dalla suprema autorità. Una siffatta ulteriore norma è richiesta “dalla natura delle cose”, trattandosi di uffici, che devono essere esercitati da “più soggetti”, che per volontà di Cristo cooperano in modo gerarchico. È evidente che questa “comunione” è stata applicata nella vita della Chiesa secondo le circostanze dei tempi, prima di essere per così dire codificata “nel diritto”. Perciò è detto espressamente che è richiesta la comunione “gerarchica” col capo della Chiesa e con le membra. “Comunione” è un concetto tenuto in grande onore nella Chiesa antica (ed anche oggi, specialmente in Oriente). Per essa non si intende un certo vago “sentimento”, ma una “realtà organica”, che richiede una forma giuridica e che è allo stesso tempo animata dalla carità. La commissione quindi, quasi d’unanime consenso, stabilì che si scrivesse: « nella comunione “gerarchica” ». Cfr. Mod. 40 ed anche quanto è detto della “missione canonica”, sotto il n. 24. I documenti dei recenti romani Pontefici circa la giurisdizione dei vescovi vanno interpretati come attinenti questa necessaria determinazione delle potestà.
3) Il collegio, che non si dà senza il capo, è detto essere: «anche esso soggetto di suprema e piena potestà sulla Chiesa universale ». Ciò va necessariamente ammesso, per non porre in pericolo la pienezza della potestà del romano Pontefice. Infatti il collegio necessariamente e sempre si intende con il suo capo, “il quale nel collegio conserva integro l’ufficio di vicario di Cristo e pastore della Chiesa universale”. In altre parole: la distinzione non è tra il romano Pontefice e i vescovi presi insieme, ma tra il romano Pontefice separatamente e il romano Pontefice insieme con i vescovi. E siccome il romano Pontefice e il “capo” del collegio, può da solo fare alcuni atti che non competono in nessun modo ai vescovi, come convocare e dirigere il collegio, approvare le norme dell’azione, ecc. Cfr. Modo 81. Il sommo Pontefice, cui è affidata la cura di tutto il gregge di Cristo, giudica e determina, secondo le necessità della Chiesa che variano nel corso dei secoli, il modo col quale questa cura deve essere attuata, sia in modo personale, sia in modo collegiale. Il romano Pontefice nell’ordinare, promuovere, approvare l’esercizio collegiale, procede secondo la propria discrezione, avendo di mira il bene della Chiesa.
4) Il sommo Pontefice, quale pastore supremo della Chiesa, può esercitare la propria potestà in ogni tempo a sua discrezione, come è richiesto dallo stesso suo ufficio. Ma il collegio, pur esistendo sempre, non per questo permanentemente agisce con azione “strettamente” collegiale, come appare dalla tradizione della Chiesa. In altre parole: Non sempre è «in pieno esercizio», anzi non agisce con atto strettamente collegiale se non ad intervalli e “col consenso del capo”. Si dice « col consenso del capo », perché non si pensi a una “dipendenza”, come nei confronti di chi è “estraneo”; il termine “consenso” richiama, al contrario, la “comunione” tra il capo e le membra e implica la necessità dell’atto”, il quale propriamente compete al capo. La cosa è esplicitamente affermata nel n. 22 ed è ivi spiegata. La formula negativa “se non” (nonnisi) comprende tutti i casi, per cui è evidente che le “norme” approvate dalla suprema autorità devono sempre essere osservate. Cfr. modus 84.
Dovunque appare che si tratta di “unione” dei vescovi “col loro capo”, e mai di azione dei vescovi “indipendentemente” dal papa. In tal caso, infatti, venendo a mancare l’azione del capo, i vescovi non possono agire come collegio, come appare dalla nozione di “collegio”. Questa gerarchica comunione di tutti i vescovi col sommo Pontefice è certamente abituale nella tradizione.
N. B.- Senza la comunione gerarchica l’ufficio sacramentale ontologico, che si deve distinguere dall’aspetto canonico giuridico, “non può” essere esercitato. La commissione ha pensato bene di non dover entrare in questioni di “liceità” e “validità”, le quali sono lasciate alla discussione dei teologi, specialmente per ciò che riguarda la potestà che di fatto è esercitata presso gli Orientali separati e che viene spiegata in modi diversi.
Arcivescovo tit. di Samosata
Segretario generale del Concilio
NOTE
[1] Cf. S. CIPRIANO, Epist. 64,4: PL 3, 1017; CSEL (HARTEL) IIIB, p. 720. S. ILARIO DI POITIERS, In Mt. 23,6: PL 9, 1047. S. AGOSTINO, passim. S. CIRILLO D’ALESS., Glaph. in Gen. 2,10: PG 69, 110A.
[2] S. GREGORIO M., Hom. in Evang. 19, 1: PL 76, 1154B. Cf. S. AGOSTINO, Serm. 341, 9, 11: PL 39, 1499s. S. GIOV. DAMASCENO, Adv. Iconocl. 11: PG 96, 1357.
[3] Cf. S. IRENEO, Adv. Haer. III, 24, 1: PG 7, 966B; HARVEY 2, 131, ed. SAGNARD, Sources Chr., p. 398.
[4] S. CIPRIANO, De Orat. Dom. 23: PL 4, 553; HARTEL IIIA, p. 285. S. AGOSTINO, Serm. 71, 20, 33: PL 38, 463s. S. GIOV. DAMASCENO, Adv. Iconocl. 12: PG 96, 1358D.
[5] Cf. ORIGENE, In Mt. 16,21: PG 13, 1443C. TERTULLIANO, Adv. Marc. 3, 7: PL 2, 357C; CSEL 47, 3, p. 386. Quanto ai documenti liturgici, cf. Sacramentarium Gregorianum: PL 78, 160B; oppure C. MOHLBERG, Liber Sacramentorum Romanae Ecclesiae, Romae 1960, p. 111, XC: “O Dio, che edifichi la tua eterna dimora in tutta l’assemblea dei santi…”. Inno Urbs Ierusalem beata nel Breviario monastico e Coelestis urbs Ierusalem nel Breviario romano. [Nella Dedicazione della Chiesa. La Liturgia delle Ore ha ripreso il testo monastico, che è quello originale].
[6] Cf. S. TOMMASO, Summa Theol. III, q. 62, a. 5, ad 1.
[7] Cf. PIO XII, Enc. Mystici Corporis, 29 giugno 1943: AAS 35 (1943), p. 208.
[8] Cf. LEONE XIII, Enc. Divinum illud, 9 maggio 1897: ASS 29 (1896-97), p. 650. PIO XII, Enc. Mystici Corporis, l.c. [nota prec.], pp. 219-220: Dz 2288 (3808) [Collantes 7.363]. S. AGOSTINO, Serm. 268, 2: PL 38, 1232, et alibi. S. GIOV. CRISOSTOMO, In Eph., Hom. 9, 3: PG 62, 72. DIDIMO D’ALESS., Trin. 2, 1: PG 39, 449s. S. TOMMASO, In Col. 1,18, lect. 5: ed. Marietti, II, n. 46: “Come un unico corpo viene costituito dall’unione con l’anima, così la Chiesa dall’unione con lo Spirito…”.
[9] Cf. LEONE XIII, Enc. Sapientiae christianae, 10 genn. 1890: ASS 22 (1889-90), p. 392; ID., Enc. Satis cognitum, 29 giugno 1896: AAS 28 (1895-96), pp. 710 e 724ss. PIO XII, Enc. Mystici Corporis, l.c. [nota 7], pp. 199-200.
[10] Cf. PIO XII, Enc. Mystici Corporis, l.c. [nota 7], p. 221ss; ID., Enc. Humani generis, 12 ag. 1950: AAS 42 (1950), p. 571.
[11] Cf. LEONE XIII, Enc. Satis cognitum, l.c. [nota 9], p. 713.
[12] Cf. Symbolum Ap.: Dz 6-9 (10-13) [Collantes 0.501-02]; Symb. Nic.-Const.: Dz 86 (150) [Collantes 0.509]; cf. Prof. fidei Trid.: Dz 994 e 999 (1862 e 1868) [Collantes 0.518 e 0.525].
[13] E detta “Santa (cattolica apostolica) Romana Chiesa” nella Prof. fidei Trid., l.c. [nota prec.] e nel CONC. VAT. I, Cost. Dogm. sulla fede cattolica Dei Filius: Dz 1782 (3001) [Collantes 3.018].
[14] S. AGOSTINO, De civ. Dei, XVIII, 51, 2: PL 41, 614.
[15] Cf. S. CIPRIANO, Epist. 69,6: PL 3, 1142B; HARTEL 3B, p. 754: “sacramento inseparabile di unità”.
[16] Cf. PIO XII, Disc. Magnificate Dominum, 2 nov. 1954: AAS 46 (1954), p. 669; Encicl. Mediator Dei, 20 nov. 1947: AAS 39 (1947), p. 555 [Collantes 7.390].
[17] Cf. PIO XI, Encicl. Miserentissimus Redemptor, 8 maggio 1928: AAS 20 (1928), p. 171s. [Collantes 4.113]. PIO XII, Disc. Vous nous avez, 22 sett. 1956: AAS 48 (1956), p. 714.
[18] Cf. S. TOMMASO, Summa Theol. III, q. 63, a. 2.
[19] Cf. S. CIRILLO DI GERUS., Catech. 17, sullo Spirito S., II, 35-37: PG 33, 1009-1012; NIC. CABASILAS, De vita in Christo, lib. III, sull’utilit del crisma: PG 150, 569-580. S. TOMMASO, Summa Theol. III, q. 65, a. 3 e q. 72, a. 1 e 5.
[20] Cf. Pio XII, Encicl. Mediator Dei, 20 nov. 1947: AAS 39 (1947), specialmente p. 552s. [Collantes 9.306s].
[21] 1 Cor 7,7: “Ciascuno ha il proprio dono (idion charisma) da Dio, chi in un modo, chi in un altro”. Cf. S. AGOSTINO, De Dono Persev., 14, 37: PL 45, 1015s.: “Non dono di Dio soltanto la continenza, ma anche la castit dei coniugati”.
[22] S. AGOSTINO, De Praed. Sanct. 14,27: PL 44, 980.
[23] S. GIOV. CRISOSTOMO, In Io., Hom. 65, 1: PG 59, 361.
[24] Cf. S. IRENEO, Adv. Haer. III, 16, 6; III, 22, 1-3: PG 7, 925C-926A e 955C-958A; HARVEY 2, 87s. e 120-123; SAGNARD, ed. Sources Chr., pp. 290-292 e 372ss.
[25] Cf. S. IGNAZIO M., Ad Rom., Praef.: ed. FUNK I, 252.
[26] CF. S. AGOSTINO, Bapt c. Donat. V, 28, 39: PL 43, 197: “E del tutto chiaro che quando si dice: dentro e fuori la Chiesa, si allude al cuore, non al corpo”. Cf. ib. III, 19, 26: col. 152; V, 18, 24: col. 189; In Io., Tr. 61, 2: PL 35, 1800, et al. spesso.
[27] Lc 12,48: “A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto”. Cf. Mt 5,19-20; 7,21-22; 25,41-46; Gc 2,14.
[28] Cf. LEONE XIII, Lett. Apost. Praeclara gratulationis, 20 giugno 1894: ASS 26 (1893-94), p. 707.
[29] Cf. LEONE XIII, Encicl. Satis cognitum, 29 giugno 1896: ASS 28 (1895-96), p. 738; Encicl. Caritatis studium, 25 lug. 1898: ASS 31 (1898-1899), p. 11. PIO XII, Messaggio radiof. Nell’alba, 24 dic. 1941: AAS 34 (1942), p. 21.
[30] Cf. PIO XI, Encicl. Rerum Orientalium, 8 sett. 1928: AAS 20 (1928), p. 287. PIO XII, Encicl. Orientalis Ecclesiae, 9 apr. 1944: AAS 36 (1944), p. 137.
[32] Cf. Istr. della S. S. C. del S. Uffizio, 20 dic. 1949: AAS 42 (1950), p. 142.
[32] Cf. S. TOMMASO, Summa Theol. III, q. 8, a. 3, ad I.
[33] Cf. Lett. della S. S. C. del S. Uffizio all’Arciv. di Boston: Dz 3869-72 [Collantes 7.043-45]
[34] Cf. EUSEBIO DI CES., Praeparatio Evangelica, I, 1: PG 21, 28AB.
[35] Cf. BENEDETTO XV, Lett. Apost. Maximum illud: AAS 11 (1919), p. 440, specialmente p. 451ss. PIO XI, Encicl. Rerum Ecclesiae: AAS 18 (1926), pp. 68-69. PIO XII, Encicl. Fidei Donum, 21 apr. 1957: AAS 49 (1957), pp. 236-237.
[36] Cf. Didach , 14: ed. FUNK I, p. 32. S. GIUSTINO, Dial. 41: PG 6, 564. S. IRENEO, Adv. Haer. IV, 17, 5: PG 7, 1023; HARVEY, 2, p. 199s. CONC. DI TRENTO, Sess. 22, cap. I: Dz 939 (1742) [Collantes 9.174].
[37] Cf. CONC. VAT. I, Cost. dogm. sulla Chiesa di Cristo Pastor aeternus: Dz 1821 (3050s.) [Collantes 7.176].
[38] Cf. CONC. DI FIRENZE, Decretum pro Graecis: Dz 694 (1307) [Collantes 7.159] e CONC. VAT. I, Cost. dogm. sulla Chiesa di Cristo Pastor aeternus: Dz 1826 (3059) [Collantes 7.184].
[39] Cf. Liber Sacramentorum di S. GREGORIO, pref. nelle feste di S. Mattia e di S. Tommaso: PL 78, 51 e 152; cf. Cod. Vat. lat. 3548, f. 18. S. ILARIO, In Ps. 67,10: PL 9, 450; CSEL 22, p. 286. S. GIROLAMO, Adv. Iovin. 1, 26: PL 23, 247A. S. AGOSTINO, In Ps. 86, 4: PL 37, 1103. S. GREGORIO M., Mor. in Iob XXVIII, V: PL 76, 455-456. PRIMASIO, Comm. in Apoc. V: PL 68, 924BC. PASCASIO RADB., In Mt. L. VIII, cap. 16: PL 120, 561C. Cf. LEONE XIII, Lett. Et sane, 17 dic. 1888: ASS 21 (1888), p. 321.
[40] Cf. At 6,2-6; 11,30; 13,1; 14,23; 20,17; 1 Ts 5,12-13; Fil 1,1; Col 4,11 e passim.
[41] Cf. At 20,25-27; 2 Tm 4,6s da confr. con 1 Tm 5,22; 2 Tm 2,2; Tt 1,5; S. CLEMENTE ROM., Ad Cor. 44, 3: ed. FUNK I, p. 156.
[42] Cf. S. CLEMENTE ROM., Ad Cor. 44,2: ed. FUNK I, 154s.
[43] Cf. TERTULLIANO, Praescr. Haer. 32: PL 2, 52s; S. IGNAZIO M., passim.
[44] Cf. TERTULLIANO, Praescr. Haer. 32: PL 2, 53.
[45] Cf. S. IRENEO, Adv. Haer. III, 3, 1: PG 7, 848A; HARVEY 2, 8; SAGNARD, p. 100s: “manifestata”.
[46] Cf. S. IRENEO, Adv. Haer. III, 2, 2: PG 7, 847; HARVEY 2, 7; SAGNARD, p. 100: “è custodita”; cf. ib. IV, 26, 2: col. 1053; HARVEY 2, 236, e IV, 33, 8: col. 1077: HARVEY 2, 262.
[47] S. IGNAZIO M., Philad., Praef: ed. FUNK I, p. 264.
[48] S. IGNAZIO M., Philad., 1,1; Magn. 6,1: ed. FUNK I, 264 e 234.
[49] S. CLEMENTE ROM., l.c. [nota 6], 42, 3-4; 44, 3-4; 57, 1-2: ed. FUNK I, 152, 156, 171s; S. IGNAZIO M., Philad. 2; Smyrn. 8; Magn. 3; Trall. 7: ed. FUNK I, p. 265s, 282, 232, 246s ecc.; S. GIUSTINO, Apol. I, 65: PG 6,428; S. CIPRIANO, Epist., passim.
[50] Cf. LEONE XIII, Encicl. Satis cognitum, 29 giug. 1896: ASS 28 (1895-96), p. 732.
[51] Cf. CONC. DI TRENTO, Decr. De sacr. Ordinis, cap. 4: Dz 960 (1768) [Collantes 9.293]; CONC. VAT. I, Cost. dogm. I sulla Chiesa di Cristo Pastor aeternus, cap. 3: Dz 1828 (3061) [Collantes 7.186]. PIO XII, Encicl. Mystici Corporis, 29 giug. 1943: AAS 35 (1943), pp. 209 e 212 [Dz 3804; Collantes 7.200]. CIC can. 329 § 1 [nel nuovo Codice can. 375].
[52] Cf. LEONE XIII, Lett. Et sane, 17 dic. 1888: ASS 21 (1888), p. 321s.
[53] Cf. S. LEONE M., Serm. 5, 3: PL 54, 154.
[54] Il CONC. DI TRENTO, Sess. 23, cap. 3, cita le parole di 2Tm 1,6-7 per dimostrare che l’Ordine è un vero sacramento: Dz 959 (1766) [Collantes 9.290].
[55] Nella Trad. Apost. 3, ed. BOTTE, Sources Chr., pp. 27-30, al Vescovo viene attribuito “il primato del sacerdozio”. Cf. Sacramentarium Leonianum, ed. C. MOHLBERG, Sacramentarium Veronense, Romae 1955, p. 119: “al ministero del sommo sacerdozio… Compi nei tuoi sacerdoti il culmine del tuo mistero…”. IDEM, Liber Sacramentorum Romanae Ecclesiae, Romae 1960, pp. 121-122: “Conferisci loro, Signore, la cattedra episcopale per reggere la tua Chiesa e tutto il popolo”. Cf. PL 78, 224.
[56] Cf. Trad. Apost. 2: ed. BOTTE, p. 27.
[57] Cf. il CONC. DI TRENTO, che nella Sess. 23, cap. 4 insegna che il sacramento dell’Ordine imprime un carattere indelebile: Dz 960 (1767) [Collantes 9.291]. Cf. GIOVANNI XXIII, Disc. Iubilate Deo, 8 maggio 1960: AAS 52 (1960), p. 466. PAOLO VI, Omelia nella Bas. Vaticana, 20 ott. 1963: AAS 55 (1963), p. 1014.
[58] S. CIPRIANO, Epist. 63, 14: PL 4, 386; HARTEL, IIIB, p. 713: “Il sacerdote compie veramente le funzioni di Cristo”. S. GIOV. CRISOSTOMO, In 2 Tim., Hom. 2, 4: PG 62, 612: Il sacerdote “symbolon” di Cristo. S. AMBROGIO, In Ps. 38, 25-26: PL 14, 1051-52: CSEL 64, 203-204. AMBROSIASTER, In 1 Tim. 5,19: PL 17, 479C e In Eph. 4, 11-12, col. 387C. TEODORO DI MOPS., Hom. Catech. XV, 21 e 24; ed. TONNEAU, pp. 497 e 503. ESICHIO DI GERUS., In Lev., L. 2, 9, 23: PG 93, 894B.
[59] Cf. EUSEBIO, Hist. Eccl., V, 24, 10: GCS II, 1, p. 495; ed. BARDY, Sources Chrét., II, p. 69. DIONIGI, in EUSEBIO, ib. VII, 5, 2: GCS II, 2, p. 638s; BARDY, II, p. 168s.
[60] Sugli antichi Concili cf. EUSEBIO, Hist. Eccl. V, 23-24; GCS II, 1, p. 488ss; BARDY, II, p. 66ss e passim. CONC. DI NICEA, can. 5: COD p. 7
[61] Cf. TERTULLIANO, De Ieiunio, 13: PL 2, 972B; CSEL 20, p. 292, lin. 13-16.
[62] Cf. S. CIPRIANO, Epist. 56, 3: HARTEL IIIB, p. 650; BAYARD, p. 154.
[63] Cf. la relazione ufficiale ZINELLI al CONC. VAT I: MANSI 52, 1109C.
[64] Cf. CONC. VAT I, Schema della Cost. dogm. II De Ecclesia Christi, c. 4:[176][176]NSI 53, 310. Cf. la relazione KLEUTGEN sullo Schema riformato: MANSI 53,321B-322B e la dichiarazione ZINELLI: MANSI 52, 1110A. Vedi anche S. LEONE M., Serm. 4,3: PL 54, 151A.
[65] Cf. CIC, can. 222 e 227 [nel nuovo Codice can. 338].
[66] Cf. CONC. VAT. I, Cost. dogm. Pastor aeternus: Dz 1821 (3050s) [Collantes 7.176].
[67] Cf. S. CIPRIANO, Epist. 66, 8: HARTEL III, 2, p. 733: “Il Vescovo nella Chiesa e la Chiesa nel Vescovo”.
[68] Cf. S. CIPRIANO, Epist 55,24: HARTEL, p. 642, lin. 13: “Un’unica Chiesa in tutto il mondo divisa in molte membra. Epist. 36, 4: HARTEL, p. 575, lin. 20-21.
[69] Cf. PIO XII, Encicl. Fidei Donum, 21 apr. 1957: AAS 49 (1957), p. 237.
[70] Cf. S. ILARIO DI POIT., In Ps. 14,3: PL 9, 206; CSEL 22, p. 86. S. GREGORIO M., Moral. IV, 7, 12: PL 75, 643C. PSEUDO BASILIO, In Is. 15, 296: PG 30, 637C.
[71] Cf. S. CELESTINO, Epist. 18, 1-2, al Conc. di Ef.: PL 50, 505AB; SCHWARTZ, Acta Conc. Oec. I, 1, 1, p. 22. Cf. BENEDETTO XV, Lett. Apost. Maximum illud: AAS 11 (1919), p. 440. PIO XI, Encicl. Rerum Ecclesiae, 28 febbr. 1926: AAS 18 (1926), p. 69. PIO XII, Encicl. Fidei Donum, l.c. [nota33].
[72] Cf. LEONE XIII, Encicl. Grande munus, 30 sett. 1880: ASS 13 (1880), p. 145. Cf. CIC, can. 1327; can. 1350 § 2 [nel nuovo Codice: cf. can. 762].
[73] Sui diritti delle Sedi patriarcali cf. CONC. DI NICEA, can. 6 per Alessandria e Antiochia, e can. 7 per Gerusalemme: Conc. Oec. Decr., p. 8 CONC. LATER. IV, anno 1215, Costit. V: De dignitate Patriarcharum: ibid. p. 212 [Dz 811]. CONC. DI FERR.-FIR.: ibid., p. 504 [Dz 1307-08; Collantes 7.159-60].
[74] Cf. Cod. Iuris Can., pro Eccl. Orient.: cc. 216-314 sui Patriarchi; cc. 324-339 sugli Arcivescovi maggiori; cc. 362-391 sugli altri dignitari; in specie c. 238 § 3; 216; 240; 251; 255: sulla nomina dei Vescovi da parte del Patriarca.
[75] Cf. CONC. DI TRENTO, Decr. De reform., Sess. V, c. 2, n. 9 e Sess. XXIV, can 4: Conc. Oec. Decr., pp. 645 e 739.
[76] Cf. CONC. VAT. I, Cost. dogm. Dei Filius, 3: Dz 1792 (3011) [Collantes 1.070]. Cf. la nota aggiunta allo Schema I De Eccl. (desunta da S. ROB. BELLARMINO): MANSI 51, 579C; e lo Schema riformato della Cost. II De Ecclesia Christi, con il commento KLEUTGEN: MANSI 53, 313AB. PIO IX, Lett. Tuas libenter: Dz 1683 (2879) [Collantes 7.174].
[77] Cf. CIC, cann. 1322-1323 [nel nuovo Codice: cann. 747-750].
[78] Cf. CONC. VAT. I, Cost. dogm. Pastor Aeternus: Dz 1839 (3074) [Collantes 7.198].
[79] Cf. la spiegazione GASSER al CONC. VAT. I: MANSI 52, 1213AC.
[80] Cf. la spiegazione GASSER al CONC. VAT. I: MANSI 1214A.
[81] Cf. la spiegazione GASSER al CONC. VAT. I: MANSI 1215CD, 1216-1217A.
[82] Cf. la spiegazione GASSER al CONC. VAT. I: MANSI 1213.
[83] Cf. CONC. VAT. I, Cost. dogm. Pastor aeternus, 4: Dz 1836 (3070).
[84] Orazione della consacrazione episcopale nel rito bizantino: Euchologion to mega, Romae 1873, p. 139.
[85] Cf. S. IGNAZIO M., Smyrn. 8, 1: ed. FUNK I, p. 282.
[86] Cf. At 8,1; 14,22-23; 20,17 e passim.
[87] Orazione mozarabica: PL 96, 759B.
[88] Cf. S. IGNAZIO M., Smyrn. 8, 1: ed. FUNK I, p. 282.
[89] S. TOMMASO, Summa Theol. III, q. 73, a. 3.
[90] Cf. S. AGOSTINO, C. Faustum, 12, 20: PL 42, 265; Serm. 57, 7: PL 38, 389, ecc
[91] S. LEONE M., Serm. 63, 7: PL 54, 357C.
[92] Traditio Apostolica di Ippolito, 2-3: ed. BOTTE, pp. 26-30.
[93] Cf. il testo dell’esame all’inizio della consacrazione episcopale, e l’Orazione alla fine della Messa della consacrazione stessa, dopo il Te Deum.
[94] BENEDETTO XIV, Br. Romana Ecclesia, 5 ott. 1752, § 1: Bullarium Benedicti XIV, t. IV, Romae 1758, 21: “Il Vescovo l’immagine di Cristo e compie le sue funzioni”. PIO XII, Encicl. Mystici Corporis, l.c. [nota 15], p. 211: “I singoli nutrono e reggono i singoli greggi di Cristo loro assegnati” [Dz 3804; Collantes 7.200].
[95] Cf. LEONE XIII, Encicl. Satis cognitum, 29 giugno 1896: ASS 28 (1895-96), p. 732. IDEM, Lett. Officio sanctissimo, 22 dic. 1887: ASS 20 (1887), p. 264. PIO IX, Lett. Apost. ai Vescovi della Germania, 12 marzo 1875, e Disc. Concist., 15 marzo 1875: Dz 3112-3117, solo nella nuova edizione.
[96] Cf. CONC. VAT. I, Cost. dogm. Pastor aeternus, 3: Dz 1828 (3061) [Collantes 7.186]. Cf. Relazione ZINELLI: MANSI 52, 1114D.
[97] Cf. S. IGNAZIO M., Ad Ephes. 5, 1: ed. FUNK I, p. 216.
[98] Cf. S. IGNAZIO M., Ad Ephes. 6, 1: ed. FUNK I, p. 218.
[99] Cf. CONC. DI TRENTO, De sacr. Ordinis, cap. 2: Dz 958 (1765) [Collantes 9.289], e can. 6: Dz 966 (1776) [Collantes 9.301].
[100] Cf. INNOCENZO I, Epist. ad Decentium: PL 20, 554A: MANSI 3, 1029: Dz 98 (215) [Collantes 9.075]: “I Presbiteri, pur essendo secondi nel sacerdozio, non hanno però la pienezza del pontificato”. S. CIPRIANO, Epist. 61,3: ed. HARTEL, p. 696.
[101] Cf. CONC. DI TRENTO, l.c. [nota 63]: Dz 956a-968 (1763-1778) [Collantes 9.2889.303] e in specie can. 7: Dz 967 (1777) [Collantes 9.300]. PIO XII, Cost. Apost. Sacramentum Ordinis: Dz 2301 (3857-61) [Collantes 9.314-17].
[102] Cf. INNOCENZO I, l.c. [nota 64]. S. GREGORIO NAZ., Apol. II, 22: PG 35,432B. PS. DIONIGI, Eccl. Hier., 1, 2: PG 3, 372D.
[103] Cf. CONC. DI TRENTO, Sess. 22: Dz 940 (1743) [Collantes 9.175]. PIO XII, Encicl. Mediator Dei, 20 nov. 1947: AAS 39 (1947), p. 553: Dz 2300 (3850) [Collantes 9.308].
[104] Cf. CONC. DI TRENTO, Sess. 22: Dz 938 (1739-40) [Collantes 9.171-72]; CONC. VAT. II, Cost. sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, n. 7 e n. 47: AAS 56 (1964), pp. 100-113 [pp. 21 e 45ss].
[105] Cf. PIO XII, Encicl. Mediator Dei, l.c. alla nota 67.
[106] Cf. S. CIPRIANO, Epist. 11, 3: PL 4, 242B; HARTEL II, 2, p. 497.
[107] Cf. Pontificale Romanum, L’ordinazione dei Presbiteri, all’imposizione dei paramenti.
[108] Cf. Pontificale Romanum, L’ordinazione dei Presbiteri, prefazione.
[109] Cf. S. IGNAZIO M., Philad. 4: ed. FUNK I, p. 266. S. CORNELIO I, in S. CIPRIANO, Epist. 48, 2; HARTEL III, 2, p. 610.
[110] Constitutiones Ecclesiae Aegyptiacae, III, 2: ed. FUNK, Didascalia, II, p. 103; Statuta Eccl. Ant. 37-41: MANSI 3, 954.
[111] S. POLICARPO, Ad Phil. 5, 2: ed. FUNK I, p. 300: Cristo detto “fatto diacono di tutti”. Cf. Didach 15, 1: ib., p. 32. S. IGNAZIO M., Trall. 2,3: ib., p. 242; Constitutiones Apostolorum, 8, 28, 4: ed. FUNK, Didascalia, I, p. 530.
[112] S. AGOSTINO, Serm. 340, 1: PL 38, 1483.
[113] Cf. PIO XI, Encicl. Quadragesimo anno, 15 maggio 1931: AAS 23 (1931), p. 221s. PIO XII, Disc. De quelle consolation, 14 ott. 1951: AAS 43 (1951), p. 790s.
[114] Cf. PIO XII, DISC. Six ans se sont écoulés, 5 ott. 1957: AAS 49 (1957), p. 927.
[115] Messale romano, dal prefazio della festa di Cristo Re.
[116] Cf. LEONE XIII, Encicl. Immortale Dei, 1° nov. 1885: ASS 18 (1885), p. 166ss. IDEM, Encicl. Sapientiae Christianae, 10 genn. 1890: ASS 22 (1889-90), p. 397ss. PIO XII, Disc. Alla vostra filiale, 23 marzo 1958: AAS 50 (1958), p. 220: “la legittima sana laicità dello Stato”.
[117] Cf. CIC, can. 682 [nel nuovo Codice: can. 213].
[118] Cf. PIO XII, Disc. De quelle consolation, l.c. [nota 2], p. 789: “Nelle battaglie decisive, talvolta dal fronte che partono le pi felici iniziative…”. IDEM, Disc. L’importance de la presse catholique, 17 febbr. 1950: AAS 42 (1950), p. 256.
[119] Cf. 1 Ts 5,19 e 1 Gv 4,1.
[120] Epist. ad Diognetum, 6: ed. FUNK I, p. 400. Cf. S. GIOV. CRISOSTOMO, In Mt., Hom. 46 (47), 2: PG 58, 478, sul fermento nella pasta.
[121] Messale Romano, Gloria a Dio. Cf. Lc 1,35; Mc 1,24; Lc 4,34; Gv 6,69 (ho hagios tou Theou); At 3,14; 4,27.30; Eb 7,26; 1Gv 2,20; Ap 3,7.
[122] Cf. ORIGENE, Comm. Rom. 7,7: PG 14, 1122B. PS. MACARIO, De Oratione, 11: PG 34, 861AB. S. TOMMASO, Summa Theol. II-II, q. 184, a. 3.
[123] Cf. S. AGOSTINO, Retract. II, 18: PL 32, 637s. PIO XII, Encicl. Mystici Corporis, 29 giugno 1943: AAS 35 (1943), p. 225.
[124] Cf. PIO XI, Encicl. Rerum omnium, 26 genn. 1923: AAS 15 (1923), pp. 50 e 59-60 [Collantes 7.319-20]; Encicl. Casti Connubii, 31 dic. 1930: AAS 22 (1930), p. 548. PIO XII, Cost. Apost. Provida Mater, 2 febbr. 1947: AAS 39 (1947), p. 117. Disc. Annus sacer, 8 dic. 1950: AAS 43 (1951), pp. 27-28. Disc. Nel darvi, 1° lug. 1956: AAS 48 (1956), p. 574s.
[125] Cf. S. TOMMASO, Summa Theol. II-II, q. 184, a. 5 e 6; De perf. vitae spir., c. 18. ORIGENE, In Is., Hom. 6, 1: PG 13, 239.
[126] Cf. S. IGNAZIO M., Magn. 13, 1: ed. FUNK I, p. 241.
[127] Cf. S. PIO X, Esort. Haerent animo, 4 ag. 1908: ASS 41 (1908), p. 560s. CIC, can. 124 [nel nuovo Codice can. 276]. PIO XI, Encicl. Ad catholici sacerdotii, 20 dic. 1935: AAS 28 (1936), p. 22.
[128] Cf. Pontificale Romanum, Ordinazione dei Presbiteri, esortazione iniziale.
[129] Cf. S. IGNAZIO M., Trall. 2, 3: ed. FUNK I, p. 244.
[130] Cf. PIO XII, Disc. Sous la maternelle protection, 9 dic. 1957: AAS 50 (1958), p. 36.
[131] Cf. PIO XI, Encicl. Casti Connubii, 31 dic. 1930: AAS 22 (1930), p. 548s. S. GIOV. CRISOSTOMO, In Ephes., Hom. 20, 2: PG 62, 136ss.
[132] Cf. S. AGOSTINO, Enchir. 121, 32: PL 40, 288. S. TOMMASO, Summa Theol. II-II, q. 184 a. 1. PIO XII, Esort. Apost. Menti nostrae, 23 sett. 1950: AAS 42 (1950), p. 660 [Collantes 7.321].
[133] Sui consigli in genere cf. ORIGENE, Comm. Rom. X, 14: PG 14,1275B. S. AGOSTINO, De S. Virginitate 15,15: PL 40, 403. S. TOMMASO, Summa Theol. I-II, q. 100, a. 2c (alla fine); II-II, q. 44, a. 4, ad 3.
[134] Sull’eccellenza della verginit consacrata cf. TERTULLIANO, Exhort. Cast. 10: PL 2, 925C. S. CIPRIANO, Hab. Virg. 3 e 22: PL 4, 443B e 461As. S. ATANASIO (?), De Virg.: PG 28, 252ss. S. GIOV. CRISOSTOMO, De Virg.: PG 48, 533ss.
[135] Sulla povertà spirituale cf. Mt 5,3 e 19,21; Mc 10,21; Lc 18,22; sull’obbedienza si propone l’esempio di Cristo; Gv 4,34 e 6,38; Fil 2,8-10; Eb 10,5-7. Abbondano i Padri e i fondatori degli ordini religiosi.
[136] Sull’effettiva pratica dei consigli, che non viene imposta a tutti, cf. S. GIOV. CRISOSTOMO, In Mt., Hom. 7,7: PG 57, 81s. S. AMBROGIO, De Viduis 4,23: PL 16, 241s.
[137] Cf. ROSWEYDE, Vitae Patrum, Antverpiae 1628. Apophtegmata Patrum: PG 65. PALLADIO, Historia Lausiaca: PG 34, 995ss: ed. C. BUTLER, Cambridge 1898 (1904). PIO XI, Cost. Apost. Umbratilem, 8 lug. 1924: AAS 16 (1924), pp. 386-387. PIO XII, Disc. Nous sommes heureux, 11 apr. 1958: AAS 50 (1958), p. 283.
[138] Cf. PAOLO VI, Disc. Magno gaudio, 23 maggio 1964: AAS 56 (1964), p. 566.
[139] Cf. CIC, cann. 487 e 488, 4o [nel nuovo Codice: cann. 573 e 588]. PIO XII, DISC. Annus sacer, 8 dic. 1950: AAS 43 (1951), p. 27s. PIO XII, Cost. Apost. Provida Mater, 2 febbr. 1947: AAS 39 (1947), p. 120ss.
[140] Cf. PAOLO VI, l.c. [nota 2], p. 567.
[141] Cf. S. TOMMASO, Summa Theol. II-II, q. 184, a. 3 e q. 188, a. 2. S. BONAVENTURA, Opusc. XI, Apologia Pauperum, c. 3, 3: ed. Opera, Quaracchi, t. 8, 1898, p. 245a.
[142] Cf. CONC. VAT. I, Schema De Ecclesia Christi, cap. XV, e Annot. 48: MANSI 51, 549s e 619s. LEONE XIII, Lett. Au milieu des consolations, 23 dic. 1900: ASS 33 (1900-01), p. 361. PIO XII, Cost. Apost. Provida Mater, l.c. [nota 3], p. 114s.
[143] Cf. LEONE XIII, Cost. Romanos Pontifices, 8 maggio 1881: ASS 13 (1880-81), p. 483. PIO XII, Disc. Annus sacer, 8 dic. 1950: AAS 43 (1951), p. 28s.
[144] Cf. PIO XII, Disc. Annus sacer, l.c. [nota prec.], p. 28. PIO XII, Cost. Apost. Sedes Sapientiae, 31 maggio 1956: AAS 48 (1956), p. 355. PAOLO VI, Disc. Magno gaudio, 23 maggio 1964: AAS 56 (1964), pp. 570-571.
[145] Cf. PIO XII, Encicl. Mystici Corporis, 29 giugno 1943: AAS 35 (1943), p. 214s.
[146] Cf. PIO XII, Disc. Annus sacer, l.c. [nota 7], p. 30. Disc. Sous la maternelle protection, 9 dic. 1957: AAS 50 (1958), p. 39s.
[147] CONC. DI FIRENZE, Decretum pro Graecis: Dz 693 (1305) [Collantes 0.023].
[148] Oltre ai documenti più antichi contro qualunque forma di evocazione spiritistica da Alessandro IV (27 sett. 1258) in poi, cf. Encicl. della S. S. C. del S. Uffizio De magnetismi abusu, 4 ag. 1856: ASS 1 (1865), pp. 177-178; Dz 1653-54 (2823-25); risposta della S. S. C. del S. Uffizio del 24 apr. 1917: AAS 9 (1917), p. 268; Dz 2182 (3642).
[149] Si veda l’esposizione sintetica di questa dottrina paolina in: PIO XII, Encicl. Mystici Corporis: AAS 35 (1943), p. 200 e passim.
[150] Cf. per es. S. AGOSTINO, Enarr. in Ps. 85, 24: PL 37, 1099. S. GIROLAMO, Liber contra Vigilantium, 6: PL 23, 344. S. TOMMASO, In IV Sent., d. 45, q. 3, a. 2. S. BONAVENTURA, In IV Sent. d. 45, a. 3, q. 2; ecc.
[151] Cf. PIO XII, Encicl. Mystici Corporis AAS 35 (1943), p. 245.
[152] Cf. parecchie iscrizioni nelle Catacombe romane.
[153] Cf. GELASIO I, Decretale De libris recipiendis, 3: PL 59, 160; Dz 165 (353).
[154] Cf. S. METODIO, Symposion, VII, 3: GCS (BONWETSCH), p. 74.
[155] Cf. BENEDETTO XV, Decretum approbationis virtutum in Causa beatificationis et canonizationis Servi Dei Ioannis Nepomuceni Neumann: AAS 14 (1922), p. 23; diversi Discorsi di PIO XI sui Santi: Inviti all’eroismo, in Discorsi e Radiomessaggi, tt. 1941-1942, passim; PIO XII, Discorsi e Radiomessaggi, t. X, 1949, 37-43.
[156] Cf. PIO XII, Encicl. Mediator Dei: AAS 39 (1947), p. 581.
[157] Cf. Eb 13,7; Sir 44-50; Eb 11,3-40. Cf. anche PIO XII, Encicl. Mediator Dei: AAS 39 (1947), p. 582-583.
[158] Cf. CONC. VATICANO I, Cost. dogm. sulla fede cattolica Dei Filius, cap. 3: Dz 1794 (3013) [Collantes 1.072].
[159] Cf. PIO XII, Encicl. Mystici Corporis: AAS 35 (1943), p. 216 [Collantes 8.161].
[160] Circa la riconoscenza verso i Santi, cf. E. DIEHL, Inscriptiones latinae christianae veteres, I, Berolini 1925, nn. 2008, 2382 e passim.
[161] CONC. DI TRENTO, Decr. De invocatione… Sanctorum: Dz 984 (1821) [Collantes 7.343].
[162] Breviario romano, Invitatorio nella festa di Tutti i Santi.
[163] Cf. per es. 2 Ts 1,10.
[164] CONC. VATICANO II, Cost. sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, cap. 5, n. 104: AAS 56 (1964), pp. 125-126 [pag. 17ss].
[165] Messale romano, Canone [Preghiera Eucaristica I] della Messa.
[166] CONC. DI NICEA II, Sess. VII: Dz 302 (600) [Collantes 7.336].
[167] CONC. DI FIRENZE, Decretum pro Graecis: Dz 693 (1304) [Collantes 0.022].
[168] CONC. DI TRENTO, Decr. de invocatione, veneratione et reliquiis Sanctorum et sacris imaginibus: Dz 984-88 (1821-24) [Collantes 7.343-47]; Decr. de Purgatorio; Dz 983 (1820) [Collantes 0.029]; decr. De iustificatione, can. 30: Dz 840 (1580) [Collantes 8.113].
[169] Messale romano, dal prefazio dei Santi concesso alle diocesi di Francia.
[170] Cf. S. PIETRO CANISIO, Catechismus Maior seu Summa Doctrinae christianae, cap. III (ed. crit. F. STREICHER), Pars I, pp. 15-16, n. 44 e pp. 100-101, n. 49.
[171] Cf. CONC. VATICANO II, Cost. sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, cap. I, n. 8: AAS 56 (1964), p. 401 [pag. 21].
[172] Simbolo Costantinopolitano: MANSI 3, 566. Cf. CONC. DI EFESO, ib. 4, 1130 (anche ib. 2, 665 e 4, 1071); CONC. DI CALC., ib. 7, 111-116; CONC. DI COSTANTINOPOLI II, ib. 9, 375-396 [Dz 150, 301, 422; Collantes 4.012, 4.020, 0.509]; Messale romano, nel Credo.
[173] Messale romano, nel Canone [Preghiera eucaristica I].
[174] S. AGOSTINO, De S. Virginitate, 6: PL 40, 399.
[175] Cf. PAOLO VI, Discorso al Concilio del 4 dic.1963: AAS 56 (1964), p. 37 [0000].
[176] Cf. S. GERMANO DI COST., Hom. in Annunt. Deiparae: PG 98, 328A; In Dorm., 2: 357. ANASTASIO D’ANTIOCHIA, Serm. 2 de Annunt., 2: PG 89, 1377AB; Serm. 3, 2: 1388C. S. ANDREA DI CRETA, Can. in B. V. Nat., 4: PG 97, 1321B; In B. V. Nat., 1: 812A; Hom. in Dorm., 1: 1068C. S. SOFRONIO, Or. 2 in Annunt., 18: PG 87(3), 3237BD.
[177] S. IRENEO, Adv. Haer. III, 22, 4: PG 7, 959A; HARVEY, 2, 123.
[178] S. IRENEO, Adv. Haer. III, 22, 4: PG 7, 959A; HARVEY, 2, 124.
[179] S. EPIFANIO, Haer. 78, 18: PG 42, 728CD-729AB.
[180] S. GIROLAMO, Epist. 22, 21: PL 22, 408. Cf. S. AGOSTINO, Serm. 51, 2, 3: PL 38, 335; Serm. 232, 2: 1108. S. CIRILLO DI GERUS., Catech. 12, 15: PG 33, 741AB. S. GIOV. CRISOSTOMO, In Ps. 44, 7: PG 55, 193. S. GIOV. DAMASCENO, Hom. 2 in dorm. B.M.V., 3: PG 96, 728.
[181] Cf. CONC. LAT. del 649, can. 3: MANSI 10, 1151 [Dz 503; Collantes 4.044]. S. LEONE M., Epist. ad Flav.: PL 54, 759 [Dz 291; Collantes 4.007]. CONC. DI CALC.: MANSI, 7, 462. S. AMBROGIO, De instit. virg.: PL 16, 320.
[182] Cf. PIO XII, Encicl. Mystici Corporis, 29 giugno 1943: AAS 35 (1943), pp. 247-248 [Collantes 5.034-35].
[183] Cf. PIO IX, Bolla Ineffabilis, 8 dic. 1854: Acta Pii IX, 1, I, p. 616; Dz 1641 (2803) [Collantes 5.026].
[184] Cf. PIO XII, Cost. Apost. Munificentissimus, 1° nov. 1950: AAS 42 (1950); Dz 2333 (3903) [Collantes 5.030]. Cf. S. GIOV. DAMASCENO, Enc. in dorm. Dei genetricis, Hom. 2 e 3: PG 96, 721-761, specialmente 728B. S. GERMANO DI COSTANTINOP., In S. Dei gen. dorm., Serm. 1: PG 98(6), 340-348; Serm. 3: 361. S. MODESTO DI GER., In dorm. SS. Deiparae: PG 86(2), 3277-3312.
[185] Cf. PIO XII, Encicl. Ad coeli Reginam, 11 ott. 1954: AAS 46 (1954), pp. 633-636: Dz 3913ss. Cf. S. ANDREA DI CRETA, Hom. 3 in dorm. SS. Deiparae: PG 97, 1089-1109. S. GIOV. DAMASCENO, De fide orth, IV, 14: PG 94, 1153-1161.
[186] Cf. KLEUTGEN, testo riformato De mysterio Verbi incarnati, cap. IV: MANSI 53, 290. Cf. S. ANDREA DI CRETA, In nat. Mariae, sermo 4: PG 97, 865A. S. GERMANO DI COSTANTINOP., In annunt. Deiparae: PG 98, 321BC. In dorm. Deiparae, III: 361D. S. GIOV. DAMASCENO, In dorm. B. V. Mariae, Hom. I, 8: PG 96, 712BC-713A.
[187] Cf. LEONE XIII, Encicl. Adiutricem populi, 5 sett. 1895: ASS 28 (1895-96), p. 129. S. PIO X, Encicl. Ad diem illum, 2 febbr. 1904: Acta I, p. 154; Dz 1978a (3370) [Collantes 5.032-33]. PIO XI, Encicl. Miserentissimus, 8 maggio 1928: AAS 20 (1928), p. 178. PIO XII, Messaggio Radiof., 13 maggio 1946: AAS 38 (1946), p. 266.
[188] Cf. S. AMBROGIO, Epist. 63: PL 16, 1218.
[189] Cf. S. AMBROGIO, Expos. Lc. II, 7: PL 15, 1555.
[190] Cf. Ps. PIER DAM., Serm. 63: PL 144, 861AB. GOFFREDO DI S. VITTORE, In nat. B. M., Ms. Parigi, Mazarine, 1002, fol. 109r. GEROBO DI REICH., De gloria et honore Filii hominis, 10: PL 194, 1105AB.
[191] Cf. S. AMBROGIO, Expos. Lc. II, 7 e X, 24-25: PL 15, 1555 e 1810. S. AGOSTINO, In Io., Tr. 13, 12: PL 35, 1499. Cf. Serm. 191, 2, 3: PL 38, 1010; ecc. Cf. anche VEN. BEDA, In Lc. Expos. I, cap. 2: PL 92, 330. ISACCO DELLA STELLA, Serm. 51: PL 194, 1863A
[192] Cf. Breviario Romano, ant. “Sub tuum praesidium” ai I Vespri del Piccolo Ufficio della Beata Vergine Maria [nella Liturgia delle Ore, antifona mariana di Compieta].
[193] Cf. CONCILIO DI NICEA II, anno 787: MANSI 13, 378-279; Dz 302 (600-01) [Collantes 7.336-37]; CONC. DI TRENTO, Sess. 25: MANSI 33, 171-172 [Dz 1821-25; Collantes 7.343-47].
[194] Cf. PIO XII, Messaggio radiof., 24 ott. 1954: AAS 46 (1954), p. 679; Encicl. Ad caeli Reginam, 11 ott. 1954: AAS 46 (1954), p. 637.
[195] Cf. PIO XI, Encicl. Ecclesiam Dei, 12 nov. 1923: AAS 15 (1923), p. 581. PIO XII, Encicl. Fulgens corona, 8 sett. 1953: AAS 45 (1953), pp. 590-591.