Commento alle letture di domenica 26 Gennaio 2020 – Carlo Miglietta

Il commento alle letture di domenica 26 gennaio 2020 a cura di Carlo Miglietta, biblista; il suo sito è “Buona Bibbia a tutti“.

LASCIARE TUTTO PER SEGUIRE IL SIGNORE     

Gesù ci chiede di stare dalla parte dei poveri, di essere per essi sacramento vivente della salvezza che egli ha portato. Ma per seguire il Signore, bisogna proprio essere poveri? La povertà individuale ed ecclesiale è proprio indispensabile per essere suoi discepoli? E quale livello di povertà è richiesto?

Lasciare ciò che si possiede

C’è tutta una serie di testi evangelici che sono chiarissimi: la chiamata di Gesù comporta il “lasciare ciò che si possiede abbandonandolo”. Simone e Andrea, “lasciando (“aphéntes”) subito le loro reti, lo seguirono” (Mc 1,18; Mt 4,20); così Giacomo e Giovanni “lasciando il loro padre Zebedeo nella barca con gli aiutanti, andarono dietro a Gesù” (Mc 1,20; Mt 4,22). Luca, parlando della chiamata dei primi quattro discepoli, chiarisce che il concetto si estende alla totalità dei beni: “Dopo aver riportato le loro barche a riva, lasciarono tutto e lo seguirono” (Lc 5,11), così come a proposito di Levi dice: “Abbandonando (“katalipòn”) tutto lo seguì” (Lc 5,28). In seguito, saranno i discepoli a dire a Gesù: “<<Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito>>. Gesù, rispondendo, espliciterà il “tutto” come  “casa o fratelli o sorelle e madre o padre o figli (ndr: e Lc 18,29 aggiunge: “o moglie”) o campi a causa mia e a causa del vangelo” (Mc 10,28-30). Bisogna quindi lasciare i beni materiali e posporre anche le persone più care: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli e le sorelle e perfino la propria vita…, non può essere mio discepolo” (Lc 14,26); bisogna staccarsi persino dalla propria vita! Gesù conclude: “Chi non porta la sua croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo” (Lc 14,27).

E’ un passo impegnativo, che va ben ponderato. Per questo Gesù racconta la famosa parabola del tale che prima di costruire la torre deve fare bene i suoi calcoli, se non vuole essere deriso lasciando il lavoro a metà, e del re che prima di combattere una guerra deve ben vedere se ha le forze per vincerla: e, dopo questo pesante ammonimento, conclude: “Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo” (Lc 14,28-33).

Abbandonare proprio tutto?         

Ma i primi discepoli rinunciavano davvero a tutto? L’esempio evangelico dell’unico convertito che si sa non aver abbandonato proprio “tutto” è Zaccheo, “capo dei pubblicani e ricco” (Lc 19,2). Egli infatti decide, davanti al Signore: “Ecco, Signore, io dò la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto” (Lc 19,8). Ci siamo sempre rifugiati in questo episodio per dire che ci sono vari livelli di chiamata alla povertà, e per accontentarci della situazione in cui siamo. In realtà la rinuncia di Zaccheo, uomo ricco, è molto forte. Egli dà ai poveri metà dei suoi beni; ma la sua ricchezza derivava probabilmente tutta, come pubblicano, dal “pizzo” che egli imponeva sulle tasse da versare ai Romani: restituire il quadruplo significava dare quindi… quasi tutto, se non tutto!

Si noti come la sua affermazione, più che sembrare una limitazione della donazione ai poveri, è invece chiara attestazione del primato della giustizia sulla beneficenza. Egli potrà dare ai poveri solo quando avrà fatto giustizia dei beni fraudolentemente accumulati. E’ anche da sottolineare che all’atto di giustizia egli accompagna anche una forte espiazione: il restituire quattro volte tanto, che nella Torah è richiesto in un solo caso, quello del furto di un montone (Es 21,37), e nella legge romana solo per i “furta manifesta”, quelli di pubblico scandalo.

Pare dunque chiaro che anche il gesto di Zaccheo si situi sulla linea di una ricerca di totalità, pur fatta salva l’individualità della chiamata e della situazione.

Il centuplo già in questa vita

Dobbiamo chiarire una cosa: a chi abbraccia la povertà evangelica, condividendo i suoi beni con gli ultimi, Gesù non promette solo la vita eterna, ma il suo aiuto provvidente già in questa esistenza: <<In verità vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle e madre o padre o figli  o campi a causa mia e a causa del vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna>>” (Mc 10,28-30).

E’ Dio stesso che provvederà ai suoi, come ricorda Gesù nell’ultima cena: “Quando vi ho mandato senza borsa, né bisaccia, né sandali, vi è forse mancato qualcosa?” (Lc 22,35).

Come dice Paolo, citando i Salmi (Sl 112,9): “Tenete a mente che chi semina scarsamente, scarsamente raccoglierà e chi semina con larghezza, con larghezza raccoglierà…. Del resto, Dio ha potere di fare abbondare in voi ogni grazia perchè, avendo sempre il necessario di tutto, possiate compiere generosamente le opere di bene, come sta scritto: <<Ha largheggiato, ha dato ai poveri; la sua giustizia dura in eterno>>” (2 Cor 9,6-9).

LA POVERTÀ, VOCAZIONE PER TUTTI

Al giovane ricco che gli chiede che cosa dovesse fare per avere la vita eterna, e che afferma di osservare già i comandamenti, Gesù risponde: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi” (Mc 10,17-27).

Ci si potrebbe chiedere se una chiamata così radicale sia per tutti, o solo per qualche categoria speciale di discepoli. Di questa pericope evangelica nacquero ben presto tra i cristiani varie interpretazioni: quella rigoristica delle Chiese siriache che, enfatizzando il “vieni e seguimi” (Mc 10,21), poneva l’abbandono dei beni come condizione imprescindibile per essere battezzati; quella ascetico-monastica che, sottolineando il “dallo ai poveri” (Mc 10,21), parlava di questa Parola del Signore come di un “consiglio” per i “perfetti”, negandone la portata universale; quella spiritualistica, che vede nel “vendere tutto” l’invito a sbarazzarsi delle passioni (Clemente Alessandrino, CGS 17,166s-168s); quella personalistica, che legge l’episodio come caso individuale del giovane ricco, a cui Gesù chiede, in quella particolare situazione, quello specifico passo come test del primato della sua sequela su tutto…

Ma la lettura più ovvia è quella che considera la condivisione con i poveri come irrinunciabile conseguenza dell’amore verso Dio e i fratelli. Nel discorso della montagna, il “Siate perfetti” (Mt 5,48) è rivolto a tutti; quindi anche i successivi: “Se vuoi entrare nella vita” (Mt 19,17) e: “Se vuoi essere perfetto” (Mt 19,21), che Gesù rivolge al giovane ricco invitandolo a dare i suoi beni ai poveri e a seguirlo, hanno portata generale. La vocazione alla povertà è universalistica: Gesù dice chiaramente: “Non c’è nessuno che abbia lasciato…” (Mc 10,29); e infine proprio: “Chiunque non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo” (Lc 14,33).

E’ inutile nasconderci: anche se in forme diverse, i discepoli di Gesù sono chiamati a “dare tutto”. “Basilio, nella sue Regole, osserva che essere discepoli porta a rinunciare alle cose del mondo, spartendo ciò che si ha con i poveri, <<perché soltanto così si può condurre una vita conforme all’Evangelo>>” (J. de S. Ana, op. cit., pg. 50). Tertulliano (155-220) dice che i cristiani hanno “tutto in comune, eccetto le spose” (Apolog. 39,11).

Tocca soprattutto ai laici, che costituiscono la stragrande maggioranza dei discepoli del Signore, riflettere su questa chiamata, troppo a lungo relegata e predicata come esclusiva dei religiosi. Ma limitando l’obbligo di condividere con i poveri ad alcune vocazioni specifiche si è mutilata la Parola di Dio, e anzi i cristiani occidentali sono diventati i principali responsabili della miseria mondiale e dei perversi meccanismi economici che la determinano. Quando mai un’omelia li chiama alla povertà? Quando mai in confessione si sentono interrogati sull’uso dei propri beni? Certo, anche i  preti e i religiosi dovranno verificare se la loro è una povertà effettiva, o se è sufficiente trincerarsi dietro il fatto che “tanto i beni sono della Congregazione, della Diocesi, e se  muoio non posso lasciarli a nessuno”…


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