La lebbra non ti lascia mai. È qualcosa che ti si è appiccicata addosso e non ti molla. Ti accompagna sempre, quando dormi, quando mangi, quando preghi. Ti si unisce così profondamente che diventa esclusiva: quando c’è lei, c’è solo lei, altre relazioni non ammesse, sei isolato. La lebbra isola pesantemente perché fa paura.
La lebbra, che ancora esiste e uccide in varie parti del mondo, diventa per la preghiera di oggi un simbolo: essa ci mette in relazione con un paio di situazioni che ci ricordano gli effetti che essa ha sulla persona.
La lebbra deforma la nostra immagine. Penso alle scelte fatte o che sto facendo. Alcune di queste mi fanno male, forse mi provocano un sollievo immediato ma temporaneo; dopo un po’ mi accorgo che mi rimane un malessere di fondo perché quelle scelte non mi appartengono, mi cambiano, mi “sfigurano”. E così non sono contento di me. Il non essere contenti di noi stessi, spesso non è la malattia, è il sintomo! Sintomo legato che non siamo in contatto con la nostra origine e con la nostra destinazione, con chi veramente siamo.
La lebbra ci isola dalla comunità. La nostra immagine (interiore) rovinata diventa repellente per noi stessi e anche per gli altri. Se per primo non sono in sintonia con me stesso come fanno gli altri a esserlo con me? Comi posso “attrarre” persone belle, positive, vitali?
L’attrattività di Gesù sta proprio nella bellezza della sua umanità piena, consapevole della sua origine e rivolta con coraggio alla sua destinazione: donarsi per amore.
Andrea Piccolo SJ
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Fonte: Get up and Walk – il vangelo quotidiano commentato