Nico Guerini – Commento al Vangelo di lunedì 6 Gennaio 2020

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Può darsi che ci sia chi si chiede come mai la festa dell’Epifania sia sorta prima del Natale, e perché in Oriente essa pare rivesta una solennità maggiore. In effetti, a pensarci bene, è sicuramente di enorme importanza il fatto che il Figlio di Dio si sia incarnato e sia nato, ma a cosa sarebbe servita tale nascita se egli non fosse stato “trovato”, non si fosse fatto “vedere” e conoscere?

La festa dell’Epifania – come dice il nome – è quella della sua manifestazione. Nei racconti di Luca e Matteo, quindi, diventa rilevante il “segno” che permette di rintracciarlo e di riconoscerlo: in Luca il segno è offerto dal modo stesso della nascita, ed è la mangiatoia; in Matteo il segno sono i doni offerti dai magi che vengono dall’oriente, nei quali riconoscono la sua persona di «re (l’oro), sacerdote (l’incenso) e profeta che morirà (la mirra)».

Significativo è il fatto che, a trovarlo e a riconoscerlo, siano due categorie ai margini della scala sociale del popolo ebraico: i poveri, materializzati nei pastori, e gli stranieri, rappresentati dai magi. Non poteva essere diversamente per un Dio che si era incarnato per cercare e salvare chi si era perduto (Lc 19,10)!

Una visione profetica

Il trittico delle letture ci offre un percorso in tre tempi: la visione profetica, il suo significato teologico, la narrazione dell’evento che realizza l’una e l’altro.

Il brano di Isaia 60,1-6 è di una bellezza sconvolgente, ancor più se lo si legge, o lo si canta, nel latino della Volgata con le cadenze ritmiche e le assonanze di cui l’antica lingua è capace.

Ma ci si può anche aiutare con la musica che riveste frasi come Omnes de Saba venient (Tutti verranno da Saba), magistralmente orchestrata da J.S. Bach nella Cantata 64 Sie werden aus Saba alle kommen. Il grande coro iniziale, con il possente attacco dei fiati, corni, flauti, oboi da caccia sul dolce e concitato frinire degli archi, è come un sussulto di sorpresa felice, cui contribuisce il ritmo che spinge incessantemente in avanti, quasi a fare del viaggio dei magi, e delle genti dietro a loro, una cavalcata veloce e travolgente.

È l’aspetto festoso e fastoso dell’Epifania, quello che penso rimanga negli occhi di molti attraverso le immagini di Gentile da Fabriano e di Benozzo Gozzoli, vedendo le quali si materializzano le parole rivolte dal profeta a Gerusalemme: «Allora guarderai e sarai raggiante, palpiterà e si dilaterà il tuo cuore, perché l’abbondanza del mare si riverserà su di te, verrà a te la ricchezza delle genti». Anche oggi capita di vedere celebrazioni grandiose in cui si manifesta questo adunarsi di popoli nella gioia e nella festa di chi, col cuore pieno, canta le lodi del Signore ed esalta la sua magnificenza. E davanti allo spettacolo diventa logico far nostro quanto proclama il Te Deum: “Te per orbem terrarum sancta confitetur Ecclesia”!

Una teologia della storia

Questa emozione è buona, e ci aiuta a entrare nel «mistero», cui provvede la seconda lettura (Ef 2,3a.5-6), che ci invita ad andare oltre il clangore di trombe e timpani per raggiungere il significato centrale dell’evento: «le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del vangelo». Tre obiettivi che hanno tutti in comune la loro capacità aggregante così da fare di una massa indistinta un “popolo”!

Il cristiano che dimenticasse questo cuore della propria fede, cioè la vocazione del mondo a fare delle genti una sola famiglia, si condannerebbe alla sterilità di una vita fatta di formalismo rituale, quand’anche fosse praticata nella fedeltà alla prassi liturgica o nell’osservanza di norme che alla fine non toccano il cuore. Mi pare inutile ricordare che, nei giorni in cui viviamo, questo richiamo dell’Epifania, vera e propria «festa delle genti», debba essere proclamato con voce ferma e decisa, non tanto come rimprovero, ma possibilmente nella gioia di sentirci tutti chiamati a fare comunione in un solo popolo.

Luce e tenebre

Ma c’è un aspetto “difficile” della festa, che peraltro forma proprio la materia stessa del brano evangelico (Mt 2,1-12). La pagina è una perfetta illustrazione della lotta tra la luce e le tenebre di cui si parlava la scorsa domenica. Il paesaggio immerso nella luce di un’apparizione benefica è oscurato dalla figura losca di Erode, cui fa da malinconico sfondo l’inerzia della città santa che resta turbata, per non dire di sacerdoti e scribi, che conoscono le profezie sul luogo della nascita, ma evidentemente, anche per loro, sapere e credere non sono la stessa cosa: non muovono un passo.

I magi, invece, pur avendo sbagliato l’indirizzo della meta cui erano diretti, non si rassegnano, anche se vengono a sapere che il «re dei giudei» non si mostra nella grande città e, men che meno, nel palazzo del re Erode, ma in una «casa» del povero villaggio di Betlemme. La loro aspettativa deve per così dire “convertirsi” a dimensioni probabilmente non previste.

Avevano dovuto fare lo stesso anche i pastori, contenti sì di aver ricevuto un «segno», ma che sicuramente si saranno chiesti come fosse possibile che il Signore e salvatore promesso loro si trovasse nella mangiatoia di una stalla.

A illuminare e a guidare i magi è ancora la «stella», questa luce segreta nascosta nella profezia, vedendo la quale sono pieni di gioia. La loro “conversione” è stata genialmente sottolineata da P.P. Pasolini che, nel Vangelo secondo Matteo, non fa muovere il corteo dei magi in un’atmosfera solenne, come fosse un trionfo romano, ma li fa “scendere” per un cammino tortuoso fino alla casa, perché il re dei giudei sta “in basso”!

E qui vengo a mostrare alcune delle difficoltà di questi “cercatori”, che sono anche le nostre di credenti.

La prima consiste proprio nel “viaggio” necessario per raggiungere l’obiettivo dell’annuncio.

Il viaggio, realtà e metafora

Ci ha ricamato sopra T.S. Eliot, che parte proprio da una citazione del grande vescovo anglicano Lancelot Andrewes, già menzionato: «È stato duro venire, faceva freddo, / proprio il tempo peggiore dell’anno / per un viaggio, per un viaggio così lungo, / le strade fangose e il clima rigido, nel cuore stesso dell’inverno».

Prima di precipitarsi sulla gioiosa sorpresa della conclusione, si dovrebbe diligentemente sostare sulla difficoltà del cammino. Perché questo riguarda direttamente la nostra fede, partendo dalla convinzione che il credere non cessa mai di essere un cammino di ricerca, su una base che è fatta di “indizi” il cui significato va e viene, come la luce delle stelle, indizi che portano a un’adesione continuamente da riscoprire e da riaffermare: non è forse vero che in tutte le eucaristie ci viene chiesto di tornare a proclamare il Credo? Con che animo lo diciamo?

Il poemetto di Eliot indugia a lungo su un viaggio che Andrewes chiama «stancante, noioso, penoso, pericoloso, fuori stagione», e all’arrivo «a sera, non un minuto prima», avendo trovato il posto, esclamano: «potevamo essere soddisfatti (si direbbe)». Neanche un grido di gioia, ma non più di un sospiro di sollievo!

Ma qui, sulla determinazione dei magi nel continuare un cammino così difficile, ascoltiamo ancora Lancelot Andrewes: «E noi, cosa avremmo fatto? Per loro non fu altro che vidimus, venimus, vedemmo e venimmo; per noi sarebbe stato al massimo solo veniemus, verremo. Il nostro stile è vedere e rivedere, prima di muovere un piede, soprattutto se ciò ha a che fare con l’adorazione di Cristo. Fare un viaggio del genere, e con questo tempo? No, ma avremmo preferito spostarlo alla primavera dell’anno, aspettando che le giornate fossero più lunghe, e le strade più buone, e il clima più caldo, così da andare a Cristo in condizioni migliori. La nostra Epifania sarebbe di certo caduta al più presto nella settimana di Pasqua. Ma anche allora, la distanza, la desolazione, il tedio e il resto, una qualsiasi di queste cose, sarebbe bastata a ostacolare del tutto il venimus» (Andrewes, Dio è diventato uomo, Sermone 15, Qiqajon 2012, p. 250-251).

Eliot chiude la sua rivisitazione del viaggio con una considerazione ancora più severa: «abbiamo fatto tutta quella strada / per una nascita o per una morte? Ci fu una nascita, certo, / ne avemmo la prova, senza alcun dubbio. Ho visto nascita e morte, / ma avevo pensato che fossero differenti. Questa nascita / è stata dura e amara agonia per noi, come una morte, la nostra morte. / Siamo tornati ai nostri luoghi, in questi regni, / ma non siamo più a nostro agio qui, nell’antica legge, / in mezzo a un popolo straniero incollato ai suoi dei. / Io sarei lieto di un’altra morte».

Temo che qualcuno resterà amaramente sorpreso di questa interpretazione del Viaggio dei magi, ma è semplicemente il contrappunto dell’atmosfera gioiosa e gloriosa della festa. Non per rattristarsi, ma per accogliere come normali le difficoltà di una fede che, con le sue conseguenze, va riconquistata quasi ogni giorno. Del resto, basta rileggere il brano di vangelo nel quale il popolo di Israele “in attesa” del Re-Messia, folla, re, scribi e sacerdoti, non fa proprio una bella figura. Il cristiano è, per natura, uno che in “questo mondo” si trova a disagio.

E però, in ogni eucaristia, gli viene ricordato che la sua vocazione è «rimanere nella morte di Cristo», cioè rimanere nel suo amore (Gv 15,9), che è lo stesso. Questo amore, infatti, vive nel “dono di sé”, l’unica strada, e insieme la vera “epifania”, che ci porta alla libertà e alla gioia.

A cura di Nico Guerini, studioso di letteratura, esperto di testi di mistica, ha pubblicato vari libri di spiritualità.

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