Giovanni Battista è voce di uno che grida nel deserto. Un uomo che ha consegnato la voce di Dio agli altri e che è stato messo a tacere con violenza perché chiedere la conversione suona come un insulto. Pensiamo per un momento a tutte le volte in cui ci hanno intimato di stare zitti perché le nostre parole suonavano scomode, o toccavano ferite, a tutte quelle volte in cui “hanno fatto di noi quello che hanno voluto” perché ci siamo rifiutati di recitare il copione che ci volevano imporre, oppure al contrario a tutte quelle volte in cui ci è mancato il coraggio e siamo rimasti in silenzio. Pensiamo a tutte le volte in cui abbiamo preferito ignorare una voce, deriderla.
Il profeta è un uomo che presta la sua voce a Dio, che ha il coraggio di trasmettere con fedeltà la Parola, anche se questa consegna gli costa l’indifferenza, l’incomprensione, la vita. Ci si aspettava un messaggero potente, capace di grandi cose, ma Gesù con quel “Non l’hanno riconosciuto”, ci confonde e ci imbarazza: ma come, è già venuto? E noi dove eravamo, non stavamo ascoltando, eravamo distratti? Non abbiamo capito che quella voce spezzata è essa stessa profezia, presagio di sofferenza per Gesù.
Di certo non si aspettavano un profeta così, imprigionato e condannato a morte, a cui tagliano la testa, sconfitto dal potere a cui non aveva voluto sottomettersi. Cosa farsene di un profeta che non ha voce, che è messo in condizioni di non poter più essere voce per Dio? Eppure è proprio quel martirio, quella testimonianza macchiata di sangue, che ci parla del modo in cui Gesù ha scelto di dare la vita, della decisione che ha appena maturato sul monte Tabor, si è riconosciuto in una Parola spezzata e in un tempo di violenza, lascia che facciano di lui quello che vogliono.
Per quanto ci provino, non si può rendere innocuo l’amore, l’eco del suo grido di consegna arriva fino a noi dall’alto della croce.
Caterina Bruno
Rete Loyola (Bologna)
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Fonte: Get up and Walk – il vangelo quotidiano commentato