Commento al Vangelo del 8 Dicembre 2019 – p. Fernando Armellini

Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 8 Dicembre 2019.
Se sei interessato a tutti i sui commenti al Vangelo, puoi leggerli qui.

C’è un modo di presentare la figura di Maria che scoraggia invece di animare.

È indicata come la donna assolutamente inimitabile, esentata dal peccato originale e dalle sue drammatiche conseguenze – e questo non per merito suo, ma per un singolare privilegio divino – confermata in grazia, preservata dal commettere errori, benedetta in ogni sua opera… Ci chiediamo cos’abbia in comune con noi questa donna meravigliosa?

Noi, poveri discendenti di Adamo, costretti a sopportare, senza averne colpa, le pene di un peccato che non abbiamo commesso, possiamo provare invidia nei suoi confronti, ma difficilmente amore. È troppo lontana dalla nostra condizione, non è nostra compagna di viaggio nel cammino di fede che, con fatica, percorriamo; non condivide con noi dubbi, incertezze, tentazioni e anche momenti di smarrimento di fronte alla volontà di Dio.

Questa immagine della madre di Gesù – derivata dall’affetto più che dalla meditazione approfondita dei testi sacri – divide i fratelli di fede, invece di unirli, costituisce un motivo di attrito nel dialogo ecumenico, soprattutto con i protestanti e gli ortodossi.

La festa di oggi ci offre l’opportunità di accostarci alla figura autentica di Maria, quella che traspare nitida dai racconti evangelici, libera dalle incrostazioni di una devozione non sempre sana che ha dato adito anche a parecchi equivoci.

Il dogma dell’Immacolata Concezione – definito da papa Pio IX l’8 dicembre 1854 – è stato formulato con un linguaggio legato alle categorie filosofiche e teologiche del tempo, linguaggio che all’uomo del ventunesimo secolo risulta difficile da comprendere. Se si vuole che abbia qualcosa da dire a noi oggi, dobbiamo rileggerlo alla luce della rivelazione biblica.

La Maria del Vangelo ci è molto vicina: ragazza nata fra i monti della Bassa Galilea, innamorata del giovane Giuseppe con il quale ha progettato una famiglia secondo la tradizione del suo popolo, poi madre, donna di fede che si è dovuta confrontare ogni giorno con difficoltà e tentazioni non dissimili dalle nostre. Non è un’eccezione, ma una persona particolare in cui Dio ha trovato la piena disponibilità alla realizzazione del suo piano di salvezza.

Dio non elargisce i suoi doni per suscitare in chi è stato favorito il piacere narcisistico di sentirsi un privilegiato, ma per affidargli una missione da svolgere. Maria è stata colmata di grazia perché noi dovevamo divenire ricchi di grazia. In lei il Signore ha manifestato la sua benevolenza perché voleva colmare noi di ogni benedizione.

Si è inserita perfettamente in questo disegno e tutti i doni che gratuitamente ha ricevuto da Dio li ha impiegati affinché noi potessimo giungere alla salvezza. Con gioia ha accolto la parola del Signore  e ha portato a compimento la sua difficile vocazione.

I vangeli ci ricordano le sue perplessità, i suoi interrogativi, il suo commovente cammino di fede.

Come noi, come suo figlio, è stata tentata, ma in ogni momento ha saputo dire, come Gesù (2 Cor 1,19), sempre “sì” a Dio.

Per interiorizzare il messaggio, oggi ripeteremo:
Non eri diversa da noi, sorella Maria. Sei beata perché hai creduto e sei rimasta fedele.

Prima lettura (Gn 3,9-15.20)

9Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?».
10Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». 11Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?».
12Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». 1
3
Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato».
14Allora il Signore Dio disse al serpente:
«Poiché hai fatto questo,
maledetto tu fra tutto il bestiame
e fra tutti gli animali selvatici!
Sul tuo ventre camminerai
e polvere mangerai
per tutti i giorni della tua vita.
15Io porrò inimicizia fra te e la donna,
fra la tua stirpe e la sua stirpe:
questa ti schiaccerà la testa
e tu le insidierai il calcagno».
20 L’uomo chiamò la moglie Eva, perché essa fu la madre di tutti i viventi.
Maria fu preservata immune da ogni macchia della colpa originale. Così si è espresso Pio IX quando ha formulato il dogma dell’Immacolata Concezione.

Come tutti al suo tempo, questo papa riteneva che il racconto del “peccato originale” riferisse la storia sciagurata di due individui – il signor Adamo e la signora Eva – ed era convinto che la loro trasgressione avesse avuto conseguenze drammatiche per i loro discendenti ai quali era stata trasmessa.

Gli studi biblici oggi hanno appurato, senza ombra di dubbio, che questo brano della Genesi non è il resoconto di un fatto accaduto all’inizio del mondo, ma una pagina di teologia, redatta per rispondere, con immagini e linguaggio mitici, al più inquietante degli enigmi dell’uomo: perché esiste il male nel mondo?.

Non narra la storia del peccato di un certo Adamo e una certa Eva, ma spiega la dinamica secondo cui, da sempre, gli uomini giungono a rifiutare Dio, a commettere il male e a decretare la propria rovina.

Noi non siamo gli sventurati discendenti di Adamo ed Eva – costretti a portare le conseguenze del peccato dei progenitori – ma siamo noi gli Adamo ed Eva, posti di fronte a Dio e alla responsabilità delle scelte che siamo chiamati a fare nella vita.

Se questa è l’interpretazione del racconto della Genesi, anche la verità contenuta nel dogma dell’Immacolata Concezione richiede di essere approfondita e compresa in modo nuovo.

Dio aveva fatto bene ogni cosa, il mondo era uscito “buono” dalle sue mani. Per sette volte l’autore sacro ripete, come un ritornello: “E Dio vide che era buona” l’opera da lui realizzata.

C’era armonia fra l’uomo e Dio, armonia rappresentata nel libro della Genesi dall’immagine squisita del Signore e dell’uomo che passeggiano nel giardino di Eden, accarezzati dalla brezza della sera (Gn 3,8)

C’era armonia fra l’uomo e la natura: il mondo era amato, rispettato e curato come un giardino.

C’era armonia fra uomo e donna: nessun dominio, nessuna sopraffazione, nessuna strumentalizzazione egoistica, solo la gioia di sentirsi ciascuno un dono per l’altro.

È a questo punto che – fin dall’inizio del mondo – entra in scena il serpente che convince l’uomo a infrangere i limiti impostigli dalla sua condizione di creatura, a mettere da parte il progetto del Creatore e a sostituirlo con un proprio progetto, a seguire i propri capricci e astuzie, illudendosi di raggiungere così la piena realizzazione di sé e la felicità.

Chi è il serpente? Proviamo a decodificare questa figura mitica.

Contrariamente a quello che forse pensiamo, in tutto l’Antico Testamento questo misterioso personaggio non compare più. Solo al tempo di Gesù gli autori giudei, per influsso del pensiero persiano ed ellenistico, hanno cominciato a vedere nel serpente il diavolo; ma il testo della Genesi non orienta verso questa spiegazione, dichiara piuttosto che il serpente è la più astuta delle creature di Dio.

Chi può essere?

Scorriamo i primi due capitoli della Genesi, passiamo in rassegna gli esseri viventi creati dal Signore e giungeremo alla conclusione: è l’uomo, non può essere che lui il più astuto.

Sì, il serpente è l’uomo stesso che, colto da un folle delirio di onnipotenza, si solleva contro Dio, pensa di potersi sostituire a lui e proclama la propria autonomia nel decidere ciò che è bene e ciò che è male.

Questa tentazione dell’autosufficienza seduce in modo subdolo, penetra impercettibile, insidiosa come un serpente, nella mente e nel cuore dell’uomo e lo induce a fare scelte di morte.

Il peccato causa la rottura di tutte le armonie e il brano che ci viene proposto nella lettura di oggi ne presenta, con immagini, le drammatiche conseguenze.

L’uomo che si lascia sedurre dal “serpente” che è in lui finisce fuori posto.

Dio lo cerca, lo chiama: “Dove sei?”, ma non lo trova (vv. 8-10), perché non è più dove dovrebbe essere.

Come un padre, il Signore è addolorato del male che il figlio si è fatto; è preoccupato e, per ricuperarlo, lo invita a prendere coscienza dell’accaduto.

“Dove sei?” significa: “Dove sei andato a finire? Cos’hai fatto della tua vita? Come ti sei ridotto agendo di testa tua?”.

La risposta dell’uomo: “Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto” (v. 10).

È il rifiuto della presenza di Dio, considerato non più come un amico, ma come un avversario da evitare, come un tiranno che minaccia l’indipendenza e toglie la libertà.

Nascondersi dal Signore significa abbandonare la preghiera, disinteressarsi dell’ascolto della parola di Dio, prendere le distanze dalla vita della propria comunità per non essere rimessi in discussione, per non sentirsi intralciati nelle proprie scelte.

L’uomo ha paura di Dio perché teme che egli lo privi della felicità. In realtà, chi si stacca da lui precipita nel baratro della più completa confusione.

La seconda conseguenza della decisione di smarcarsi da Dio nelle scelte morali è l’allontanamento dai fratelli (vv. 12.16).

Adamo accusa Eva, questa attribuisce la colpa al serpente, ambedue rinfacciano a Dio di aver creato un mondo sbagliato. Sei stato tu – insinua Adamo – a mettermi accanto una persona che, invece di condurmi a te, mi ha distolto dal tuo progetto. Io mi sono fidato di lei perché tu me l’avevi posta al fianco.

Questa reazione rappresenta il tentativo di scaricare le responsabilità del male commesso su capri espiatori che possono essere la famiglia in cui si è nati, la società, l’educazione ricevuta e, in ultima analisi, Dio che ha voluto che l’uomo non potesse realizzarsi che nell’incontro con i propri simili, i quali però spesso, invece di sollevarlo in alto, lo trascinano verso il basso.

La donna, interrogata a sua volta, dà la colpa al serpente e, siccome il serpente non è che l’altra faccia della nostra umanità, le sue parole costituiscono una nuova accusa nei confronti di Dio: Tu hai fatto male le cose creando l’uomo così com’è, capace di compiere follie e crimini. Perché non l’hai fatto diverso, perfetto? Perché in lui c’è questo “serpente” insidioso che inietta veleno mortale?

Dopo essersi rivolto all’uomo e alla donna, ci aspetteremmo che Dio interroghi il serpente, invece non lo fa, perché il serpente non è una creatura distinta dall’uomo, ma è la controparte dell’uomo, quella che si oppone a Dio.

Il serpente – il male che è nell’uomo – avrà sempre la meglio?

Dal nostro punto di vista la condizione umana pare disperata e Paolo la descrive in toni drammatici: “Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto, quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?” (Rm 7,15-24).

La disfatta dell’uomo sarà dunque definitiva?

Nell’ultima parte del brano (vv. 14-15) Dio risponde a questa inquietante domanda.

La lotta fra “il serpente” e l’uomo continuerà fino alla fine del mondo, ma viene anticipato l’esito del confronto.

“Il serpente” è dichiarato maledetto, cioè privo di forza soprannaturale e quindi non irresistibile; può essere vinto e difatti lo sarà.

Servendosi di immagini vive ed efficaci, Dio assicura che lambirà la polvere, andrà incontro a una disfatta umiliante (Sl 72,9); striscerà per terra, come sono costretti a fare i nemici sconfitti di fronte al vincitore (Sl 72,11); avrà la testa schiacciata e, anche se, fino alla fine, tenterà di mettere in atto le sue insidie mortali, non riuscirà nel suo intento.

È la promessa della salvezza universale.

Alla luce di questa lettura, la proclamazione dell’Immacolata Concezione di Maria acquista un chiaro significato nuovo e stimolante.

È l’invito a rivolgere lo sguardo verso colei che, fin dal suo concepimento, ha realizzato quell’armonia perfetta che Dio aveva sognato il primo mattino del mondo.

È immacolata fin dal suo concepimento, cioè, nella totalità della sua esistenza.

In lei la vittoria sul serpente è stata completa perché in lei lo Spirito divino che ha animato suo figlio ha potuto operare le sue meraviglie.

È il segno più nitido del trionfo di Dio sul male.

Seconda lettura (Ef 1,3-6.11-12)

3 Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo.
4 In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo,
per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità,
5 predestinandoci a essere suoi figli adottivi
per opera di Gesù Cristo,
6 secondo il beneplacito della sua volontà.
E questo a lode e gloria della sua grazia,
che ci ha dato nel suo Figlio diletto.
11 In lui siamo stati fatti anche eredi,
essendo stati predestinati secondo il piano di colui
che tutto opera efficacemente conforme alla sua volontà,
12 perché noi fossimo a lode della sua gloria,
noi, che per primi abbiamo sperato in Cristo.

La festa di oggi è solo un invito a contemplare l’Immacolata, a rallegrarci per le meraviglie operate in lei o Dio ci vuole in qualche modo coinvolgere nella sua luminosa storia?

A questa domanda risponde il brano che ci è proposto nella lettura.

È un inno commovente, sgorgato dal cuore di un cristiano dell’Asia minore, cantato durante le celebrazioni liturgiche delle comunità del I secolo e conservatoci dall’autore della lettera agli efesini.

Esordisce con una benedizione a Dio che non è più chiamato “Dio d’Abramo, d’Isacco e di Giacobbe”, ma Padre del Signore nostro Gesù Cristo (v. 3).

È benedetto perché, avendoci inseriti in Cristo, ci ha resi partecipi di ogni benedizione spirituale.

Le benedizioni promesse ai patriarchi erano materiali. Dio si mostrava benevolo verso il suo popolo quando donava messi abbondanti, moltiplicava greggi e armenti, faceva crescere i figli come virgulti d’ulivo e rendeva le figlie splendide “come colonne d’angolo” (Sl 144,12).

Ora egli ci colma di benedizioni spirituali, che non sono in contrapposizione con quelle materiali, ma costituiscono una realtà nuova, un’offerta di beni imperituri, di una vita che va oltre gli orizzonti di questo mondo.

Dopo questa esclamazione gioiosa, l’inno presenta, nella prima strofa, il progetto d’amore ideato da Dio (vv. 4-6). Rivela la sorpresa che Dio aveva in serbo per noi prima ancora della creazione del mondo: egli ci ha scelti per essere santi e immacolati.

Si tratta di un messaggio inatteso.

Ritenevamo che solo Maria fosse santa e immacolata, invece Paolo ci assicura che questa è la vocazione alla quale siamo chiamati tutti. Anche in noi il male è destinato a subire la disfatta che si è registrata in modo totale in Maria.

Quest’opera meravigliosa il Signore la realizza predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo.

Il destino che attende l’intera umanità non è, dunque, la rovina, ma la gioia senza fine, a lode e gloria della sua grazia.

A questo punto l’inno introduce un’affermazione densa di significato e che, purtroppo, la nostra traduzione non riesce a rendere: “grazia che ci ha dato nel suo Figlio diletto”.

Il testo originale impiega qui il verbo greco kharitoo che significa colmare gratuitamente di ogni dono. Nel suo Figlio diletto Dio ci ha ricolmati gratuitamente, senza alcun nostro merito, dei suoi doni.

Ora, la cosa sorprendente è che questo verbo è usato solo un’altra volta nella Bibbia. Ricorre nell’annuncio che Gabriele rivolge a Maria: Rallegrati o ricolmata da Dio di ogni suo dono, il Signore è con te (Lc 1,28).

Si riteneva che in questo saluto dell’angelo fosse contenuta la prova biblica della pienezza di grazia di Maria.

È vero: in Maria nessuno dei doni di cui è stata colmata è andato perduto.

L’inno della Lettera agli efesini annuncia però anche a noi il lieto messaggio: Dio ha ricolmato anche noi di tutti i suoi doni e ci invita a disporci per accoglierli e lasciarli fruttificare sull’esempio di Maria.

Vangelo (Lc 1,26-38)

26 Nel sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, 27 a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. 28 Entrando da lei, disse: “Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te”.
29 A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto. 30 L’angelo le disse: “Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. 31 Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. 32 Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre 33 e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”.
34 Allora Maria disse all’angelo: “Come è possibile? Non conosco uomo”. 35 Le rispose l’angelo: “Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio. 36 Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile: 37 nulla è impossibile a Dio”.
38 Allora Maria disse: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”. E l’angelo partì da lei.

Numerosi pittori hanno raffigurato questa scena per cui è quasi inevitabile che la si visualizzi e che qualcuno tenti anche di completarla ricorrendo – come hanno fatto molti artisti – ai tratti leggendari tramandati dai vangeli apocrifi.

Le emozioni suscitate da questa pagina di Luca possono aiutare ad accostarsi al mistero, a condizione che si vada subito oltre, che si comprenda il genere letterario impiegato dall’evangelista e si giunga a cogliere il messaggio che vuole comunicare.

Se la si interpreta in modo superficiale, l’incantesimo finisce presto perché sorgono domande cui non si trova risposta o che non hanno senso. Ci si chiede perché non ci venga detto dove Maria si trovava, cosa stesse facendo, quali le ragioni del suo turbamento (si era sposata per avere figli, perché si meraviglia che le si annunci una maternità?), quale aspetto aveva assunto l’angelo e come si era introdotto nella casa della Vergine, dov’era Giuseppe, perché non è stato subito informato e, soprattutto, perché Dio ha voluto complicare tanto la vicenda, al punto di mettere a repentaglio l’onorabilità di Maria.

Chi si pone questi interrogativi non ha capito che non siamo di fronte a un resoconto fedele fin nei dettagli, ma a una pagina di teologia scritta a tavolino da un biblista molto preparato, profondo conoscitore dell’Antico Testamento, degli oracoli dei profeti, delle immagini e delle forme letterarie impiegate nella Bibbia.

Non sapremo mai se l’annunciazione sia stata un evento materiale verificabile o una rivelazione interiore avvenuta in Maria. Non sapremo mai come e quando Maria ha preso coscienza della sua missione di madre del Messia. Questo interessa a noi, non all’evangelista cui preme invece  far comprendere ai suoi lettori chi è il figlio di Maria e che cosa abbia rappresentato per la storia dell’umanità il momento in cui, nel grembo di Maria, è sbocciata la vita umana del Figlio di Dio.

Fatta questa premessa veniamo al testo evangelico.

L’ambientazione (vv. 26-27) del misterioso evento dell’incarnazione è molto realistica. È indicato il luogo, Nazaret, minuscolo villaggio della Galilea, tanto insignificante da non essere neppure nominato nell’Antico Testamento, abitato da gente semplice, poco istruita. A Filippo che, infervorato, dichiarava la sua ammirazione per Gesù di Nazaret, Natanaele rispose irridente: “Ma da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?” (Gv 1,46). L’intera Galilea era ritenuta una regione infedele, semipagana, lontana dalla pratica religiosa pura della Giudea.

Dopo l’accenno al luogo viene introdotta sulla scena una vergine sposata con Giuseppe della dinastia di Davide. Infine è indicato il nome della ragazza, quello con cui è da tutti conosciuta: a Nazaret la chiamano Maria, che significa “l’eccelsa, colei che è elevata in alto”. Di nuovo l’evangelista, nel ricordarne il nome, la designa come “vergine”.

Come mai tanta insistenza?

La verginità per noi è segno di dignità e motivo di onore, ma in Israele era apprezzata prima del matrimonio, non dopo. Per una ragazza era un’infamia rimanere vergine per tutta la vita, era il segno della sua incapacità di attirare su di sé gli sguardi di un uomo. La donna senza figli era un albero secco che non dava frutti. Al termine vergine era legata una connotazione dispregiativa; significava: priva di vita, senza futuro, senza posterità. Nei momenti più drammatici della sua storia, Gerusalemme sconfitta e umiliata è chiamata vergine Sion (Ger 31,4; 14,13), perché in lei la vita si era interrotta, era incapace di generare.

La verginità di Maria non va intesa solo in senso biologico – come la chiesa insegna – ma soprattutto in senso biblico. Luca vuole presentarla come la vergine Sion che diviene feconda perché il suo sposo, il Signore, la colma d’amore.

Nel suo cantico Maria mostrerà di essere ben cosciente della sua “verginità” quando dichiara: “Ha guardato alla bassezza (alla tapinità – dice il testo greco) della sua serva” (Lc 1,48).

Non è l’ammirazione per la sua integrità morale che l’evangelista vuole suscitare nei cristiani delle sue comunità, ma far loro contemplare le “grandi cose” che in lei – povera e priva di qualunque merito – ha operato colui che è “Potente” e “Santo è il suo nome” (Lc 1,49).

Chiunque consideri le meraviglie compiute dal Signore nella “sua serva” non potrà più abbattersi per la propria indegnità, tutti infatti sono chiamati a divenire, nelle mani di Dio, capolavori della sua grazia.

Luca ha aperto il suo vangelo con un dittico, con due annunciazioni. Nel primo quadro ha presentato la vecchia e sterile Elisabetta (immagine della sposa Israele incapace di generare e della condizione dell’umanità priva di prospettive di vita). Nel secondo quadro ha introdotto una giovane, “vergine” infeconda personificazione di Sion, ma grembo pronto ad accogliere la vita.

Rendendo feconde la sterile Elisabetta e la vergine Maria, il Signore ha mostrato che non c’è condizione di morte che non possa essere colmata di vita. Anche i cuori aridi come il deserto egli ha deciso di trasformare in lussureggianti giardini e, irrigati dall’acqua del suo Spirito, i giardini diverranno foreste (Is 32,15).

Dopo aver esaminato i due versetti introduttori, analizziamo la parte cen­trale del brano.

Rallegrati, o amata da Dio, il Signore è con te (v. 28).

È questo il saluto del messaggero celeste a Maria. Non si tratta dell’espressione formale e cortese che le persone che si incontrano per la prima volta sono solite rivolgersi. Non equivale a “Salve, ti saluto o Maria” e non è neppure l’abituale “Shalom”; è una espressione solenne, composta con cura. A qualunque israelita essa subito richiama alcuni testi dell’Antico Testamento.

Rallegrati è il ben noto invito alla gioia e al giubilo che i profeti hanno rivolto alla vergine Sion o alla Figlia di Sion – il quartiere più povero di Gerusalemme, la zona più malridotta, quella in cui risiedevano gli immigrati e gli sfollati.

A questa città disperata Sofonia e Zaccaria hanno annunciato un messaggio di consolazione: “Gioisci, o fi­glia di Sion, esulta Israele, rallegrati con tutto il cuore o figlia di Gerusalemme… Il Signore è in mezzo a te, non vedrai più la sventura… Esulta, giubila… Ecco a te viene il tuo re” (Sof 3,14-18; Zc 9,9-10; 2,14).

Riprendendo questi oracoli, il messaggero celeste mostra di rivolgere il suo saluto non solo a Maria come persona, ma a tutto Israele, anzi, all’intera umanità, invitandola a gioire, a non angosciarsi per la propria miseria e la propria indegnità: il Signore sta per venire in lei.

O amata da Dio.

Se scorriamo la Bibbia, verifichiamo che, quando Dio si rivolge a qualcuno, in genere lo chiama per nome. Nel nostro racconto il nome di Maria è sostituito da un epiteto: Amata da Dio. È il secondo nome che viene dato alla Vergine nel nostro racconto.

Maria era il nome con cui era conosciuta a Nazaret, Amata da Dio è quello con cui è conosciuta in Cielo, è la sua vera identità. In questo nome è contenuta la sua missione nel mondo: attraverso di lei Dio manifesterà tutto il suo amore per l’uomo.

Amata da Dio non è solo il nome celeste di Maria, è quello dell’intera umanità.

Il Signore è con te.

Quando Dio affida a qualcuno una missione importante e difficile, questi è colto da timore ed è tentato di sottrarsi. Mosè deve liberare il popolo, si sente inadeguato e si schermisce; il Signore lo rassicura: “Io sarò con te” (Es 3,12); Giosuè è incaricato di introdurre Israele nella terra promessa e Dio lo incoraggia: “Come sono stato con Mosè, così sarò con te” (Es 1,5.9); Gedeone deve salvare il suo popolo dagli oppressori e l’angelo: “Il Signore è con te” (Gdc 6,12).

Il compito di Maria – e della vergine Israele che lei raffigura – è più straordinario di tutti quelli che sono stato affidati ai servi di Dio che l’hanno preceduta. Gabriele la incoraggia con parole a lei ben note: “Il Signore è con te”.

Il turbamento di Maria permette all’angelo di chiarire il mistero che sta per realizzarsi in lei: nel suo grembo l’Altissimo sta per assumere forma umana, l’eterno sta per entrare nel nostro tempo, il Creatore dell’universo sta per farsi creatura.

Il figlio che nascerà da lei – spiega l’angelo – “sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine” (vv. 32-33).

Ognuna di queste parole – che non sono un resoconto stenografico, ma una composizione teologica postpasquale, posta da Luca sulla bocca dell’angelo – allude a testi dell’Antico Testamento.

Sono un richiamo alla profezia di Isaia: “Un bimbo è nato per noi… ed è chiamato consigliere prodigioso, Dio di guerriero, Capo per sempre, Principe di pace. Il suo principato sarà glorioso e la pace non avrà fine nella dinastia di Davide e nel suo regno” (Is 9,5-6) e soprattutto all’oracolo di Natan: “Io ti farò grande… Renderò stabile il trono del suo regno in eterno… Egli sarà mio figlio… E sarà stabile la tua casa e il tuo regno in eterno” (2 Sam 7,12-17).

Con questi riferimenti l’evangelista voleva presentare ai suoi lettori la vera identità del figlio di Maria. Identità difficile da cogliere: infatti è sempre rimasta nascosta agli occhi dei potenti, dei ricchi, dei sapienti e degli intelligenti (Mt 11,25) che sono soliti giudicare il valore delle persone con i criteri di questo mondo, non con quelli di Dio.

Servendosi dei richiami alle Scritture, Luca ha esposto ai suoi lettori la scoperta che Maria e i discepoli hanno fatto alla luce della Pasqua: benché concepito nel totale anonimato di un villaggio della Galilea dei pagani (Mt 4,15), Gesù non era un bambino qualsiasi, era l’atteso messia destinato a regnare in eterno. In lui si sono adempiute tutte le profezie.

Il racconto continua con la domanda di Maria: “Come avverrà questo?”.

Non chiede come sia possibile che questo accada né intende porre ostacoli, vuole solo sapere quale sarà il suo compito, come dovrà comportarsi affinché in lei si realizzino i disegni del Signore.

L’uomo non può rinunciare alla propria intelligenza. L’adesione a Dio nella fede non esige mai la rinuncia alla ragionevolezza. Il “sì” detto a Dio, per essere realmente umano, deve essere ponderato e responsabile.

Maria è presentata da Luca come il modello della risposta umana autentica – che deve essere libera e consapevole – alla vocazione del Signore.

Il chiarimento richiesto viene dato con il linguaggio ben comprensibile a Maria e ad ogni israelita, quello delle immagini bibliche.

Lo Spirito Santo scenderà su di te, come nube ti coprirà la forza dell’Altissimo (v. 35).

È ricordata anzitutto la presenza dello spirito di Dio, quello spirito che all’inizio del mondo aleggiava sulle acque (Gn 1,2) e che ora è di nuovo richiamato perché Dio sta per realizzare un nuovo atto creativo nel grembo di Maria.

Poi l’ombra e la nube: nell’Antico Testamento sono segni della presenza divina.

Durante l’esodo il Signore precedeva il suo popolo in una colonna di nube (Es 13,21), una nube co­priva la tenda dove Mosè entrava per incontrare Dio (Es 40,34-35) e, quando il Signore scendeva sul Sinai per parlare con Mosè, il monte era coperto da una nube densa (Es 19,16).

Affermando che su Maria è sceso lo Spirito Santo e si è posata l’ombra dell’Altissimo, Luca dichiara che in lei si è reso presente lo stesso Signore. Siamo di fronte a una professione di fede di questo evangelista nella divinità del figlio di Maria.

L’angelo conclude il suo discorso ricordando l’efficacia garantita di ogni parola uscita dalla bocca del Signore. Lo fa con le stesse parole che uno dei tre angeli rivolse a Sara e ad Abramo, increduli all’annuncio della nascita di Isacco: Nulla è impossibile a Dio (Gn 18,14).

Eccomi, sono la serva del Signore (v. 38a).

Nel breve racconto evangelico che stiamo esaminando compaiono tre nomi della Vergine: a Nazaret la chiamavano Maria, in Cielo era conosciuta come l’Amata da Dio. Ecco ora il terzo nome, quello con cui l’ha identificata la comunità cristiana: Serva del Signore.

Nel nostro testo è Maria che si attribuisce questo nome, ma è poco verosimile. Questa qualifica infatti non significa – come qualcuno traduce – “umile ancella”, ma è un titolo di sommo onore che l’Antico Testamento riserva ai grandi uomini fedeli a Dio (mai a una donna). Samuele, Davide, i profeti, i sacerdoti che nel tempio notte e giorno benedicono Dio (Sl 134,1-2) sono chiamati “servi del Signore”. Quando cita il nome di Mosè, l’autore sacro spesso sente il bisogno di aggiungere “servo del Signore”.

È difficile che Maria sia stata così poco modesta da attribuirsi un titolo così elevato, anche se nessuno più di lei l’ha certo meritato. È più probabile che la comunità primitiva – in mezzo alla quale lei è vissuta in preghiera (At 1,14) – avendo contemplato in lei il modello della discepola fedele, abbia scelto questo  titolo biblico per qualificarla e glielo abbia posto sulle labbra.

Avvenga di me quello che hai detto (v. 38b)

In molti dipinti traspaiono, dal volto della Vergine, la sorpresa e, a volte, quasi il suo sbigottimento, cui segue però sempre l’accettazione della volontà del Signore.

Tuttavia, avvenga non significa affatto accondiscendenza rassegnata. Il verbo greco génoito è un ottativo ed esprime un desiderio gioioso. Sulla bocca di Maria rivela la sua ansia di vedere presto realizzato in lei il progetto del Signore.

Dove entra Dio, lì giunge sempre anche la gioia.

Il racconto, iniziato con il rallegrati, si conclude con l’esclamazione lieta della Vergine avvenga.

Nessuno aveva capito il progetto di Dio, non l’avevano capito Davide, Natan, Salomone, i re d’Israele. Tutti gli avevano contrapposto i loro sogni e da lui si aspettavano soltanto l’aiuto per realizzarli. Maria non si è comportata come loro, non ha contrapposto a Dio alcun suo progetto, gli ha chiesto soltanto di mostrargli chiaramente il ruolo che intendeva affidarle e lei, dopo aver capito, con gioia ha accolto la sua volontà.

Fonte – Settimana News

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