C’è sempre un certo fervore negli inizi. Ogni nuova partenza porta di solito con sé nuovi progetti, nuove speranze, nuovi sogni. Così è, penso, anche quando si apre un nuovo anno liturgico. Così dovrebbe essere anche per il cammino di fede che nella liturgia trova le sue sorgenti, le sue direttrici di marcia, i suoi stimoli per iniettare nel trascorrere dei giorni quell’energia interiore che ci sorregge e ci tiene vivi oltre la quotidianità che appare spesso ripetitiva, banale e, non di rado, persino priva di senso. L’Avvento va accolto dunque come una scossa salutare e provvidenziale che, se è necessario, ci rimette in piedi e ci risveglia la voglia di camminare, di guardare avanti.
Qui mi trovo subito a fare i conti con un paradosso. Se l’immagine più naturale della Pasqua, alla quale ci prepara la Quaresima, è quella dell’alba radiosa che fa entrare nel giorno, l’Avvento invece sembra capovolgere la prospettiva, anche perché il punto d’arrivo di questo tempo liturgico è una “notte”, che è certo santa, ma non per questo meno buia, con tutto ciò che implica questa immagine.
L’Avvento, come ogni festa, comincia di sera, in un’atmosfera crepuscolare che, se può avere i colori accesi dei tramonti invernali, non lascia però dimenticare che presto scenderanno le tenebre con tutte le connotazioni inquietanti del caso. Non per niente l’antico inno Conditor alme siderum (VII secolo) prega il «creatore delle stelle» perché, mentre «il mondo volge al vespero», «preso da compassione per un’umanità che va verso la morte, venga a sanare un mondo malato portando la guarigione ai peccatori». Parole antiche, ma sempre attuali.
Mi pare che la liturgia di questa domenica potrebbe essere riassunta in un invito a cambiare prospettiva o, meglio, a intrecciare quella che penso sia la visione normale della vita come un cammino verso la “notte” della fine con quella alternativa che ci presenta l’esistenza, al contrario, come un percorso nella notte che va invece verso la gloria di un “mattino” che aprirà un giorno senza tramonto.
Credo che il tema “escatologico”, apertura rituale del tempo d’Avvento, spesso percepito come un messaggio di catastrofi e cataclismi mirati, sembra, a far paura, vada piuttosto letto – come si dovrebbe – come una parola di conforto che ci sostiene nella “traversata” del buio tenendo fissi gli occhi sul traguardo (Eb 12,1-3), e coscienti, per la fede che ci sostiene, che in questa notte non siamo soli: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino» (Sal 118,105), anche quando questa luce può ridursi a quella di «una lanterna che risplende in un luogo oscuro» (2Pt 1,19).
Messe così le cose, quale percorso possiamo derivare dalle letture del giorno? Sintetizzando, vi intravedo tre possibili tappe: il sogno che dilata lo sguardo, i comportamenti che lo visualizzano e lo traducono, l’attenzione che vigila e ci fa “pronti”.
Il sogno di Isaia
Nella Prima Lettura, Isaia, la voce amichevole e incoraggiante che scandisce le giornate dell’Avvento, non manca mai di farci intendere che la “profezia” è sì una denuncia di ciò che non va, ma che è sempre accompagnata da ciò che ne è l’aspetto più profondo: il “sogno” di una bellezza a venire (Is 2,1-5). Perché la denuncia da sola porta alla disperazione, e san Bernardo, in un sermone a commento di Rm 2,28, dove dimostra che anche la colpa e il castigo sono compresi in quel “tutto” che concorre al bene, scrive che questo è basato sulla convinzione che «nella Scrittura Dio non ha lasciato nessun passo che porti alla disperazione» (Messi I,1).
È anche vero, però, che il sogno da solo rischia di svanire in vapore acqueo se non produce, là dove è necessario, un cambiamento di vita. Attenti dunque a tenere sempre in equilibrio queste due voci! Credo che anche nel far questo la liturgia di oggi ci aiuti.
Il sogno di Isaia si concentra su Gerusalemme, “visione di pace”, secondo l’etimologia ben nota, anche se ciò che vediamo oggi, e da anni, fa vedere tutto il contrario! Questo crea senz’altro un senso di sconforto, ma i profeti sorgono proprio per portare conforto contro tutto ciò che scoraggia, deprime e condanna all’inerzia!
Non è una novità. La soluzione è «rimanere nella visione», come scrive la mistica Giuliana di Norwich a conclusione delle sue «rivelazioni dell’amore», scritte «perché fossero a noi di conforto e consolazione eterna e perché potessimo gioire in Cristo durante il fuggevole pellegrinaggio di questa vita» (Poscritto).
Nella spiritualità medievale esisteva una forma di meditazione, altamente consigliata, chiamata «devozione al cielo», nutrita di un immaginario basato su feste quali l’Ascensione e la Trasfigurazione, su figure quali gli angeli, il volo e le ali, e su temi quali il riposo, il sabato, il letto e la pace del sonno (J. Leclercq, Cultura umanistica e desiderio di Dio, pp. 63-83).
Qual è, dunque, la sostanza della visione? Una convergenza di tutti i popoli per cui le differenze non siano più causa di conflitti, un mondo dove le spade diventino aratri, le armi da guerra diventino strumenti di pace. Si ricordino le grandi figure storiche che hanno vissuto e operato a partire da tali visioni, che li ha resi capaci di «camminare nella luce del Signore».
Il crepuscolo mattutino
La dialettica notte/giorno compare nella Seconda Lettura (Rm 13, 11-14). Qui il “sonno” non è il riposo celeste, ma il torpore dell’accidioso. La nuova situazione in cui ci troviamo con la venuta di Cristo è quella che sta tra una «notte che è avanzata» e «un giorno che è vicino». Non siamo più nello stato di notte totale, ma non ancora in pieno giorno.
Con una splendida metafora Gregorio Magno descrive la situazione del cristiano come quella di che vive nell’indeterminatezza dell’aurora, o – si potrebbe dire – del crepuscolo mattutino che fa da pendant con quello vespertino da dove era partita questa riflessione. Scrive: «L’aurora, o primo mattino, annunzia che è trascorsa la notte, e tuttavia non mostra ancora il pieno splendore del giorno, ma, mentre caccia la notte e accoglie il giorno, conserva le tenebre mescolate alla luce. Chi siamo dunque in questa vita noi tutti che seguiamo la verità, se non l’aurora? Compiamo già alcune opere della luce, ma in alcune altre non siamo ancora liberi dai residui delle tenebre» (Commento morale a Giobbe XXIX,3: Opere I/4, p. 79).
Trovo questa situazione fluida di miscuglio più suggestiva e realistica di quell’altra metafora di commistione che, in certo senso, irrigidisce il contrasto tra il grano e la zizzania. Si noti il lessico: si devono indossare le «armi» della luce, armi buone questa volta, perché quelle che deve avvenire in noi è pur sempre una “lotta” tra luce e tenebre, che costa impegno e fatica. E ancora, «comportiamoci come in pieno giorno», perché la luce piena non è un bene di questa vita, ma già il pensarla, l’aspettarla, soprattutto il desiderarla può darci la forza necessaria per combattere questa nostra lotta quotidiana.
E ne approfitto per dire che tutta la liturgia del tempo di Avvento può essere letta come una vera e propria “pedagogia del desiderio”, di cui le magnifiche Antifone O che troveremo nella settimana di vigilia, formano, per così dire, la “segnaletica”! I mali da sconfiggere sono ben elencati: «orge e ubriachezze, lussurie e impurità, litigi e gelosie», eccessi e guerre relazionali, cose che «appesantiscono il cuore» (Lc 21, 34) e tolgono al cristiano quell’agilità del lottatore che il rito dell’unzione battesimale ricorda con tanto realismo, unito, non a caso, all’esorcismo.
Vegliate!
Il Vangelo (Mt 24,37-44) è una messa in guardia che ritorna sul motivo già accennato da Paolo: «Vegliate». Questo significa trovare uno sguardo più profondo su cose e persone al di là di quello che fa apparire tutto uguale per avere un’attenzione all’interiorità, propria e altrui. Ancora una volta la “notte” è usata per descrivere la nostra condizione abituale, e il “ladro” non è Gesù, anche se in certo senso lo è in quanto viene di sorpresa. Il ladro che viene a «scassinare la casa» è il diavolo che prende forma in tutto ciò e in tutti quelli che vengono per “rubare” i nostri veri beni.
Il papa ama invitare i giovani a non lasciarsi rubare la speranza, a non lasciarsi rubare i sogni! Su questo va esercitata la vigilanza: sui nostri desideri, sui nostri atteggiamenti interiori, e sulla coerenza che deve esserci, per quanto è possibile, tra sogno e realtà, tra ideali e realizzazioni.
Alla fine, il messaggio importante e vitale è quell’invito a «tenersi pronti». Che non vuol dire vivere nella paura di una morte improvvisa, ma nella lucidità che ci porta a «redimere il tempo» (Ef 5,16; Col 4,5), a riscattare i giorni dall’insignificanza cogliendo ogni occasione per fare il bene.
Vorrei concludere il tutto con una bella poesia del poeta bretone E. Guillevic (1907-1997), che ha per tema il Natale, trattato con una grande originalità, che penso renda bene quello che ho cercato di dire in queste righe. «C’è sempre Natale / che arriva. // C’è sempre nel buio più buio / un po’ di luce da supporre, // da vedere già salire, / anche al di fuori di sé, // soprattutto la notte in cui si sguazza / è la più lunga. // È un tunnel senza volta che sfocia // già fin da ora / su un bambino nella luce» (Étier, p. 164).
Anche se non la si vede ben chiara, la luce è sempre “da supporre”, anche perché siamo sì nelle strettoie di un tunnel, che però ha perso la volta e lascia vedere il cielo, e soprattutto perché la fede permette da vederne fin da ora lo sbocco: «un bambino nella luce».
A cura di Nico Guerini, studioso di letteratura, esperto di testi di mistica, ha pubblicato vari libri di spiritualità.