La domenica che viviamo, celebra la Solennità di CRISTO RE DELL’UNIVERSO.
Ma chi è questo Re dell’Universo.
La Liturgia, nell’officiare tale festività, ci presenta un brano tratto dal capitolo 23 secondo Luca, conducendoci direttamente ai piedi della Croce, “sul luogo chiamato Cranio” (Lc 23, 33).
Ma come si può celebrare la festa di Gesù Cristo Re dell’Universo, leggendo un brano che richiama la crocifissione? Non si poteva scegliere un momento in cui Gesù faceva uno dei suoi eclatanti miracoli, così da rendere accattivante il Cristo anche al cospetto di coloro che sono refrattari alla fede? O ancor meglio: non si poteva trarre spunto dal capitolo 24, ovvero rendere gloria al Risorto, così da ribadire la vittoria della fede (e di coloro che hanno il privilegio di avere il dono della fede) sulla ragione (e su coloro che badano solo al raziocinio)?
E poi la Chiesa si lamenta che i fedeli stanno diminuendo.
Ci vuole scaltrezza e strategia anche nel proporre le letture liturgiche: come si può pretendere di vendere, se la pubblicità è scadente? Come si può affermare la superiorità della fede sulla ragione, se la Chiesa propone la festa del suo Re, intronizzato a colpi di chiodi sulla Croce?
“Non sei tu il Cristo?” (v. 39): facci vedere se lo sei veramente! Ovvero: Faglielo vedere che lo sei veramente!
Ma il Re dell’Universo tace.
E muore.
Possa lo Spirito Santo aprire i nostri cuori.
Il Signore Gesù, inchiodato sulla Croce, non adopera le parole, quelle parole con le quali ammaestrava le folle, o con le quali guariva i malati. Il Crocifisso non parla perché soffre, ed è in una condizione che gli impedisce fisicamente di proferire parola, e quando lo fa (cfr. Lc 23, 34; 43; 46), lo scopo esula dalla mera interlocuzione, dalla quale, durante la sua vita, non si era mai tirato indietro.
(Certo: la risposta a quell’ “altro” [Lc 23, 40] dei malfattori è inserita in un contesto dialogico, ma queste parole di Gesù [Lc 23, 43] non badano tanto a soddisfare un quesito, ma sono la piena proclamazione della sua Regalità e Divinità)
Ma se durante il corso della sua vita pubblica Gesù aveva dato risposta persino alle domande più subdole, anche ora, sulla Croce, Egli non si tira indietro; però risponde non con le parole, bensì con la sua persona. Ed è per questo che per ascoltarlo, non dobbiamo drizzare le orecchie, ma aprire gli occhi e guardarlo, così come il popolo che, sotto la Croce, “stava A VEDERE” (v. 35).
Nel testo originale greco la formula “a vedere” è resa con il verbo “theoròn”, che linguisticamente è la coniugazione di “theorèo” ovvero “guardare/osservare”; ma interessante è il percorso etimologico che sta dietro a questo verbo, il quale risulta aperto e discusso, proprio come se volesse dialogare con chi, come noi, se lo pone davanti.
Andiamo, dunque, a dialogo con questo verbo (theoròn); dirigiamoci sotto la Croce e mettiamoci in ascolto “a vedere”.
1 – Un primo percorso etimologico, vuole il verbo “theorèo” composto da “thèa” e “orào”.
1A – “thèa”
La traduzione di questo sostantivo è “il_guardare/vista/osservazione”, da cui il greco (e italiano) “theorìa”. Tuttavia, la radice di “thèa”, ovvero “dhau”, sfocia non solo in un mero “guardare”, ma tende specificamente a “spettacolo” o “rappresentazione teatrale” (cfr. il verbo greco “theàomani” ovvero “guardare/sono_spettatore”, e il sostantivo “theàtron” che non occorre tradurre). Ma ancora più forte è quando la radice “dhau” arriva al verbo “theatrìzo”, che intende “esporre_alle_beffe/alle_risa”.
1B – “orào”
Questo verbo comunemente viene tradotto con “vedere/guardare”, ma la sua radice “fora/vora” ha in sé il concetto di “attenzione”. Per meglio comprendere il senso, ci viene in soccorso il verbo latino “vereor” (cfr. anche l’aggettivo “reverendus”) che significa “riverire/venerare/rispettare”, ma l’accezione è quella di “temere/timore”.
Ebbene, sotto la Croce, guardando le parole che il Crocifisso silente offre con la sua persona, si possono vedere due risposte.
La prima è quella che muove allo sberleffo, alla derisione, al motteggio (thèa), poiché un re che si proclama tale, che addirittura viene celebrato quale Re dell’Universo, si è fatto appendere ad una croce; e non solo ha accettato la croce senza opporre resistenza, dimostrandosi un essere antieroico, ma nessun suddito o esercito si è fatto avanti per accorrere in suo aiuto. Proprio un re fantoccio: il re fantoccio dei fantocci!
La seconda, invece, è quella che muove al doveroso rispetto che si deve ad un Re, al Re dell’Universo che, avendo accettato impavidamente il suo ignominioso martirio, subisce l’infamia più atroce ed ingiusta per salvare i propri figli. Tuttavia, questo devoto e degno rispetto gronda di terrore (orào), poiché il timore che piova dal Cielo la vendetta suprema, la Giustizia Divina, è come una paralisi fulminante che trafigge ogni intima esistenza.
(Ben sapendo lo scrivente che la “Giustizia Divina” non sia né vendetta, né condanna, è gradito lasciarla con l’accezione stretta ed imprecisa che usualmente veicola, al solo scopo di semplificare il discorso)
2 – Un secondo percorso etimologico, vuole il verbo “theorèo” composto da “theòs” e “òra”.
2A – “theòs”
Non dovrebbe essere un problema per il lettore la traduzione di questo sostantivo: in tale caso la cosiddetta “discriminazione fonetica” tra “t” e “d” (così tanto combattuta dalle maestre), invece di essere corretta andrebbe adoperata, poiché “theòs” altro non è che “dio”. Al di là della semplice traduzione, tuttavia, interessante è rapportare “theòs” al contenuto veicolato dal secondo termine analizzato qui appresso.
2B – “òra”
Tale sostantivo ha un ventaglio di traduzione molto dinamico. Leggendolo o ascoltandolo, in italiano ci richiama, giustamente, la parola “ora” come dodicesima parte del giorno; ma tale senso è adoperato per riflesso, rispetto a quanto “òra” significhi primariamente. La traduzione prima, infatti, è “stagione”. Nondimeno il termine “òra”, esprime anche qualsiasi accezione che ruota attorno al concetto di “stagione”, quindi “clima”, o “anno/mese/giorno”, per giungere finalmente alla nostra “ora”; addirittura il termine “òra” ammicca anche alle “stagioni_della_vita”. Recepita questa panoramica paradigmatica, è da precisare, tuttavia, che il sostantivo “òra”, nel proprio sacello, veicola in sé non tanto “stagione” in senso lato, quanto “la stagione” per eccellenza, ovvero la “primavera”. E da ciò derivano tutte le sfumature di significato che portano “òra” a profumare di “bellezza/ornamento” (cfr. “oraìzo”), oppure ad intendere “tempo_opportuno/favorevole” ovvero “maturo”, ma anche a veicolare il concetto di “stagione_della_raccolta/della_messe/dei_frutti” (cfr. “oràios”). Se ben riflettiamo, infatti, la potenza della “maturità” ha una duplice estensione di magnificenza: essa è straordinaria in sé, poiché veicola le doti di “bellezza” e di “pienezza” apicali, ma l’esplosione definitiva di tali caratteri può dirsi “compiuta”, solo quando essi si offriranno alla “mietitura”.
Ecco, allora, che si vede una terza voce di risposta dal Crocifisso a cui si presta lo sguardo.
Il Re dell’Universo non è semplicemente un sovrano: Egli è Dio (theòs)! Ed è bello (òra), il più bello di tutto il bello che si può concepire, anche se sta inchiodato sulla Croce. Anzi: è il più bello proprio perché è inchiodato sulla Croce, poiché è solo da lì che può sbocciare la Primavera Eterna; poiché è proprio la Croce il tempo opportuno senza il quale non può esserci Risurrezione; è proprio la Croce il tempo maturo per farsi messe, per farsi mietere, affinché Dio possa divenire nutrimento di Vita Eterna ai suoi figli!
Il Crocifisso non è muto, non è silenzioso, non è sottacente. Egli ascolta le nostre domande, i nostri dubbi, le nostre richieste, persino le nostre imprecazioni.
E ci risponde.
A tutto risponde!
Ma attendersi parole dal Crocifisso non è l’approccio giusto.
Per ascoltarlo occorre guardarlo, solo guardarlo, anzi: Egli vuole essere contemplato, come si contempla un ramo fiorito e una fronda fruttuosa.
E come la consistente dolcezza di un frutto e il rosso acceso di un petalo gemmato, pur non possedendo facoltà di parola, gridano di profumo e di sapore, così nostro Signore Gesù Cristo, inchiodato sulla Croce, ci parla di bellezza col suo volto muto e sfigurato, e ci porge risposte di amore col suo corpo forato e “ammostato”.
Altro trono non può esserci per il Re dell’Universo, se non la Sovranità della Croce!
Ma il Signore Gesù, inchiodato sulla Croce, lascia libero colui che lo guarda
– sia di vivere nella paralisi del terrore, temendo l’ira divina su ogni azione umana che non sia devozione, ma che, in realtà, viene vissuta come devozionismo (che non è assolutamente adesione e sottomissione a Dio, quanto piuttosto un sentimento soggettivo di gratificazione spirituale puramente personale, a livello emotivo e sentimentale);
– sia di beffeggiarlo e di sputargli in faccia, considerandolo una farsa, una favola, un personaggio dei fumetti, l’antieroe misero e pietoso di un romanzo di fantasia, peraltro di basso conto (forse confondendo “Gesù Cristo Re dell’Universo” con “He-Man and the Masters of the Universe”).
Ma “mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza”, a noi il coraggio, la forza e la franchezza di predicare “Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani” (cfr. 1Cor 1, 22-23).
Per gentile concessione di Fabio Quadrini che cura, insieme a sua moglie, anche la rubrica ALLA SCOPERTA DELLA SINDONE: https://unaminoranzacreativa.