“Quando si è messa la propria mano nella mano dei poveri, allora si trova la mano di Dio nella propria.” (Abbé Pierre): la liturgia di questa domenica ci dona di poter comprendere che cosa regala l’amicizia con Dio, quando diventa l’essenziale della nostra vita. Continua la lettura corsiva del vangelo di Luca e anche la Parola che viene spezzata per noi in questa Pasqua domenicale ci spiazza e può condurci ad un’interpretazione poco aderente al messaggio evangelico. Ad una lettura distratta, si potrebbero avallare le opinioni di quanti dicono che il cristianesimo è una religione triste, fatta di rinunce, di penitenze, di privazioni da quanto umanamente è appagante. Certo per un fine più bello: la ricompensa eterna, ma intanto bisogna vivere senza gioia! La parabola che Luca racconta, invece, non vuole dire alla sua comunità, e a noi, che chi è ricco va all’inferno e chi è povero va in paradiso, ossia che chi si gode la vita cade nella perdizione, mentre chi ne è privo ottiene la salvezza, quanto piuttosto mostrarci le conseguenze di un modo di vivere orientato soltanto al proprio ombelico.
v.19: Il racconto parabolico inizia con la presentazione dei due protagonisti e della loro rispettiva situazione. Il primo è una persona che ha molti soldi. Non si dice che i beni di cui dispone siano stati guadagnati in modo disonesto, con usura o sfruttamento, e neppure che conducesse una vita dissoluta; semplicemente si serve dei suoi beni per godersi la vita, senza pensare ad altro. Non si dice il nome del ricco: ciò significa che egli non ha una personalità, ma è solo il tipo, il rappresentante di una categoria ben nota di persone. Il vestito è segno di ricchezza, il banchetto quotidiano è diventato il suo ideale di vita. Oggi potremmo dire che vestiva firmato da capo a piedi; la povertà interiore ha bisogno di esprimersi nel lusso esteriore. «E ogni giorno si dava a lauti banchetti»: quindi una fame insaziabile; è la fame interiore che crede di sopire ingurgitando dei cibi.
v.20: Il narratore presenta un secondo personaggio: si tratta non solo di un povero, ma di uno che vive chiedendo l’elemosina: alla povertà si unisce dunque la vergogna della dipendenza dalla pietà degli altri. Diversamente da quando avviene per il ricco, del povero viene detto il nome, «Lazzaro», che significa “Dio aiuta”. Mediante il nome si mette quindi in luce non solo l’importanza di questa persona, ma anche il fatto che Dio non si dimentica dei miseri ma si prenda cura di loro. Neppure di costui vengono messe in luce particolari prerogative etiche o religiose, ma si dice semplicemente che giace presso l’atrio del ricco, è coperto di piaghe e desidera saziarsi di ciò che cade dalla sua tavola. La struttura della frase lascia intendere che il suo desiderio di saziarsi non è soddisfatto. Il dettaglio dei cani che leccano le sue piaghe non vuole dire che il sollievo a lui negato dagli uomini gli viene prestato dagli animali, ma piuttosto che anche gli animali concorrono ad aggravare la sua sofferenza.
Il confronto tra questi due personaggi tende a presentare il primo come uno che, al di là delle modalità con cui si è procurato le sue ricchezze, è un egoista, tutto dedito al godimento dei suoi beni, senza alcun interesse per chi è nel bisogno. In contrasto con le esortazioni di Gesù riportate nel vangelo di domenica scorsa, egli è uno che non invita i poveri a mensa (cfr. Lc 14,13) e non si fa amici con il mammona ingiusto (cfr. Lc 16,9). Ciò non è sufficiente per caratterizzare Lazzaro come uno dei «poveri di JHWH» dell’AT, emarginati e oppressi dai potenti, che ripongono solo in Dio la loro fiducia. Egli è semplicemente un povero, e come tale oggetto della benevolenza di Dio, come appunto dice il suo nome (cfr. Lc 6,20). In contrasto con le convinzioni del suo tempo, per Gesù la ricchezza non è dunque un segno della benevolenza di Dio e la povertà un castigo, ma viceversa è la povertà che attira su chi la subisce l’attenzione e l’aiuto di Dio.
v.22-23: La parabola non va considerata come una descrizione dell’oltretomba e di ciò che capita dopo la morte. Su questo punto Gesù si serve delle immagini del suo tempo non per confermarle con la sua autorità, ma per insegnare come l’uso sbagliato dei beni terreni porti già quaggiù alla perdizione. Con essa egli intende quindi dire una parola per questo mondo, dove il regno di Dio è stato annunziato e inaugurato dalla sua venuta. L’uomo che sulla terra aveva come unica compagnia gli esseri più impuri, i cani, viene portato dagli angeli, cioè gli esseri più puri, quelli più vicini a Dio. Per comprendere bene questa parabola di Gesù, notiamo che è rivolta ai farisei che si beffavano di Gesù che aveva detto che non è possibile servire Dio e il denaro, e, proprio perché rivolta ai farisei, Gesù parla con le categorie farisaiche del premio e del castigo da ricevere nell’aldilà. E lo fa secondo un libro conosciutissimo a quell’epoca, il libro di Enoch, dove il regno dei morti veniva considerato un grande baratro, dove il punto più luminoso era il seno di Abramo, il punto più oscuro era dove andavano a finire i malvagi. Il ricco va semplicemente a finire sotto terra, magari dopo un sontuoso funerale. L’Ade (she’ol per gli ebrei), dove fa a finire il ricco, è la dimora dei morti, solitamente concepita come un luogo sotterraneo dove costoro conducono una vita amorfa, quali ombre evanescenti, privi d’ogni gioia (cfr. Is 14,8-11); qui invece con questo termine viene designata la “geenna”, il luogo in cui gli empi sono afflitti da orribili tormenti (cfr. Is 66,24; Sir 21,9-10). In sintonia con la logica del Magnificat (Lc 1,53) e delle beatitudini (Lc 6,20.24) si è verificato un capovolgimento radicale della situazione: in base alla legge del contrappasso, il ricco soffre nell’inferno una sete indicibile. Il ricco di questa parabola non viene condannato per essere stato malvagio nei confronti del povero, per averlo maltrattato, ma semplicemente non si è accorto della sua esistenza. Solo adesso, quando è nel bisogno, finalmente se ne accorge.
vv.24-26: I ricchi non cambiano, i ricchi sono animati da una perversione che non è possibile sradicare dalla loro esistenza. E infatti non chiede, ancora comanda, “«’Padre Abramo, mostrami pietà’»”, mostrami misericordia, e ordina, “«’Manda Lazzaro’»”, lui, il ricco pensa che tutto gli sia dovuto. Lui si serve delle persone, non ha mai servito. È questo il fulcro dell’insegnamento di questa domenica: la ricchezza non è un male in sé e non è automatico che essa porti alla rovina. Quello che è determinante è l’uso che di essa ne fa un cuore che ha come unico orizzonte se stesso. L’egoismo è la causa di ogni rovina. Abramo gli risponde, sempre secondo la teologia farisaica, con il fatto del premio e del castigo. E quindi, come in terra vivevano su due mondi differenti dove non si incontravano, adesso sono su due mondi completamente distanti.
vv.27-28: Ecco l’egoismo del ricco, l’egoismo che non si può sradicare, che arriva fino in fondo. Gli interessa soltanto la sua famiglia, non dice “mandalo al popolo, alla gente, mandalo ad annunciare cosa succede se accumulano denari, se non pensano agli altri”. No, il ricco è incurabilmente egoista, pensa soltanto a sé stesso e che tutto gli sia dovuto. Allora manda ai suoi fratelli, alla sua famiglia, degli altri non gli interessa.
v.29-30: L’accenno che l’evangelista Luca fa al morto che ritorna in vita è importante per i lettori cristiani: sebbene venerino come loro Salvatore uno che è effettivamente risuscitato dai morti, anche loro ritrovano la volontà di Dio nelle Scritture di Israele, che Gesù non ha abrogato ma ha portato a compimento (cfr. Lc 16,17; 24,44). Non c’è bisogno di segni speciali per capire la verità di ciò che è contenuto nei Libri sacri. Gesù stesso non ha inteso mettere in discussione la legge, ma semplicemente l’ha portata a compimento, dando con le sue parole e la sua vita una chiave di lettura molto precisa. Egli ha insegnato ad andare al cuore della legge, mettendo in secondo piano tutto ciò che non ha riferimento diretto con l’amore, come risulta molto bene dalla parabola del buon samaritano (cfr. Lc 10,25-37).
La liturgia, allora, ci racconta una storia, non la descrizione letterale dell’aldilà. Una storia che vuole svegliare la responsabilità, farci capire che tutto si gioca sulla porta del nostro essere, nella nostra capacità di vedere chi sta davanti e conta non su una parentela, un obbligo di riconoscenza o una promessa di vantaggi, ma solo sulla nostra fraternità. Dobbiamo avere una porta che custodisca noi stessi e le nostre relazioni più intime. Ma quando il nostro relazionarci col mondo è guidato solo dai nostri interessi, i lazzari si moltiplicano alla nostra porta. È adesso il tempo di superare l’abisso. Perché Dio abita dalla parte di Lazzaro. Tutto si decide sulla nostra soglia personale, familiare, parrocchiale, cittadina, nazionale, continentale. È la porta giubilare esistenziale. Questa è la vera avventura umana.
“Ciò che rende felice un’esistenza, è avanzare verso la semplicità: la semplicità del nostro cuore e quella della nostra vita. Perché una vita sia bella, non è indispensabile avere capacità straordinarie o grandi possibilità: l’umile dono della propria persona rende felici. Quando la semplicità è intimamente legata alla bontà del cuore, anche l’essere umano più sprovvisto può creare un terreno di speranza attorno a sé” (Frère Roger).
Appendice
Fate dei poveri i vostri avvocati
“Un tale era ricco e si vestiva di porpora e bisso e banchettava ogni giorno splendidamente. E c`era un mendicante, di nome Lazzaro, pieno di piaghe, che se ne stava per terra alla porta del ricco” (Lc 16,19). Alcuni credono che il Vecchio Testamento sia più severo del Nuovo ma si sbagliano. Nel Vecchio, infatti, non è condannato il non dare, ma la rapina. Qui, invece, questo ricco non è condannato per aver preso l`altrui, ma per non aver dato il suo. Non si dice ch`egli abbia fatto violenza a qualcuno, ma che faceva pompa dei beni ricevuti. Si può capire, quindi, quale pena dovrebbe meritare colui che ruba l`altrui, se è già condannato all`inferno colui che non dona il proprio. Nessuno perciò si assicuri dicendo: Non ho rubato nulla, mi godo ciò che m`è stato legittimamente assegnato, poiché questo ricco non è stato punito per aver rubato, ma perché si abbandonò malamente alle cose che aveva ricevuto. Lo ha condannato all`inferno quel suo non essere guardingo nella prosperità, il piegare i doni ricevuti al servizio della sua arroganza, il non aver voluto redimere i suoi peccati, pur avendone tutti i mezzi…
Ma bisogna far bene attenzione anche al modo di narrare usato dalla Verità, quando indica il ricco superbo e l`umile povero. Si dice infatti: “Un tale era ricco“, e poi si aggiunge subito: “E c`era un povero di nome Lazzaro“. Certo, tra il popolo son più noti i nomi dei ricchi, che quelli dei poveri. Perché allora il Signore, parlando di un ricco e di un povero, tace il nome del ricco e ci dà quello del povero? Certo, perché il Signore riconosce e approva gli umili e ignora i superbi. Perciò dice anche ad alcuni che s`insuperbivano dei miracoli da loro operati: “Non vi conosco; andate via da me, gente malvagia” (Mt 7,23). Invece di Mosè è detto: “Ti conosco per nome” (Es 33,12). Del ricco, dunque, dice: “Un tale ricco“; del povero, invece: “Un mendicante di nome Lazzaro“, come se volesse dire: Conosco il povero, umile, non conosco il ricco, superbo; quello lo approvo riconoscendolo, questo lo condanno rifiutando di conoscerlo.
Bisogna anche osservare con quanta attenzione il nostro Creatore disponga tutte le cose. Il fatto è uno solo, ma non dice una cosa sola. Lazzaro, coperto di piaghe, sta innanzi alla porta del ricco. Da questo unico fatto il Signore ricava due giudizi. Forse il ricco avrebbe avuto una scusa, se Lazzaro povero e piagato non fosse stato proprio alla sua porta, se fosse stato lontano, se la sua indigenza non avesse dato perfino fastidio ai suoi occhi. E se il ricco fosse stato lontano dagli occhi del povero malato, questi avrebbe dovuto sopportare una tentazione meno grave. Ma ponendo il povero e malato alla porta del ricco e gaudente, il Signore, allo stesso tempo, aggrava il titolo di condanna del ricco, che non si commuove alla vista del povero, e fa vedere quanto grande sia la tentazione del povero, che vede ogni giorno lo scialacquio del ricco. Non vedete, infatti, che dura tentazione dovesse essere per il povero non aver neanche il pane, esser malato, e vedere il ricco far feste tra porpora e bisso; sentirsi mordere dalle piaghe e veder quello scialarsela tra tanti beni, aver bisogno di tutto e veder quello che non voleva dar nulla? Che tumulto di tentazioni dev`essere stato nel cuore del povero, per il quale poteva essere già abbastanza la sola pena della povertà, anche se fosse stato sano; e poteva essere abbastanza la malattia, anche se avesse avuto dei mezzi. Ma perché il povero fosse maggiormente provato, fu afflitto contemporaneamente dalla malattia e dalla povertà. Vedeva il ricco muoversi sempre in mezzo a uno stuolo di gente, e lui nessuno lo visitava. E che nessuno lo avvicinasse lo attestano i cani che ne leccavano le piaghe.
“Morì poi il mendicante e fu portato dagli angeli tra le braccia di Abramo. Morì anche il ricco e fu gettato nell`inferno” (Lc 16,22). Così proprio quel ricco, che in questa vita non volle aver compassione del povero, ora, condannato, ne cerca l`aiuto. Viene aggiunto, infatti: “Alzando gli occhi dai suoi tormenti, vide lontano Abramo e Lazzaro tra le sue braccia e gridò: Padre Abramo, abbi pietà di me. Di` a Lazzaro che metta il suo dito nell`acqua e ne faccia cadere una goccia sulla mia bocca, perché io brucio in questa fiamma” (Lc 16,23-24). Oh, quant`è sottile il giudizio di Dio! E quant`è misurata la distribuzione dei premi e delle pene! Lazzaro avrebbe voluto le briciole che cadevano dalla mensa del ricco, e nessuno gliele dava; ora il ricco, nel supplizio, vorrebbe che Lazzaro facesse cadere dal dito una goccia d`acqua sulla sua bocca. Vedete, vedete, allora, fratelli, quanto sia stretta la giustizia di Dio. Il ricco non volle dare al povero piagato la più piccola porzione della sua mensa, e nell`inferno è ridotto a chiedere la più piccola delle cose. Negò le briciole e chiede una goccia d`acqua…
Ma voi, fratelli, conoscendo la felicità di Lazzaro e la pena del ricco, datevi da fare, cercate degli intermediari e fate in modo che i poveri siano vostri avvocati nel giorno del giudizio. Avete ora molti Lazzari; stanno innanzi alla vostra porta e hanno bisogno di ciò che ogni giorno, dopo che voi vi siete saziati, cade dalla vostra mensa. Le parole del libro sacro ci devono disporre ad osservare i precetti della pietà. Se lo cerchiamo, ogni giorno troviamo un Lazzaro; ogni giorno, anche senza cercarlo, vediamo un Lazzaro. (Gregorio Magno, Hom., 40, 3 s.10)
Ricchezza e povertà
Perché mai un uomo è ricco e un altro è povero? Non lo so; e ti dico subito che l`ignoro, per insegnarti che non tutte le cose possono essere controllate e che niente è abbandonato al capriccio del caso. D`altra parte, se si ignora la vera ragione delle cose, non si ha ugualmente il diritto di inventare una spiegazione fantastica. E` meglio infatti non conoscere, piuttosto che conoscere male. Chi riconosce di non sapere, si lascia con facilità istruire; chi invece, non conoscendo la ragione delle cose, inventa una falsa scienza, si allontana ancor più dal vero, in quanto per essere poi istruito è necessario dapprima che le sue false idee siano cancellate. Senza fatica si può scrivere ciò che si vuole su un foglio di carta bianca; ma se il foglio è già scritto, è molto più faticoso scrivervi di nuovo, perché occorre prima cancellare quanto è stato scritto male. E` preferibile il medico che non dà alcuna ricetta a quello che prescrive rimedi dannosi. Un architetto che costruisce malamente è peggiore di colui che non posa neppure una pietra. Infine vale di più una terra che non produce di quella che produce spini. Non cerchiamo quindi di conoscere tutto; rassegniamoci a ignorare qualcosa, di modo che se troviamo un maestro non gli daremo doppio lavoro. Vi sono persone cadute in dottrine false, che è pressoché impossibile correggere. Non è lo stesso lavoro seminare in un campo pieno di vecchie radici che dobbiamo strappare, anziché in una terra che non è stata mai coltivata. Così, quando si hanno erronee concezioni, è necessario sradicarle dalla mente, prima di poter ricevere la verità, ma, se non si hanno pregiudizi, l`intelletto è ben preparato ad accogliere la verità. Detto questo, rispondo alla vostra domanda: alcuni sono ricchi perché Dio ha donato loro queste ricchezze, oppure ha permesso che ne dispongano; altri ancora le posseggono per un`altra sua segreta disposizione. Questa spiegazione, come vedete, è breve e semplice. Ma voi insistete a chiedermi: Come mai Dio rende ricco quest`uomo malvagio, adultero, frequentatore di luoghi malfamati e che fa cattivo uso dei suoi beni? Non è che Dio – vi rispondo – rende ricco quest`uomo, è che lo permette. La differenza che esiste tra fare e permettere è assai grande, anzi immensa. Ma perché – voi direte ancora – Dio tollera questo? Perché non è ancora giunto il momento del giudizio, quando ciascuno riceverà ciò che merita. Quale colpa è più odiosa di quella del ricco che non volle dare al povero Lazzaro nemmeno le briciole della sua mensa? (cf. Lc 16,19ss). Ebbene, egli ha ricevuto la punizione più terribile di tutti, dato che, essendo stato crudele nella sua ricchezza, non ottenne neppure una goccia d`acqua. Così, se due persone sono ugualmente malvagie, ma non godono qui in terra degli stessi beni, essendo l`una ricca e l`altra povera, non saranno ugualmente punite all`inferno, ma il ricco soffrirà molto più del povero.
Non vedete, infatti, che questo ricco malvagio è punito nell`altra vita assai più severamente, in quanto durante la sua vita ha ricevuto la sua parte di beni? Ebbene, quando voi vedete un ricco malvagio godere di ogni sorta di piaceri, piangete e compatite la sua sorte, perché tutta quella ricchezza serve ad accrescere il suo castigo. (Giovanni Crisostomo, In Matth., 75, 4 s.)
Di chi è la ricchezza?
A chi faccio torto, dici, se mi tengo il mio? Ma, dimmi, che cosa è tua? Che cosa hai portato tu alla vita? Come se uno, avendo preso prima un posto in un teatro, poi cacci via quelli che entrano, pretendendo che sia suo ciò che è fatto a beneficio di tutti; così sono i ricchi. Occupano i beni comuni e ne pretendono la proprietà perché li hanno occupati prima. Se invece ognuno prendesse solo ciò che è necessario al proprio bisogno e lasciasse agli altri ciò che non gli serve, nessuno sarebbe ricco e nessuno sarebbe povero. Non sei uscito nudo da tua madre? Non tornerai nudo nella terra? Da che parte ti son venuti i beni che hai? Se dici che ti vengono dal fato, sei un empio, perché non riconosci il Creatore e non sei grato a chi te li ha dati; se dici che ti vengono da Dio, spiegaci perché te li ha dati. Può essere ingiusto Dio, che darebbe inegualmente le cose necessarie alla vita? Perché, mentre tu sei ricco, l`altro è povero? Non forse perché tu possa avere la mercede del giusto e fedele dispensatore e l`altro acquisti il grande premio della pazienza? Tu invece abbracci tutto nelle insaziabili pieghe dell`avarizia e mentre privi tanta gente, credi di non far torto a nessuno. Chi è l`avaro? Colui che non è contento di quanto basta. Chi è il saccheggiatore? Chi prende la roba degli altri. Non sei avaro? non sei un saccheggiatore? Tu ti appropri di ciò che hai ricevuto per dispensarlo. Sarà chiamato ladro chi spoglia uno che è vestito e non meriterà lo stesso titolo colui che, potendo vestire un nudo, non lo veste? E` dell`affamato il pane che tu possiedi; è del nudo il panno che hai negli armadi; è dello scalzo la scarpa che s`ammuffisce in casa tua; è dell`indigente l`argento che tu tieni seppellito. Quanti sono gli uomini ai quali puoi dare, tanti son coloro cui fai torto. (Basilio di Cesarea, Hom., 12, 7)
«C’era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente»: così incomincia la parabola narrata da Gesù nel vangelo odierno. Quest’uomo è senza nome, è definito unicamente da ciò che possiede; egli ammassa avidamente beni per sé, illudendosi forse di difendersi in questo modo dalla paura della morte, come se avere molte cose potesse impedire l’evento che lo attende al termine della sua esistenza. E così, accecato dalla sua brama idolatra, non si accorge della presenza alla sua porta di «un povero di nome di Lazzaro, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla sua tavola».
Il comportamento di questo ricco ha un nome preciso: ingiustizia, quella denunciata dai profeti dell’Antico Testamento (cf. Am 6,1-7;Ger 22,13-19; Ab 2,6-11), da Gesù («Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati … Guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione»: Lc 6,21.24), dagli apostoli (cf. Gc 2,5-9; 5,1-6); quell’ingiustizia che si manifesta nell’accumulare una quantità smisurata di ricchezze, finendo per privare gli altri addirittura del minimo necessario di sussistenza. Oggi queste parole suonano stonate ai nostri orecchi, non vogliamo più ascoltarle, abituati come siamo alla presenza di poveri resi tali dalla nostra ricchezza non più percepita come ingiusta. Eppure per Dio non è così, «Dio aiuta» (questo significa il nome Lazzaro) i poveri, le vittime della storia: sì, ci sarà un giudizio di Dio alla fine dei tempi, nel quale Dio ci chiamerà a rendere conto del nostro comportamento e «renderà a ciascuno secondo le sue azioni» (cf. Sal 62,13; Rm 2,6; Ap 2,23)! È così, anche se noi ci ostiniamo a rimuovere tale prospettiva…
Ecco infatti che Gesù continua: «un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto». A questo ribaltamento delle sorti terrene segue un dialogo tra il ricco e Abramo. In mezzo ai tormenti, il primo si rivolge al patriarca chiedendogli innanzitutto di «mandare Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e bagnargli la lingua», per lenire le sue sofferenze. Ma si sente rispondere: «Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali». Con queste parole Gesù non vuole impaurirci o descrivere «le pene dell’inferno», come siamo soliti pensare, ma semplicemente ricordarci che nella vita può esserci un «troppo tardi»: occorre vivere il presente come l’oggi di Dio, sapendo che il giudizio finale si gioca per ciascuno di noi qui e ora, perché l’ultimo giorno non farà che svelare la qualità della nostra vita quotidiana…
Ma il ricco insiste, pregando Abramo di inviare Lazzaro ad avvertire i suoi fratelli di cambiare vita, ammonendoli su ciò che li attende nell’aldilà della morte. Egli è convinto che «se qualcuno dai morti andrà da loro, si convertiranno». Si sente però rispondere: «Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro … Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi». La fede non si fonda su miracoli o su eventi straordinari, ma sull’ascolto della Parola di Dio (cf. Rm 10,17). Non si dimentichino in proposto le parole rivolte da Gesù risorto ai discepoli sgomenti e increduli: «Bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi» (Lc 24,44).
Sì, la nostra fede è generata dall’ascolto della Parola di Dio contenuta nelle Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento, rilette alla luce della vita di Gesù, quella vita all’insegna della comunione e dell’amore che lo ha condotto alla vittoria sulla morte, alla resurrezione.
E la fede, se è autentica, è «fede operante mediante l’amore» (Gal 5,6), si traduce cioè in azioni concrete ispirate dall’amore fraterno. È infatti l’amore l’unica realtà su cui saremo giudicati al termine della nostra vita: l’amore che può dare senso ai nostri giorni sulla terra, l’amore che è qui e ora condivisione dei beni in modo che siano distribuiti «a ciascuno secondo il suo bisogno» (At 4,35). Ma ricordiamolo: «se uno ha ricchezze nel mondo e, vedendo il proprio fratello nel bisogno, gli chiude il cuore, come può l’amore di Dio rimanere in lui?» (1Gv 3,17). (Enzo Bianchi)
Cari fratelli e sorelle!
Oggi il Vangelo di Luca presenta la parabola dell’uomo ricco e del povero Lazzaro (Lc 16,19-31). Il ricco impersona l’uso iniquo delle ricchezze da parte di chi le adopera per un lusso sfrenato ed egoistico, pensando solamente a soddisfare se stesso, senza curarsi affatto del mendicante che sta alla sua porta. Il povero, al contrario, rappresenta la persona di cui soltanto Dio si prende cura: a differenza del ricco, egli ha un nome, Lazzaro, abbreviazione di Eleazaro, che significa appunto “Dio lo aiuta”. Chi è dimenticato da tutti, Dio non lo dimentica; chi non vale nulla agli occhi degli uomini, è prezioso a quelli del Signore. Il racconto mostra come l’iniquità terrena venga ribaltata dalla giustizia divina: dopo la morte, Lazzaro è accolto “nel seno di Abramo”, cioè nella beatitudine eterna; mentre il ricco finisce “all’inferno tra i tormenti”. Si tratta di un nuovo stato di cose inappellabile e definitivo, per cui è durante la vita che bisogna ravvedersi, farlo dopo non serve a nulla.
Questa parabola si presta anche ad una lettura in chiave sociale. Rimane memorabile quella fornita proprio quarant’anni fa dal Papa Paolo VI nell’Enciclica Popolorum progressio. Parlando della lotta contro la fame, egli scrisse: “Si tratta di costruire un mondo in cui ogni uomo … possa vivere una vita pienamente umana … dove il povero Lazzaro possa assidersi alla stessa mensa del ricco” (n. 47). A causare le numerose situazioni di miseria sono – ricorda l’Enciclica – da una parte “le servitù che vengono dagli uomini” e dall’altra “una natura non sufficientemente padroneggiata” (ibid.). Purtroppo certe popolazioni soffrono di entrambi questi fattori sommati. Come non pensare, in questo momento, specialmente ai Paesi dell’Africa subsahariana, colpiti nei giorni scorsi da gravi inondazioni? Ma non possiamo dimenticare tante altre situazioni di emergenza umanitaria in diverse regioni del pianeta, nelle quali i conflitti per il potere politico ed economico vengono ad aggravare realtà di disagio ambientale già pesanti. L’appello cui allora diede voce Paolo VI: “I popoli della fame interpellano in maniera drammatica i popoli dell’opulenza” (Popolorum progressio, 3), conserva oggi tutta la sua urgenza. Non possiamo dire di non conoscere la via da percorrere: abbiamo la Legge e i Profeti, ci dice Gesù nel Vangelo. Chi non vuole ascoltarli, non cambierebbe nemmeno se qualcuno dai morti tornasse ad ammonirlo.
La Vergine Maria ci aiuti ad approfittare del tempo presente per ascoltare e mettere in pratica questa parola di Dio. Ci ottenga di diventare più attenti ai fratelli in necessità, per condividere con loro il tanto o il poco che abbiamo, e contribuire, incominciando da noi stessi, a diffondere la logica e lo stile dell’autentica solidarietà. (Papa Benedetto XVI, Angelus del 30/09/2007)
Fonte: Figlie della Chiesa