Commento al Vangelo di domenica 22 Settembre 2019 – Comunità di Pulsano

Lectio Divina di domenica 22 Settembre 2019 a cura della Comunità monastica di Pulsano.

Domenica «DELLA PARABOLA DEL FATTORE DISONESTO»

L’annuncio del regno di Dio, del suo amore che salva, viene fatto in un mondo diviso tra ricchi e poveri. È un annuncio che sconvolgendo l’intimo dell’uomo, sconvolge anche un certo tipo di ordine sociale.

C’è una falsa religione che i profeti non hanno mai cessato di denunciare: la religione di chi crede di avere la coscienza a posto con poca fatica, col compimento di riti e pratiche esteriori di culto. Spesso questa è una apparenza di religiosità che serve da copertura allo sfruttamento dei poveri. Nella prima lettura compaiono ricchi commercianti che fanno il riposo del sabato, in cui era proibito il commercio, pensando come imbrogliare i poveri e come frodare sulla merce o sui prezzi. Per il ricco accogliere l’annuncio del regno è trasformare i beni da oggetto di preda in mezzo di amicizia e di comunione. Già abbiamo ascoltato (domenica XXIII) l’invito di Gesù a vendere tutto e darlo ai poveri. Qui ci viene detto: «Procuratevi amici con la disonesta ricchezza».

L’amicizia che il ricco deve costruire non è frutto del suo buon cuore, ma esigenza e dovere che gli deriva da ciò che possiede. Ciò che egli dona non deve avere l’aspetto di un’elemosina. Il povero nella comunità cristiana ha dei diritti che vanno soddisfatti. Il ricco deve sentirsi più un attento amministratore dei beni che un proprietario.

«Non sei forse un ladro, afferma san Basilio, tu che delle ricchezze di cui hai ricevuto la gestione, ne fai cosa tua propria?… All’affamato appartiene il pane che tu conservi, all’uomo nudo il mantello che tieni nel baule, a chi va scalzo le scarpe che marciscono a casa tua, al bisognoso il denaro che tu tieni nascosto. Così tu commetti tante ingiustizie quanta è la gente cui potevi donare».

Continua sant’Ambrogio: «È giusto perciò che, se rivendichi qualche cosa come privata di ciò che è stato dato in comune (la terra) al genere umano e persino a tutti gli animali, almeno tu ne distribuisca qualcosa ai poveri: sono partecipi del tuo diritto, non negare loro gli alimenti».

Ciò che i Padri predicano riferendosi a casi della propria chiesa ora investe popoli, nazioni, milioni di persone. Nazioni o gruppi multinazionali esercitano il controllo sulla ricchezza con una libertà indiscussa, continuano a fare della ricchezza la fonte della divisione e ad approfittare di queste divisioni per il loro dominio economico. I capitali si spostano da un paese all’altro dove migliore può essere l’incentivo al guadagno. Milioni di lavoratori rurali non hanno né diritto né possibilità di accedere a terre che pure sono loro, mentre grandi proprietari tengono incolte le loro terre in vista di un migliore sfruttamento o di una più grande sorgente di guadagno.

Dall’eucologia:

Antifona d’Ingresso

«Io sono la salvezza del popolo»,

dice il Signore,

«in qualunque prova mi invocheranno, li esaudirò,

e sarò il loro Signore per sempre».

L’antifona d’ingresso è un centone di reminiscenze bibliche. Il Signore si proclama solennemente come l’unica Salvezza per il popolo suo, il popolo della sua alleanza. E promette che non esiste tribolazione da cui non salvi, se invocato, esaudendo sempre, intervenendo con potenza, in modo da ristabilire l’alleanza fedele. Egli vuole essere «il Signore di essi», e vuole che essi siano «il popolo di Lui», in eterno (Ger 14,8; Sal 4,2; 49,15).

Canto all’Evangelo 2 Cor 8,9

Alleluia, alleluia.

Gesù Cristo da ricco che era, si è fatto povero per voi,

perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà.

Alleluia.

Il canto all’evangelo ci aiuta a comprendere da dove viene il tesoro delle nostre grazie. Da Cristo Dio, fattosi volontariamente povero, fino al suo abbandonarsi alla Croce, affinché da questa sua estrema miseria venisse la ricchezza salvifica degli uomini.

Oggi più che mai, il denaro occupa un posto molto importante nella vita degli uomini, nonostante la svalutazione. Anche nei momenti più difficili ci sono abili speculatori che sanno prevedere le fluttuazioni del mercato dei cambi, e spostano i loro capitali realizzando notevoli profitti. È gente che suscita comunque una certa ammirazione, anche se non si possono approvare i loro traffici: ci sanno fare, agiscono con destrezza e con intelligenza, hanno «successo» nella vita.

Nel caso dell’amministratore della parabola, che non solo sperpera i beni del suo padrone, ma arriva fino a falsificare la contabilità, è evidente che Gesù non ammira la sua mancanza di scrupoli, quanto piuttosto la sua sagacia e la sua abilità. Quando la fortuna gli volta le spalle, egli sa approfittare del breve spazio di tempo che gli rimane per farsi degli amici che si ricorderanno di lui, quando il padrone l’avrà messo alla porta. Un uomo previdente, di un’accortezza esemplare! L’abilità di un truffatore negli affari di questo mondo non potrebbe essere anche la nostra nella conquista del regno di Dio? Gesù si sofferma quindi ad indicare qual è l’investimento fruttuoso, quale deve essere l’abilità cristiana nel campo della «ricchezza disonesta» e ingannatrice, che con la sua terribile forza di attrazione è capace di indurci a fare di essa il nostro idolo, tributandole un culto che è dovuto soltanto a Dio. Di questo cattivo padrone bisogna essere buoni servitori. In che modo? Usandone con disinteresse e generosità, al servizio dei più poveri. Questo significa evangelizzare il nostro senso della proprietà, troppo spesso pagano. In sintesi, si tratta di restituire al denaro il suo ruolo di mezzo e non di fine.

La pericope odierna fa ancora parte di quel «grande inciso», il blocco, proprio solo di Luca, che si chiama la «salita a Gerusalemme» (Lc 9,51 – 19,28), la cui proclamazione si estende dalla Domenica XIII alla Domenica XXXI. Questo itinerario è l’”esodo” del Figlio verso il Padre (Lc 9,31), e si consuma con la Croce e con la Resurrezione.

Lungo la strada, Cristo Signore battezzato dallo Spirito Santo e così inviato dal Padre a compiere il ministero messianico che consiste in via principale nell’annuncio dell’Evangelo e nelle opere della Carità del Regno. Gesù moltiplica gli insegnamenti salvifici, in specie con ripetute catechesi sulla povertà e sullo spossessamento, integrando però questa dottrina anche con quella del buon uso delle ricchezze, del lavoro, dei beni terreni in genere.

È noto che Luca ha tra i suoi argomenti preferiti il pregio della povertà e il pericolo della ricchezza, sicché il suo evangelo potrebbe ugualmente essere definito l’evangelo dei poveri o l’evangelo dei ricchi perché gli uni e gli altri, sia pure in direzioni diverse, hanno di che imparare per la loro salvezza.

La comunità per cui è scritto il terzo evangelo non si può ragionevolmente immaginare che sia composta solo di poveri e di sprovveduti di tutto; nel suo seno deve esistere, sia pure sottoposto a certe norme severe, anche chi possiede beni e li lavora e chi produce ricchezza per sé e per gli altri. Questo è stato compreso bene solo dal primo monachesimo, che, accettando in via di principio e con rigore la povertà e lo spossessamento, tanto più poneva come regola di vita «pregare e lavorare» con le proprie mani per sostentarsi e per procurarsi di che fare l’elemosina a Cristo nei poveri, imitando in questo anche l’apostolo Paolo.

I Lettura:  Am 8,4-7

Il lezionario avvicina all’evangelo il libro di Amos, grande e indomabile profeta, che è l’opera di un “contadino”, raccoglitore di sicomori (7,14ss) e allevatore di bestiame (1,1), che nell’VIII sec. a. C (783 – 745) arriva nel regno del Nord e vi scopre, dietro le apparenze, le ingiustizie e le miserie che soffrono i poveri. Acceso di santo sdegno, proclama il castigo di un Dio giusto, ma pronto a perdonare.

Il brano di questa Domenica và letto in un contesto più ampio dei vv. liturgici proposti; è la 4a visione che Dio concede al profeta per chiamare all’ascolto Israele. È un compendio moderno di economia e commercio, che vede solo il profitto puro a costo di qualsiasi disonestà: rincaro dei prezzi, riduzione delle misure commerciali, sofisticazioni dei prodotti. Ieri come oggi!

Le autorità guardano incuranti; anche quelle spirituali non intervengono.

Interviene però Dio per bocca del profeta.

Il profeta Amos dal regno di Giuda è salito nel regno scismatico e traviato d’Israele, inviato dal Signore affinché anche lì risuoni il grido alto ed esigente della Parola divina. Naturalmente il suo annuncio è aspro e sgradevole, e lui è accolto male dal re, dai sacerdoti del re, dalla corte, dai ricchi e viziosi: perché fustiga senza riguardo gli egoismi dei ricchi e sazi e le loro violenze contro i poveri. Questo è fissato in pagine indimenticabili (vedi Am 4,1-3, sulla cruda sorte delle donne ricche, meglio sarebbe in una traduzione letterale dell’ebraico). Il Profeta riceve dal suo Signore tre visioni, che annuncia e spiega. A motivo della terza di esse è espulso da Betel. Proprio in quell’antico santuario dei Patriarchi, posto nel meridione quasi al confine con Giuda, il re scismatico Geroboamo con astuzia politica, e con suprema malizia contro il culto santo del Signore Unico, aveva eretto uno dei due santuari nazionali, ponendovi come idolo e palladio il vitello; e un altro santuario con vitello aveva posto all’estremo settentrionale, nel santuario di Dan. In tal modo nell’anima del popolo voleva rendere Reversibile lo scisma anche religioso dal santuario unico di Gerusalemme.

Allora il Signore concede al suo Profeta la quarta visione (Am 7,1 -8,3). Questa parola, posta sulla bocca di Amos, ancora una volta è diretta con violenza estrema contro quelli che opprimono i poveri. La violenza del linguaggio esprime la «rabbia profetica». E questa è la reazione contro ogni violazione dei diritti del Signore, anzitutto lesi quando si arreca danno al prossimo. Perciò la rabbia profetica è sempre giusta e santa. Da parte dei profeti è un atto dovuto. Da parte delle autorità e del popolo stesso, se ne tengono conto in tempo, è una via verso la salvezza.

Nella pericope di oggi il Profeta quindi si rivolge con un’apostrofe improvvisa contro quelli che schiacciano i poveri, in specie quelli che vivono nella terra e della terra (8,1), e li chiama all’ascolto (v. 4). Prima usa l’amaro sarcasmo e rifa a essi il verso: adesso noi aspettiamo il mese per vendere, che passi il sabato, poi metteremo sul mercato il grano, ma ridurremo la misura, useremo bilance false, e alzeremo i prezzi, strozzeremo alla gola i poveri per un paio di sandali, e daremo a essi per buono anche il residuo della trebbiatura del grano (vv. 5-6). E un sorprendente compendio moderno di industria produttiva, di finanza, di economia e commercio, che opera solo sotto la legge ladrona del profitto puro, a costo di qualsiasi aggressione alla povera gente e di qualsiasi disonestà: il rincaro sempre ingiustificato dei prezzi, la riduzione illegale delle misure, il commercio a prezzi in aumento, la sofisticazione dei prodotti. Nulla di nuovo sotto il sole. Ieri come oggi. Le autorità guardano tra ignoranti, incuranti, compiacenti e colludenti. Ieri come oggi. Non intervengono mai. Non è affare loro. Ieri come oggi.

Adesso però interviene il Signore per bocca del suo Profeta. Il Signore pronuncia un giuramento irrevocabile, e terribile, contro tutto il suo popolo del settentrione, Giacobbe, che è l’altro nome d’Israele. Poiché in questo perfino il popolo sfruttato e dissanguato è colpevole, esso non ha fatto appello alle sue risorse morali, assiste come complice passivo a tanta infamia. Perciò il Signore fino all’ultimo non si dimenticherà di tutte le loro opere. Infatti è regola che quando il Signore per misericordia si dimentica del male, annulla le realtà colpevoli, perdona e crea altre realtà di bene. Ma quando interviene contro il male, e se ne si ricorda, la punizione sarà inevitabile (v. 7).

E pochi anni dopo verranno gli Assiri.

Il Salmo responsoriale:  112,1-2.4-6.7-8. Inno.

Fanno da versetto responsorio i vv. la e 7b (adattati): Benedetto il Signore che rialza il povero; l’assemblea ripete l’imperativo innico di lodare il Signore, restauratore dei poveri che ama, e sopra i quali pone sempre il suo occhio per custodirli.

L’Orante qui è probabilmente un sacerdote. Egli con due imperativi innici esorta i servi del Signore a lodare Lui e il suo Nome (v. 1; Sal 134,1; Dan 3,85). Quindi proclama la sua benedizione del Nome, che indica la stessa Persona divina. Come si sa, «la benedizione torna sempre sul benedicente e unisce a lui il benedetto». La forza dossologica della benedizione innalza i fedeli, benedicenti o benedetti, fino alla comunione con il Signore benedetto o benedicente (v. 2). Qui la lode riconosce i titoli magnifici e gli attributi potenti del Signore.

Il Signore è riconosciuto e proclamato come trascendente ogni realtà pensabile, al di là di ogni immaginazione delle nazioni (Sal 98,2; 137,6). La sua Gloria è irraggiungibile, più alta dei cieli altissimi (v. 4; Sal 8,2; 56,6.12; 148, 13-14). Perciò l’Orante pone una domanda che contiene la risposta in se stessa, e che quindi vale come una grande confessione di fede: Chi è come il Signore Dio nostro ? L’aggettivo possessivo indica l’alleanza storica. E ovvia la risposta: Nessuno. Egli ha la caratteristica propria solo a Lui, di dimorare al di là dei cieli, è irraggiungibile, perfino con la mente (v. 5).

Tuttavia ha anche l’altra caratteristica, di rendersi presente nella continua manifestazione dell’amore per le sue creature. Egli si occupa e si cura di tutti gli umili, sia degli Angeli nel cielo, sia degli uomini sulla terra (v. 6), sicché nulla sfugge alla sua Sovranità creatrice.

Per questo, Egli interviene a risollevare i più poveri e oppressi dalla terra in cui erano stati prostrati dalla malvagità umana (Sal 10,6; 137,6), e solleva il povero dallo sterco in cui in modo disumano lo avevano abbattuto e prostrato e lo costringono a vivere i ricchi sempre iniqui (v. 7). Allora il Signore innalza questi suoi poveri fino a Lui, li pone davanti a Lui nella sua corte regale, insieme con i capi nobili del suo popolo (Sal 137,23). Poiché tutti i poveri sono nobili, fatti tali da Dio, nella loro immensa dignità (v. 8).

Nella 1 Timoteo una lettera scritta da Paolo durante il suo ultimo viaggio (verso il 65), o forse, in epoca più tarda, da un responsabile della Chiesa. L’apostolo si adopera per sostenere con i suoi consigli l’opera del pastore, responsabile della comunità, in un’epoca in cui i primi testimoni di Cristo cominciano a scomparire. Nel nostro brano come prioritaria preoccupazione, l’autore esorta a pregare per tutti gli uomini; è così presentata una vasta gamma della preghiera: suppliche, preghiere intense, richieste, rendimenti di grazie. Segue l’elenco delle intenzioni: per re e governanti perché assicurino una vita tranquilla e santa al popolo. È il modello della nostra preghiera universale.

Evangelo

La parabola, che è esclusiva di Luca, è una delle più difficili dell’evangelo a motivo di certe asperità per le quali però non si è a corto di soluzioni. Le letture proclamate Domenica scorsa (c.15) ci hanno detto quanto fa per noi colui che è misericordioso con tutti i disgraziati e i cattivi (cfr 6,35). La parabola di oggi risponde alla domanda :«che fare» noi, chiamati a diventare come lui (cfr 6,36)?

La risposta è implicita nei due termini usati per indicare Dio e l’uomo, chiamati rispettivamente il Signore (4 volte) e l’amministratore (7 volte). Ma l’uomo è un amministratore ingiusto, perché si è fatto padrone di ciò che non è suo. Però ora conosce Dio: sa che tutto dona e perdona. Di conseguenza sa «che fare» anche lui: con-donare ciò che in fondo non è suo.

Il c. 16, incluso tra le parabole dell’uso sapiente (l’amministratore saggio) e l’uso stolto dei beni (il «ricco epulone» che verrà proclamata nella Dom. XXVI del Tempo Ord. C), parla dell’amministrazione concreta della propria vita. Toccandone i vari aspetti, le istruzioni si prolungano sino a 17,10, quando Gesù riprende il suo viaggio.

Tra le due parabole abbiamo un breve interludio con i farisei: «I farisei, che erano attaccati al denaro, ascoltavano tutte queste cose e si facevano beffe di lui. Egli disse loro: “Voi siete quelli che si ritengono giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che fra gli uomini viene esaltato, davanti a Dio è cosa abominevole”» (vv.14-15). Sembra dunque che possiamo leggere i testi anche come un insegnamento sul rapporto tra beni e giustizia davanti a Dio.

La pericope è suddivisibile in due sezioni:

  1. un racconto parabolico (vv. 1-9),
  2. la sua attualizzazione attraverso due domande retoriche (vv. 10-11) ed una sentenza proverbiale (vv. 12-13).

Il centro del brano è l’elogio dell’amministratore (v.8), che sfocia nell’esortazione ad agire come lui (v.9).

La parabola ci insegna che anche i beni materiali vanno gestiti per quel che sono, secondo la loro natura di dono. L’evangelista sa che ciò che abbiamo accumulato è frutto di ingiustizia; non l’abbiamo fatto propriamente per puro amore di Dio o del prossimo!

Sa anche che continuiamo a vivere in un mondo che avanza sullo stesso binario (cfr I lettura). In tale situazione siamo chiamati a vivere con il criterio opposto a quello dell’egoismo. Abbiamo capito «che fare»: i beni sono un dono del Padre da condividere tra i fratelli.

Questo è il senso dell’anno sabatico, la cui osservanza è condizione per restare nella terra promessa. L’attività di Gesù, che inizia e finisce di sabato (4,16; 23,56) e si svolge nell’arco di sette sabati, è descritta dal terzo evangelista come realizzazione dell’anno sabatico.

L’ascolto della sua parola ne attualizza «oggi»il compimento (4,21).

Esaminiamo il brano

1 «Diceva anche ai discepoli»: l’istruzione, prima diretta agli scribi e ai farisei, ora si rivolge ai discepoli. Dopo tre parabole dirette ai farisei (cfr. 15,1-2), Gesù si rivolge ora ai discepoli. Il testo non indica i Dodici, i responsabili della comunità, ma tutti coloro che hanno accettato le condizioni del discepolato e stanno seguendo il Maestro. Il testo è scritto, dunque, anche per noi.

«l’uomo ricco »: è il Signore, al quale appartiene «la terra e quanto contiene, l’universo e i suoi abitanti» (Sal 24,1).

«un amministratore»: tutti noi siamo semplici amministratori: «cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come non l’avessi ricevuto?» (1 Cor 4,7). L’amministratore deve agire secondo la volontà del suo padrone altrimenti ecco l’accusa di peccato.

«fu accusato … di sperperare»: Il testo non entra nei dettagli: non sappiamo chi abbia accusato l’amministratore o quali siano le accuse. Il termine “sperperare”, applicato in precedenza allo stile di vita del figlio minore (cfr. 15,13), indica forse un’esistenza dispendiosa. Il risultato è la convocazione dell’amministratore e la comunicazione del suo imminente licenziamento.

2«rendi conto»: La chiamata al rendiconto è la morte, che pone l’uomo davanti a Dio per verificare se è diventato simile a colui del quale è immagine. La vita si valuta solo dal suo fine. Dio accorda del tempo, tutto il tempo necessario per rimediare alla cattiva gestione.

3-4 «disse tra sè»: Utilizzando un monologo interiore, Luca apre per i suoi lettori la mente dell’amministratore, mentre vaglia le poche possibilità rimaste. L’uomo nei guai medita come provvedere al suo futuro per nulla roseo; fa «una bella pensata» diremmo. Non potendo sperare nella generosità del padrone truffato, cerca alleati dalla parte dei suoi clienti.

«Zappare… mendicare»: Le due opzioni “vangare” e “mendicare” rappresentano le occupazioni di chi non ha futuro. Scarta la prima, probabilmente perché richiede un notevole sforzo fisico e la seconda perché fonte di vergogna: «Meglio morire che mendicare» (Sir 40,28).

«So io che cosa farò»: trova una “soluzione”, che Luca non svela fino a quando non sarà posta in atto dall’amministratore.

5-7 La parabola fa due esempi noti a sufficienza, tuttavia può essere utile quantificare con misure più vicine a noi il cambio effettuato.

Per «barile» e «misura» il testo greco dà i nomi ebraici di Bath e Kor su una tavola delle misure di capacità o volume troviamo che il bath = 45 litri e il kor = 450 l (1 kor = 10 bath).

Come si vede, i debiti risultano cospicui e quindi i terreni amministrati erano assai vasti, ma si deve tener presente la predilezione dei narratori orientali per le cifre vistose, adatte a stimolare la fantasia. I numeri 100 – 50 – 80 sono tuttavia numeri simbolici: 100 e 50 della pienezza, 80 (40 x 2) della tensione.

8 – Il fatto viene riportato dal padrone, il quale, uomo fine, loda l’intelligenza applicata alla disonestà, invece di adontarsi.

Mentre noi ci aspetteremmo uno scoppio d’ira, dato che dopo lo sperpero deve ora subire persino la contraffazione dei documenti, il padrone e Gesù con lui – lo loda. Mi sembra importante rilevare che la lode non riguarda la disonestà, ma la scaltrezza, la capacità di usare il poco tempo a sua disposizione per assicurarsi un futuro.

Gesù annota tristemente: «I figli della notte… dei figli della luce (= la generazione che ha avuto l’illuminazione divina. «Figli della notte» è un’espressione semitica che indica coloro i cui orizzonti di vita si chiudono su interessi terreni).

Lo scandalo risiede proprio in queste parole di lode, peraltro perfettamente equilibrate; accanto alla lode infatti troviamo la qualifica di disonesto data all’amministratore. La lode è solo per il modo in cui ha saputo trarsi d’impaccio. Tuttavia pur nel genere parabolico sembra strano che il padrone non si curi di questa nuova truffa.

Per capire e sciogliere l’arcano, facciamo ricorso agli usi del tempo in materia di amministrazione. Il fattore per il suo lavoro non riceveva dal padrone uno stipendio, ma gli era consentito di rifarsi con i clienti; i beni del padrone venivano considerati come dati in prestito ad essi, su questi l’amministratore prelevava un interesse a proprio vantaggio.

In realtà, questo interesse era una vera usura, proibita dalla Legge, ma ammessa dal costume. Quello che l’amministratore condona è solo il suo interesse, che poteva rasentare l’usura e non si tratta di un ulteriore danno inferto al padrone; gli sperperi di cui è accusato sono quelli generici del v. 1.

Altri ritengono invece che l’amministratore abbia continuato il suo comportamento scorretto, dato che ormai non aveva più nulla da perdere. In questo caso il termine “ingiustizia” che troviamo al v. 8a non sarebbe riferito soltanto all’agire precedente, ma anche a quest’ultima azione.

Quale sia la vera intenzione dell’autore personalmente ritengo che la parabola di Luca intenda scandalizzare i suoi uditori per scuoterli dal loro torpore morale, civile e religioso.

L’espressione dunque non può essere letta come l’invito a “farsi furbi”, ma come una sollecitazione ad agire con la stessa rapidità, decisione, arguzia dei «figli di questo mondo».

9 – Gesù parla ora in prima persona e ci esorta a fare come il fattore.

«disonesta ricchezza»: il vocabolo mamōnâs appare in tutta la Bibbia solo in questo capitolo (vv. 9. 11.13) e in Mt 6,24; è un celebre termine aramaico, che è un maschile e indica per sé solo il guadagno, il lucro, e la somma che si è guadagnata. Il termine ha un’assonanza con il verbo della fede l’ebraico amàn, che indica ciò di cui si ha fiducia, su cui si può contare, da cui deriva anche il nostro amen. Dato che denaro, possedimenti, ricchezza… sono ciò su cui uomini e donne “fanno affidamento” per vivere, è passato gradualmente ad indicare i beni.

L’abbinamento con il termine “disonesta” lett. adikía = in-giusta, sorprende: è difficile pensare che si tratti dell’accumulo illegale! Occorre forse ricordare che per Luca ogni ricchezza non condivisa è iniqua: l’unico utilizzo “giusto” dei beni è la condivisione (12,33). Condividere i propri beni renderà amici dei poveri e permetterà di condividere la loro beatitudine: l’ingresso nelle dimore celesti. Nella parabola del povero Lazzaro e del ricco epulone il lettore sarà condotto a riflettere sul destino di chi non ha acquisito «un tesoro in cielo», per il momento in cui la morte renderà ogni “mammona” inutile, e l’unica sicurezza su cui contare sarà il nostro rapporto con Dio mediato dai poveri in cui lo abbiamo servito.

Il mammona va dunque trattato dovutamente, poiché come valore a sé è moralmente indifferente, ma quando è detenuto avidamente da uno, automaticamente è sottratto agli altri, e diventa «di iniquità». Perciò occorre trafficarlo senza farsene irretire, il che, tenendo conto della natura umana che vi propende, significa trafficarlo senza adorarlo come un idolo totalizzante.

10-12 Sono uno sviluppo del v. 9, dove con un argomentazione «dal minore al maggiore» è mostrato come amministrando debitamente la realtà terrestre (il minimo, l’ingiusto mammona, ciò che è altrui), ci procuriamo quella celeste (il molto, la cosa vera, ciò che è vostro).

13 È posta la vera alternativa: o Dio o mammona! Non possiamo tenere il piede in due scarpe.

La fede in Dio si gioca nella fedeltà in ciò che egli ci ha affidato; i beni, che l’uomo stima di tanto valore, sono una cosa minima rispetto al vero bene. Sono necessari per conseguirlo l’uso corretto che ne facciamo (vedi in fondo art. Avvenire, 18 / sett. / ‘92 ).

Il fallimento dell’uomo consiste nell’amare ciò che non è l’oggetto del suo cuore. Qui qui il verbo servire, douleúō, indica il culto di adorazione che però rende schiavi!

Soltanto l’appartenenza totale a Dio, senza compromessi, rende possibile il corretto uso della ricchezza: la sua distribuzione ai poveri.

«La miseria impedisce di essere uomini. La povertà come la concepisce l’Evangelo non è per tutti quella di san Francesco d’Assisi, che abbandonò tutto. Un direttore di azienda può essere povero secondo l’Evangelo se ha la coscienza che tutti i suoi privilegi sono un debito. Non è obbligato a proporsi l’ideale di lasciare tutto, ma di fare il suo mestiere, di operare affinché ci sia lavoro e salario per tutti. Se vive con questo pensiero, egli è povero secondo il Vangelo».

L’Abbè Pierre, a cui dobbiamo questa riflessione, non è un sognatore, un predicatore oracolare, un «esaltato», sia pure per una buona causa. La riflessione che abbiamo citato ne è un esempio nitidissimo. Un distacco pauperistico plateale può essere talora meno difficile e meno efficace di un impegno intelligente e nascosto perché si riesca a sostenere il maggior numero di emarginati. «Fare bene il bene» è un motto ben lungi dall’essere scontato e banale; è una lezione di metodo che rende la carità più operosa, più continua, più incisiva. Tutto questo naturalmente non cancella l’esigenza del distacco. Un distacco che si radica nel cuore e si manifesta nell’esistenza, segnata da semplicità e generosità. Ma tutto si deve compiere secondo intelligenza e amore, non per sentimento e vanagloria. Al centro, comunque, resta lui, il povero, che è il privilegiato di Dio e questa parzialità divina è, in realtà, suprema imparzialità. «Ascoltate, fratelli mie carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri nel mondo per farli ricchi con la fede ed eredi del regno che ha promesso a quelli che lo amano? Voi invece avete disprezzato il povero!» (Giacomo 2,5-6a).

da ” Mattutino ” di G. Ravasi (Avvenire, 18 / Sett. / ‘92)

 

II Colletta:

O Padre, che ci chiami ad amarti

e servirti come unico Signore,

abbi pietà della nostra condizione umana;

salvaci dalla cupidigia delle ricchezze,

e fa’ che alzando al cielo mani libere e pure,

ti rendiamo gloria con tutta la nostra vita.

Per il nostro Signore Gesù Cristo…

Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano

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