L’orgoglio del sacerdote

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Sul piano umano la condizione di appartenenza comporta un grande rischio, che mi pare sia stato previsto se è vero che nella dottrina di Cristo si afferma che l’orgoglio è un atteggiamento negativo e del tutto inopportuno al sacerdote, che semmai deve mostrare l’umiltà del “Domine non sum dignus”: Tu mi hai scelto ma io non sono degno, e se Tu non mi darai un sostegno, io non sarò mai all’altezza del compito che mi hai dato.

Se non vi fosse questo freno, il sentirsi toccato da Dio potrebbe alimentare un’aria di sufficienza che produce distacco dal prossimo, in particolare da chi invece non occupa ancora un posto di privilegio nella relazione con il Signore. Si può giungere al “non ti curar di loro, ma guarda e passa”. Un atteggiamento che taglierebbe fuori dalla propria prospettiva tutti i resistenti a Dio, tutti i non credenti che sono in attesa di quella esperienza, per dare risposta al perché del mondo, dell’essere e non del nulla.

Il messaggio silenzioso dell’orgoglio dell’appartenenza a un ruolo e a un gruppo, quello dei cristiani, allontanerebbe ancora più dal mistero e dalla fede chi non vi appartiene, e il sacerdote orgoglioso o superbo finirebbe per essere un rinforzo a non credere. […]

Non si può affermare “io ho Dio” con la stessa certezza e superbia con cui si afferma di possedere un’auto di grossa cilindrata o un abito di griffe esclusiva. Chi veramente possiede la fede, non può dimenticare il dubbio o la paura di perderla, di non meritare di essere ritenuto da Dio un proprio eletto; e lo sforzo che richiede per esserne degno dovrebbe cancellare ogni residuo di esaltazione che entra nello stesso processo che porta alla maniacalità, al mettersi al centro di eventi sempre più grandi fino al delirio. E in questa errata interpretazione della propria posizione si finisce persino – ma qui entriamo nella patologia – per sentirsi dei sacerdoti speciali con compiti che si caricano di sensi voluti da Dio mentre sono soltanto desideri umani esagerati.

Vittorino ANDREOLI, Preti, Piemme, Milano, 2009, 111; 113-114