card. Gianfranco Ravasi – La strana esortazione a odiare la madre

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Questa volta le parole di Gesù – almeno così come suonano – risultano scandalose e per spiegarle dovremmo costringere i nostri lettori a un’interpretazione complessa. Noi scegliamo questa frase perché, come stiamo facendo da tempo, sono evocate alcune figure femminili: la madre (accanto al padre), la moglie, le sorelle. «Se uno viene a me e non odia suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Luca 14,26).

Ma è mai possibile che quel Gesù, «mite e umile di cuore» che invitava a porgere l’altra guancia, al perdono senza riserve, all’amore come legge fondamentale e primo comandamento, ci esorti – per essere suoi discepoli – a “odiare” padre, madre, moglie, figli, fratelli, sorelle e persino sé stessi? È significativo che l’evangelista Matteo abbia riferito questa frase di Cristo presente nel Vangelo di Luca secondo una modalità ben differente: «Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio e figlia più di me, non è degno di me» (Matteo 10,37).

La spiegazione di quella affermazione così sconcertante del Gesù di Luca è da cercare nel sottofondo linguistico che talvolta affiora nel dettato greco dei Vangeli. Come è noto, al di là di qualche ipotesi avanzata riguardo all’opera di Matteo, è indubbio che la stesura dei Vangeli – specialmente quello di Luca, che rivela un greco abbastanza raffinato – è avvenuta in quella lingua che allora dominava nell’impero romano, quasi un po’ come accade ai nostri giorni per l’inglese. Tuttavia, quegli scritti rivelano spesso in filigrana la matrice della lingua originaria dei loro autori o almeno riflettono la loro formazione e, in particolare per le frasi di Gesù, l’originale aramaico con cui egli si esprimeva.

Ora, in ebraico e aramaico non si ha il comparativo, ma si usano solo le forme assolute. Così, per dire “amare meno” si adotta l’estremo opposto all’“amare”, cioè l’“odiare”. Il senso della frase, tanto forte ai nostri orecchi, vuole, allora, più pacatamente affermare quanto propongono alcune versioni moderne, come quella della Conferenza episcopale italiana che traduce il nostro versetto in questo modo, sulla scia del parallelo di Matteo: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre…, non può essere mio discepolo». Oppure si potrebbe anche tradurre: «Se uno viene a me e mi ama meno di quanto ami suo padre…, non può essere mio discepolo».

In questa dichiarazione ritroviamo una componente caratteristica della predicazione e delle scelte di Gesù: la sua è una chiamata che esige un impegno forte, un distacco da tante abitudini, un orientamento radicale verso di lui e il Regno di Dio. Per esprimere questa esigenza egli non esita in altri casi a ricorrere al paradosso: «Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (Giovanni 12,25). E i discepoli impareranno che talora questa non è solo un’espressione intensa di stile orientale, ma è anche una verità che si attua con la testimonianza del martirio. Sempre nella linea del paradosso sarà, invece, quest’altro episodio ricordato dallo stesso Luca: «A uno Gesù disse: “Seguimi!”. E costui rispose: “Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre”. Gesù gli replicò: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu, invece, va’ e annuncia il regno di Dio”» (9,59-60).

Fonte: Famiglia Cristiana