Don Luigi Ciotti – Lettera ad un razzista del Terzo Millennio

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Conferenza ad Agosto a Santa Maria del 13.08.2019 – Convento di S. Maria del Cengio – Isola Vicentina

Lettera a un razzista del terzo millennio

«Ho deciso di scrivere. Proprio a te, coinvolto nella ubriacatura razzista che attraversa il Paese. Una ubriacatura a cui partecipi forse per convinzione o forse solo per l’influenza di un contesto in cui prevalgono le parole di troppi cattivi maestri e predicatori d’odio, che tentano di coprire così l’incapacità di chi ci governa (e ci ha governati) di assicurare a tutti, compresi i più poveri, condizioni di vita accettabili. Non mi sento, comodamente e presuntuosamente, dalla parte giusta. La parte giusta non è un luogo dove stare; è, piuttosto, un orizzonte da raggiungere. Insieme. Ma nella chiarezza e nel rispetto delle persone. Non mostrando i muscoli e accanendosi contro la fragilità degli altri. Così don Luigi Ciotti apre questa lettera a un razzista del terzo millennio. Una lettera dura e, insieme, accorata. Perché il rancore non prevalga, travolgendo tutti.»

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Leggi il prologo

Due giorni prima di Natale una notizia ha fatto – per qualche ora – il giro del mondo: Sam, un bimbo nato tre giorni prima sulla costa libica dopo l’attraversamento del Sahara da parte della madre e salito con lei su un barcone, è stato salvato nel Mediterraneo dalla nave di una Ong. Di lì, per le sue precarie condizioni di salute è stato prelevato con un elicottero assieme alla madre e trasferito a Malta. Ma gli altri 309 migranti che erano con lui hanno continuato la loro odissea in mare, per una settimana e duemila chilometri, senza un porto disposto ad accoglierli. Due mesi prima, il 2 novembre, Amal è morta di fame a sette anni. Come centinaia di altri bambini yemeniti travolti da una guerra combattuta con armi costruite nel nostro Paese. La sua fotografia, il viso reclinato con gli occhi persi, le ossa a malapena ricoperte di pelle, le mosche sulle mani, ha provocato l’indignazione di un giorno. Quelle immagini sono rapidamente scomparse da quotidiani e telegiornali lasciando il posto alla retorica sgangherata dei porti chiusi e agli insulti, crudeli e volgari, nei confronti dei migranti (sui social e non solo). Eppure, Sam, Amal e le altre centinaia di migliaia come loro non sono dei numeri ma delle persone: come me, come te che stai leggendo.

È questa situazione che mi ha spinto a scrivere. Non sono abituato a farlo. Preferisco i fatti con il loro linguaggio, silenzioso ma vero. Eppure di fronte all’ingiustizia che monta intorno a noi non si può più stare zitti. Ce lo ha ricordato – con la consueta forza e chiarezza – il papa che, il 26 marzo scorso, in piazza San Pietro si è rivolto ai giovani con queste parole: «Sta a voi non restare zitti. Se gli altri tacciono, se noi anziani e responsabili, tante volte corrotti, stiamo zitti, se il mondo tace e perde la gioia, vi domando: voi griderete? Per favore, per favore, decidetevi prima che gridino le pietre». Per questo ho deciso di scrivere. Proprio a te, coinvolto nella ubriacatura razzista che attraversa il Paese.

Una ubriacatura a cui partecipi forse per convinzione o forse solo per l’influenza di un contesto in cui prevalgono le parole di troppi cattivi maestri e predicatori d’odio, che tentano di coprire così l’incapacità di chi ci governa (e ci ha governati) di assicurare a tutti, compresi i più poveri, condizioni di vita accettabili. Secondo te, le difficoltà in cui viviamo e le incertezze sul presente e sul futuro sono colpa dei migranti che ci portano via il lavoro, che sporcano, che rubano, che hanno aggiunto nuovi problemi a quelli che già avevamo. E che, dunque, devono starsene a casa loro. Io non credo che le cose stiano così.

Le migrazioni non vanno sottovalutate ma governate in un modo intelligente ed è necessario parlarne senza rimozioni. Ma se non si arresta il modo di pensare oggi prevalente gli effetti saranno devastanti. Ancora più devastanti di quelli che già vediamo intorno a noi. Non mi sento, comodamente e presuntuosamente, dalla parte giusta. La parte giusta non è un luogo dove stare; è, piuttosto, un orizzonte da raggiungere. Insieme. Ma nella chiarezza e nel rispetto delle persone. Non mostrando i muscoli e accanendosi contro la fragilità degli altri.