Commento alle letture di domenica 18 Agosto 2019 – don Jesús GARCÍA Manuel

Prima lettura:  Geremia 38,4-6.8-10

 In quei giorni, i capi dissero al re: «Si metta a morte Geremìa, appunto perché egli scoraggi i guerrieri che sono rimasti in questa città e scoraggia tutto il popolo dicendo loro simili parole, poiché quest’uomo non cerca il benessere del popolo, ma il male». Il re Sedecìa rispose: «Ecco, egli è nelle vostre mani; il re infatti non ha poteri contro di voi».
Essi allora presero Geremìa e lo gettarono nella cisterna di Malchìa, un figlio del re, la quale si trovava nell’atrio della prigione. Calarono Geremìa con corde. Nella cisterna non c’era acqua ma fango, e così Geremìa affondò nel fango.

Ebed-Mèlec uscì dalla reggia e disse al re: «O re, mio signore, quegli uomini hanno agito male facendo quanto hanno fatto al profeta Geremìa, gettandolo nella cisterna. Egli morirà di fame là dentro, perché non c’è più pane nella città». Allora il re diede quest’ordine a Ebed-Mèlec, l’Etiope: «Prendi con te tre uomini di qui e tira su il profeta Geremìa dalla cisterna prima che muoia».

Questo episodio avviene verso l’epilogo ormai dell’anno e mezzo di assedio di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor di Babilonia, dopo che il faraone d’Egitto aveva tentato un soccorso alla città (intorno al 586 a. C.). Anche Geremia sta bevendo un «calice» amaro e ha dentro un «fuoco» ardente per la causa di Dio. A differenza di Gesù però non lo desidera, anzi vorrebbe uscirne, ma è qualcosa di incontenibile, confida nella più appassionata delle sue «confessioni» (Ger 20,9).

Il profeta è vittima delle tensioni politiche. Infatti, pure dall’atrio della prigione dove è rinchiuso presso la porta della città, continua ad insistere con i passanti dicendo che sono ormai impossibili e non risolverebbero nulla gli aiuti e le rivincite militari e che invece bisognava arrendersi ai Caldei, per avere salva la vita e pensare al dopo. Per questo i capi lo accusano di disfattismo e di tradimento e tentano di farlo tacere, gettandolo in una cisterna fangosa dove sarebbe certamente morto.

Geremia però non è un simpatizzante dei babilonesi né un politico, ma un profondo lettore dei «segni dei tempi» per i suoi contemporanei. Si preoccupa di salvare l’identità e la sopravvivenza religiosa. È un vero profeta. Contro i falsi profeti, facili in mirabolanti promesse nell’immediato ma incapaci di guardare lontano negli avvenimenti, aveva pronunciato l’oracolo: «Sono io forse Dio solo da vicino e non anche Dio da lontano?» (Ger 23,23).

Un monito sempre attuale, che non può fermarsi ad una religiosità superficiale, spicciola che accarezza il tutto e subito. Il cammino con Dio ha lunghe scadenze, durante le quali bisogna prepararsi a piantare e ad edificare, dopo le distruzioni e gli sradicamenti. La fede non è un sentimento superficiale e momentaneo, ma un impegno a camminare con Dio, da quando egli plasma il nostro essere come un vasaio nel seno materno (Ger 1,5) fino alle mirabili mete già previste da lui in questa vita, pur attraverso ogni sorta di prove, e soprattutto fino al trionfo supremo con Cristo.

Il comportamento delle persone intorno a Geremia non va oltre l’immediato. È positivo solo quello di uno straniero, l’etiope Ebed-Mèlek, ma limitato al senso di pietà che però gli salva la vita. I ministri del re sono chiusi nella antipatia verso i babilonesi e simpatia verso gli egiziani, per i loro interessi politici ed economici. Sedecìa è un re che tentenna, senza una chiara politica e senza una vera fede. Ha qualche scrupolo religioso per il quale interpella segretamente e pieno di paura Geremia. In politica subisce invece totalmente le imposizioni dei suoi collaboratori filoegiziani.

Per tutto questo Geremia prefigura davvero la statura morale e spirituale di Gesù, delineata nel brano evangelico, e le persone che si muovono attorno a lui sono simili ai personaggi che circondano Cristo e offrono importanti spunti per verificare il comportamento pure dei cristiani d’oggi.

Seconda lettura:  Ebrei 12,1-4

Fratelli, anche noi, circondati da tale moltitudine di testimoni, avendo deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento. Egli, di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore, e siede alla destra del trono di Dio. Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d’animo. Non avete ancora resistito fino al sangue nella lotta contro il peccato.

Questi versetti della lettera agli Ebrei vengono immediatamente dopo la rassegna dei grandi personaggi biblici, vissuti nella fede «fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono», (Eb 11). E tira le conseguenze pratiche per i cristiani. Per intenderle bene, occorre tener presente che qui la prospettiva della fede è diversa da quella classica di Paolo e di Giacomo. Nei due apostoli essa richiama la gratuità dell’iniziativa di Dio, mediante la grazia di Cristo, senza meriti precostituiti dell’uomo, e la risposta altrettanto gratuita da dargli nell’amore. L’autore della lettera agli Ebrei considera, invece, quanto la fede mette già in atto nel credente, che è in genere lo stesso futuro promesso e la persuasione a realizzarlo, in mezzo a tutte le difficoltà che possono frapporsi, compreso il rischio della vita.

Per concentrare l’impegno pratico su questo «già» verso il «non ancora», impernia le esortazioni sul paragone di una corsa allo stadio: «Corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti ». Nel greco la perseveranza (ypomonè) ha un significato assai denso di paziente sopportazione del sacrificio. Esorta quindi a liberarsi dalle cose che appesantiscono, quali sono soprattutto le comodità, e dal peccato che irretisce, cioè impaccia, blocca o devia i passi, intorbidando la vista della fede.

La concentrazione atletica è aiutata dal nugolo di «testimoni» che circondano la nostra gara e ci spronano, non tanto col martirio che possono non aver subito, quanto piuttosto con la dedizione personale a realizzare la missione da ciascuno accolta e fatta propria nella fede. Si tratta, non di spettatori curiosi, ma di atleti che hanno già compiuto la loro gara ed ora sono di esempio, consiglio e aiuto a noi per la nostra.

La nostra concentrazione massima si realizza fissando lo sguardo, più che su qualsiasi altro, sul campione supremo, Gesù, «autore e perfezionatore della fede» o meglio, stando all’originale, «che dà origine alla fede e la porta a compimento», sempre secondo il paragone della corsa che continua. Egli ha sgombrato totalmente il percorso dagli impacci ed è arrivato alla meta suprema alla destra del trono di Dio. Con la scelta della croce in cambio della gioia, la lettera sembra richiamare il rifiuto delle lusinghe di Satana tentatore, per compiere fino in fondo la volontà del Padre.

Col richiamo a Gesù, l’autore esce dal paragone della corsa e indica la realtà dell’impegno nella fede. A ostacolare Cristo nella corsa verso il Padre sono state le grandi ostilità dei peccatori, che si sono illusi di bloccarlo appendendolo alla croce. Pensando a lui, i cristiani non si stancano né si perdono di coraggio, di fronte ad impedimenti simili.

Inoltre, al paragone della corsa aggiunge quello della lotta: i destinatari della lettera non hanno ancora resistito fino al sangue, nella «lotta contro il peccato». Ciò fa pensare a qualche tipo di persecuzione in atto comunque a un combattimento non solo contro i peccati personali ma anche contro quelli della società, a un impegno pubblico e missionario della fede.

Vangelo: Luca 12,49-53

 In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto! Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione. D’ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre; si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera».

Esegesi

Gli insegnamenti di Gesù contenuti in questo brano, Matteo li colloca nel discorso missionario (cf. Mt 10,34-36), Luca invece nel più ampio contesto del ministero itinerante dalla Galilea alla Giudea (Lc 9,51-19,28), dedicato alla formazione dei discepoli. Vuol dire che valgono per la missione, ma anche per la testimonianza cristiana di ogni giorno. Vi si possono distinguere tre passaggi: due confidenze ai discepoli e una introduzione agli insegnamenti indirizzati alle folle.

Ai discepoli Gesù confida anzitutto due desideri ardenti (vv. 49-50). Il primo è il fuoco che vuole accendere sulla terra a beneficio dell’umanità. Si può pensare al fuoco dello Spirito Santo e dei suoi doni, massimamente dell’amore, già annunciato dal Battista (Lc 3,16) e venuto poi con la Pentecoste (At 2,3). Esso però passa attraverso i contrasti, la persecuzione e non di rado il martirio. Questo aspetto è evidenziato dal secondo desiderio di Gesù, un battesimo da ricevere personalmente. In Marco è abbinato a un calice da bere, proposto anche ai discepoli (Mc 10,38-39), allusione chiara alla passione e morte. Sono due simboli che dicono il martirio di Gesù assaporato come una bevanda amara, che entra nel più intimo, e vissuto come un bagno che sommerge tutta la persona, sempre nell’amore.

Poi Gesù confida una sofferenza: le divisioni per causa sua (vv. 51-53). Ponendole come interrogativo, fa riflettere i discepoli sul significato che possono avere e su come vanno gestite, per corresponsabilizzarli. Cristo sembra voler fare il contrario del suo Precursore, inviato a «ricondurre i cuori dei padri verso i figli» (Lc 1,17) e dei figli verso i padri (Mt 3,24). In realtà ha lo stesso scopo. Egli è «segno di contraddizione, perché siano svelati i pensieri di molti cuori» (Lc 2,34-35), aveva detto il vecchio Simeone, alla presentazione al Tempio. Cioè egli è criterio per far prendere coscienza profonda di se stessi e dei propri contrasti, per riconoscersi orientati nella vita con lui o contro di lui, con Dio o contro Dio, e ovviamente per cercare in lui il motivo per superare le divisioni. Nelle immancabili contrapposizioni la violenza non è inferta da lui e dai suoi discepoli. Al contrario, essi, e in primo luogo sua Madre (Lc 2,35), sono vittime della violenza e la accolgono con amore e col desiderio di guadagnare all’amore anche i persecutori, con la forza della testimonianza. La violenza di Cristo è quella dell’amore. In questo senso, nel passo parallelo di Matteo, Gesù domanda di amarlo più del padre e della madre (Mt 10,34-38); cioè, di prendere l’amore a lui come criterio per purificare anche quello ai genitori e portarlo dai livelli interessati ed egoistici al livello superiore della sua gratuità e universalità.

Alle folle Gesù rivolge la parabola dei «segni dei tempi» (vv. 54-57), per invitare tutti, negli sviluppi successivi, ad approfondire il senso di quanto stanno vivendo. Sanno guardare i segni meteorologici e ne traggono indicazioni precise. Sono interessati pure ai fatti di cronaca, ma non ne traggono indicazioni adeguate. Li chiama per questo «ipocriti», nel senso di commedianti, che ora recitano una parte e ora un’altra. E li sprona ad essere più coerenti e a mettere a profitto la capacità che hanno di approfondire anche i segni della storia, più importanti di quelli meteorologici. «Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto»?, dice subito dopo la parabola, esemplificando con casi concreti della vita. Perché non prendete posizione nei problemi della società, che pur vedete?

Meditazione 

La vocazione profetica porta Geremia a incontrare opposizioni fino ad essere consegnato in mano di altri uomini: il suo destino è nelle mani di altri; la sua vita o la sua morte dipendono da altri: quella verità così essenziale per cui la nostra vita è legata inscindibilmente ad altri e viviamo grazie agli altri, trova in Geremia gettato in prigione e da lì fatto risalire una attestazione drammatica e dolorosa (I lettura). Il cammino di Gesù di obbedienza al Padre è anche cammino di salita verso Gerusalemme, verso l’immersione («battesimo») che lo attende e che egli riceverà quando sarà consegnato nelle mani dei peccatori che lo maltratteranno e le metteranno a morte. Gesù vive l’abbandono nelle mani di Dio conoscendo il tragico destino di chi cade in balia degli uomini e della loro malvagità (vangelo).

Annunciato dal Battista come colui che battezzerà in Spirito santo e fuoco (Lc 3,16), Gesù, nei giorni della sua vita terrena, sperimenta l’incompiutezza della sua missione e il caro prezzo che essa comporta. Lo Spirito che scenderà a Pentecoste immergerà i discepoli nel fuoco dello Spirito, ma questo avverrà solo dopo la sua morte e resurrezione; inoltre Gesù stesso riconosce di dover passare attraverso il fuoco dell’immersione nella morte cruenta. Perché l’incendio del Regno divampi occorre prima che egli stesso sia bruciato e consumato da tale fuoco. Venuto per narrare il Dio che è «fuoco divorante» (Dt 4,24), per suscitare la passione per il Regno, per sconvolgere le vite con il soffio impetuoso dello Spirito, per far ardere i cuori con la sua parola bruciante, Gesù incontra coloro che sanno «spegnere lo Spirito», far tacere la profezia, mortificare la follia per il Signore. Non c’è altra via, per lui, che ardere e consumarsi egli stesso al fuoco della sua passione per Dio e del suo desiderio di dare comunione e vita agli uomini. Egli stesso diviene fuoco: «Chi è vicino a me è vicino al fuoco, chi è lontano da me è lontano del Regno», recita un detto di Gesù tramandato da Origene. Il fuoco dona calore e luce ma, nel mentre, consuma e divora. Da quella morte, nasce la nostra vita. Il fuoco che Gesù è venuto a portare e gettare sulla terra è passione di amore e passione di sofferenza. Del resto, chi può conoscere il segreto del fuoco se non chi se ne lascia consumare?

Per quanto enigmatiche, le parole di Gesù sul fuoco che egli è venuto a portare ricordano alla nostra stanca cristianità e alle nostre vecchie chiese che il cristianesimo è vita e fuoco, passione e desiderio, avventura e bellezza. Ha scritto il patriarca di Costantinopoli Atenagora: «Il cristianesimo è la vita in Cristo. E il Cristo non si ferma mai alla negazione, al rifiuto. Siamo noi che abbiamo caricato l’uomo di tanti fardelli! Gesù non dice mai: “Non fare, non si deve fare”. Il cristianesimo non è fatto di proibizioni: è vita, fuoco, creazione, illuminazione».

La venuta di Gesù è anche giudiziale: la sua presenza sollecita una presa di posizione e una scelta e così essa può provocare divisioni: Gesù, infatti, è segno di contraddizione (Lc 2,34). La famiglia stessa non sarà esente da tale intervento giudiziale e dalle separazioni che esso opera (Lc 12,51-53). L’urgenza del Regno porta a relativizzare anche l’istituto famigliare che viene traversato e lacerato, come da spada, dalla parola di Gesù che chiede un amore prioritario per lui e di mettere al primo posto le esigenze del Regno (Lc 14,25-26).

E l’oggi storico deve essere giudicato a partire dalla novità escatologica introdotta da Gesù: il Regno di Dio si è fatto vicino. Prima ancora di riconoscere «i segni dei tempi» si tratta di riconoscere il segno del tempo, il segno che il tempo stesso è diventato da quando ha accolto l’evento dell’incarnazione. Esso è occasione di conversione, appello a conversione. Segnato dall’irruzione del Regno, ormai il tempo della storia e dell’esistenza personale di ciascuno è kairòs, momento propizio per la conversione (cfr. Lc 13,1-5). È luogo di incontro possibile con il Signore che viene.

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