mons. Nunzio Galantino – Chiesa in uscita: slogan o conversione del cuore

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Chiesa in uscita: slogan o conversione del cuore

 TERMOLI – Sala consiliare, Giornata mondiale del Rifugiato

28 Giugno 2019

  1. Premessa

Vi sono momenti storico – culturali che facilitano ed altri che rendono davvero faticoso un ragionevole confronto su temi particolari come quello che qui si affronta. Vi sono addirittura momenti così faticosi che al solo proporre, ad esempio, la celebrazione della “Giornata del Rifugiato” [1] ci si sente subito spinti a occupare una delle chiassose curve in questa sorta di tifo da stadio nel quale ormai viviamo.

Dico allora subito che intendo proporre la mia riflessione da un punto di vista che è il punto di vista di un uomo e di un credente che si sente interpellato da quelli che ritengo i miei punti di riferimento imprescindibili: il Vangelo, il Magistero della Chiesa e la Tradizione che la Chiesa, come comunità di credenti, continua a consegnarmi.

A proposito di Tradizione della Chiesa e per analogia con quello che qui facciamo, mi piace ricordare che nel prossimo Settembre celebreremo la 105a “Giornata mondiale dell’immigrato e del Rifugiato”. Capite? Non da oggi la Chiesa si sente interpellata dalla realtà della mobilità umana e da tutto ciò che essa comporta. A questo proposito suggerirei – tra i tanti studi e ricerche che riguardano questo tema – di riprendere i messaggi dei Papi per queste giornate. Se non ci si lascia prendere dalla strumentale semplificazione, si scopre quanto fazioso sia, ad esempio, contrapporre un Papa a un altro[2] su questo tema.

Ma, tornando al mio contributo, qui voglio limitarmi a riflettere con voi sulla continuità tra l’immagine di Chiesa che papa Francesco ci sta consegnando – in continuità con l’insegnamento del Concilio Vaticano secondo – e gli inviti ad avere occhi e cuore attenti a quanti, per un motivo o per un altro, vivono l’esperienza della migrazione. 

Il Papa venuto “quasi dalla fine del mondo” ama parlare di Chiesa ricorrendo a immagini di grande efficacia, che però possono correre il rischio di diventare slogan comodi e deresponsabilizzanti.

Chi non ha sentito parlare di “Chiesa in uscita”; di “Chiesa ospedale da campo” e di ciò che viene chiesto ai pastori della Chiesa: “avere l’odore delle pecore”? Se facciamo lo sforzo di comprendere il significato e le esigenze che queste immagini innescano sul piano dell’impegno dei singoli e delle comunità, ci accorgiamo che l’attenzione del Papa al tema della mobilità umana è perfettamente coerente con l’immagine di Chiesa che egli desume dal Vangelo e dalla Tradizione della Chiesa.

“Chiesa in uscita”, “Chiesa ospedale da campo”.  Di queste immagini posso dire che sono altrettanti inviti a una decisa opera di conversione per essere vissute davvero.

  1. Una Chiesa evangelica è una “Chiesa in uscita”

Cosa intende domandarci papa Francesco invitandoci ad essere “Chiesa in uscita”?

Quale stile di vita domanda?

Intanto essere “Chiesa in uscita” vuol dire essenzialmente essere una Comunità che si sente e si mette in cammino per guardare con occhi di Vangelo chi e cosa sta per strada, fuori dai recinti sacri, o ritenuti tali. Guardare con occhi di Vangelo per imparare a rimodulare la testimonianza, la predicazione e l’annuncio. Quando il Papa parla di periferie esistenziali, non ne parla necessariamente o solo come luoghi e situazioni ai quali sono destinate nostre parole e i nostri gesti e le nostre cure. Le periferie esistenziali sono scuola che dobbiamo imparare a frequentare per imparare l’alfabeto col quale, come Chiesa, dobbiamo annunziare e testimoniare il Vangelo.

Ma c’è un’esperienza previa che ci permette di frequentare con frutto la scuola delle periferie esistenziali ed essere “Chiesa in uscita”. Bisogna avere il cuore pieno, pieno di gioia. Una gioia che ha una fonte precisa. Si legge infatti al n. 1 della Evangelii Gaudium: «La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù».

Comincia da qui l’inizio vero del nostro essere “Chiesa in uscita”. L’incontro con Gesù e con la sua Parola che non ci fa subito santi, non ci fa subito perfetti ma ci aiuta a recuperare la gioia di vivere, l’entusiasmo di spenderci per la sua causa perché vediamo uomini e donne che sono tristi; perché vediamo uomini e donne che fanno fatica a vivere; perché vediamo uomini e donne che fanno fatica a mantenere dritta la barra della propria vita. L’incontro con Gesù ci dà i suoi occhi e ci fa appartenere le situazioni belle e quelle problematiche che caratterizzano il nostro contesto socio-culturale.

  1. La presenza della Chiesa in una società complessa

È il contesto che tanti chiamano post-moderno. Pieno di sfide e di grandi domande di senso anche per la fede.

Quello che sta accadendo attorno a noi non possiamo considerarlo come qualcosa che non ci interessa, per cui continuiamo a fare le nostre processioni, i nostri convegni più o meno autoreferenziali. Il cristianesimo sociologico è scomparso un po’ ovunque nel nostro paese; sopravvive soltanto nella memoria di noi adulti il tempo in cui il cristiano e il cittadino coincidevano. Chi fra noi non ricorda come la Chiesa fosse il centro dei nostri paesi, si nasceva e si moriva in un ambiente naturalmente cristiano che in quanto tale traslava linguaggi e visioni dell’esistenza.

A ben guardare, oggi, di tutto questo rimane poco. Paradossalmente, resta in molti, la nostalgia di un passato ideologizzato rispetto al quale il confronto con il presente rischia di essere motivo di amarezza, di chiusura, di un cammino intrapreso con uno sguardo rivolto al passato.

 “Chiesa in uscita” è quella che non fugge dinanzi a questo tipo di realtà. L’atteggiamento della moglie di Lot è quello che purtroppo, gran parte della nostra Chiesa vive, nonostante il grande entusiasmo, con qualche eccezione, che si sta vivendo con Papa Francesco. Quella della moglie di Lot (camminare guardando all’indietro) è una prospettiva davvero paralizzante. Ce ne accorgiamo – lo dico soprattutto a noi sacerdoti – a livello pastorale, dove il rimpianto, a torto o ragione, si traduce in un attivismo sterile, si moltiplicano le iniziative, non si ha più tempo per fermarsi né con le persone né con il Signore nella vana tensione a riportare le cose a come erano prima, quando la Parrocchia di fatto coincideva con il territorio e i suoi abitanti.

Senza giudicare le buone intenzioni e la generosità di molti preti e di molti operatori pastorali, dobbiamo però riconoscere che lungo questa strada più che risultati si raccolgono frustrazioni e risentimenti. Si rimane allora vittime di quel grande rischio del mondo attuale (EG 2) che è una “tristezza individualista”, dice Papa Francesco, che quando contagia noi credenti, ci trasforma in cristiani (n.6) che sembrano avere uno stile di quaresima senza Pasqua. Eppure, lo sappiamo per esperienza personale, un evangelizzatore non dovrebbe mai avere (n.10) una faccia da funerale. La più grande minaccia, avverte il Santo Padre è il grigio pragmatismo della vita quotidiana nella Chiesa nel quale tutto apparentemente procede nella normalità, mentre in realtà la fede si va logorando e degenerando nella meschinità: si sviluppa la psicologia della tomba, che poco a poco trasforma i cristiani in mummie da museo (n. 33).

A questo punto, altro che Chiesa in uscita! Si diventa una Chiesa fuori corso, avvertita come tale dai nostri contemporanei, e quindi, abbandonata perché non riesce a trasmettere entusiasmo e passione per una vita vissuta nel nome di Cristo, lasciandosi illuminare dal Vangelo.

Il nostro mondo cambia, che lo vogliamo o no. Nasce da qui la necessità, dice Papa Francesco, di uscire per non essere irrilevanti, uscire per capire chi ci sta dall’altra parte, uscire per capire come la pensa chi sta dall’altra parte. Non per adeguarci, ma per adeguare il linguaggio, adeguare la sensibilità e per ridefinire le priorità. Purtroppo, quando ci sottraiamo a questo esercizio di conoscenza e di discernimento sul presente finiamo per organizzare risposte a domanda che mai nessuno ci ha rivolto e investiamo energie in direzioni sbagliate.

È evidente allora che essere “Chiesa in uscita” è una proposta esigente. Essa domanda quella fiducia del cuore e della mente che impedisce di lasciarsi prendere da un pessimismo sterile (n. 34). Domanda lo sguardo di chi riconosce che negli strati della società ci sono molti segni della sete di Dio rispetto ai quali c’è bisogno di persone di speranza. Il Papa chiede al n. 36 di essere “persone anfore” per dare da bere agli altri.

L’esperienza ecclesiale alla quale il Papa non si stanca di richiamarci con quella espressione “chiesa in uscita” è evidentemente una esperienza ecclesiale viva, propositiva, cordiale. Molte volte abbiamo paura anche di questi termini; anche noi sacerdoti pensiamo che quanto più mostriamo il viso arcigno alla nostra gente, tanto più passiamo per essere i Giosuè (condottieri) della situazione.

 

  1. “Chiesa in uscita”, porte aperte ed esperienze di relazione

Dobbiamo convincerci che il ponte attraverso il quale passano certi contenuti e, soprattutto i contenuti del Vangelo, è la relazione. Non è la creazione di muri, non è la contrapposizione. Certo, questo è un invito che scardina una mentalità abbastanza diffusa, una sorta di àncora di salvezza per alcuni di noi: non volersi mischiare con la realtà, non voler entrare in relazione perché evidentemente quando si entra in relazione ci sono delle realtà che vanno e che vengono e che ci possono anche trovare impreparati.

Il grande nemico della “Chiesa in uscita” è la voglia di autopreservarsi o di creare barricate per difendere strutture valide in un altro contesto socio-culturale ma incapaci di comunicare e testimoniare in maniera efficace oggi.

«L’umanità del cristiano – ha detto Francesco a Firenze – è sempre in uscita.  Non è narcisistica, autoreferenziale. Quando il nostro cuore è ricco ed è tanto soddisfatto di se stesso, allora non ha più posto per Dio».  Possiamo allora dire che la Chiesa o è missionaria o smette di essere Chiesa. Essa esiste in funzione dell’annuncio e per portare la salvezza a chi è lontano. Sull’esempio del Buon pastore che, in modo apparentemente sconsiderato o folle, lascia novantanove pecore in cerca di una sola. Noi siamo quella pecora che si era perduta, che il Signore ha cercato e recuperato, e per questo dobbiamo a nostra volta metterci in cerca di coloro che si sono smarriti e sono in balia del peccato, della miseria, della tristezza.

«Lo stile e il metodo dell’uscire – precisa Francesco – ci pongono in un’attitudine di incontro aperto e disponibile, senza mire di conquista».  L’uscire, quindi, non è una mera strategia, ma un’esperienza costitutiva dell’esistenza del credente. Implica l’uscire anzitutto da noi stessi, dal nostro narcisismo, per andare incontro agli altri e non certo per occupare degli spazi o acquisire un’influenza poiché l’egemonia, come l’ideologia, non viene dal Vangelo. Uscire dalla retorica, dai luoghi comuni e dal mortificante politicamente corretto.

  1. I verbi dell’accoglienza e la campagna “Liberi di partire, liberi di restare”.

“Chiesa in uscita” è una Chiesa impegnata a coniugare i quattro verbi che caratterizzano il suo modo di stare in questo mondo e soprattutto di fronte alla realtà della mobilità umana.

‘Accogliere’ cioè offrire a migranti e rifugiati possibilità più ampie di ingresso sicuro e legale nei paesi di destinazione. 

‘Proteggere’ attraverso tutta una serie di azioni in difesa dei diritti e della dignità dei migranti e dei rifugiati, indipendentemente dal loro status migratorio.

‘Promuovere’ prodigandosi per la promozione dell’inserimento socio-lavorativo dei migranti e rifugiati e garantendo a tutti – compresi i richiedenti asilo – la possibilità di lavorare, percorsi formativi linguistici e di cittadinanza attiva e un’informazione adeguata nelle loro lingue originali.

‘Integrare’ non è l’assimilazione, che induce a sopprimere o a dimenticare la propria identità culturale.

Si capisce, in questo contesto, la campagna “Liberi di partire, liberi di restare”. Un percorso di accoglienza, di tutela, di promozione e di integrazione che non di rado è all’inizio di un cammino di ritorno nel Paese di origine per contribuire a costruire una storia di libertà e favorire uno sviluppo possibile. Sullo sfondo della campagna vi è una pretesa: indicare ulteriori vie che, unite alle tante già in atto, contribuiscano a uscire dall’impasse e a depotenziare insopportabili cori da stadio, incapaci di proposte costruttive.

Grazie ai fondi (30 milioni di euro) dell’otto per mille, la campagna “Liberi di partire, liberi di restare” si rivolge soprattutto ai minori, per i quali papa Francesco ha rivolto le riflessioni centrali del messaggio in occasione della giornata mondiale del migrante e del rifugiato.

Tra gli ambiti prioritari di intervento si privilegiano l’educazione e la formazione (anche professionale); l’informazione in loco (su ciò che comporta il migrare); progetti mirati di carattere sociale e sanitario a favore delle fasce più deboli della popolazione migrante: i minori e le vittime di tratta in particolare; progetti in ambito socio-economico per la promozione di opportunità lavorative, accompagnamento ai rientri di coloro che intendono volontariamente procedere in tal senso. Un’attenzione particolare e trasversale la si riserva a processi e percorsi di riconciliazione, curati da realtà già attive in questo ambito come l’Associazione Rondine Cittadella della pace.

Insomma, c’è chi prova a non lasciarsi mettere all’angolo o ridurre al silenzio facendo proposte che vadano oltre i dissensi gridati e l’indifferenza praticata.

Conclusione

Sogno una Chiesa che possa farsi ospite tra gli ospiti, possa porgere una ciotola ristoratrice ai viandanti della vita; una Chiesa che libera e non costringe, che accarezza e non giudica, che ama l’ombra stremata di ciascuno, che l’abbraccia e l’accoglie per permetterle di vedere la luce. I pellegrini della vita – quelli che approdano sulle nostre rive – chiedono ascolto, raccontano, a volte anche solo con lo sguardo, storie in cui il dolore e la fatica hanno preso il sopravvento; chiedono che si riempia la loro ciotola di un senso. Provare a ospitare la loro stanchezza e la loro fragilità, cercando di offrire un po’ di calore e un boccone di cibo per il cuore: restituendo loro la bellezza di una casa. Cosa c’è di più bello che sentirsi a casa? Mi sono chiesto tante volte incontrando degli sconosciuti con lo sguardo smarrito. Almeno così credo di averli percepiti. L’ospite migliore è colui che mette tanto a proprio agio colui che è arrivato da farlo sentire come a casa propria: c’è qualcosa di sacro, c’è qualcosa di divino nell’ospitalità. Immagino Dio che, per chi ci crede, quando ci accoglierà alla fine della nostra vita farà di tutto per non farci sentire scomodi o fuori posto, per non metterci a disagio. Forse il Paradiso, per chi ci crede, consisterà nel sentirsi totalmente, completamente, interamente accolti. Sarà il non patire più alcuna lontananza. Per questo, negli ambienti che frequento, mi piace e mi commuove tutto ciò che è segno di una Chiesa che non trattiene la vita, che si lascia muovere e rinnovare e che apre orizzonti, come vuole papa Francesco. Una Chiesa fatta di uomini e donne che fabbricano passaggi dove ci sono i muri, che aprono brecce negli sbarramenti, che saltano ostacoli e costruiscono ponti; che mantengono fresca la spontaneità, l’invenzione e la creatività, che spezzano le dipendenze e l’ovvietà. Uomini e donne concreti, che rifiutano le astrazioni ma capaci di abbracciare il sogno con la realtà, che non si spaventano delle differenze e delle contraddizioni; uomini e donne non impazienti, non frettolosi, non avari, ma che permettono all’amore di maturare e diventare pacifico, dolce, umile, comprensivo.  E quindi ospitale. Abbiamo tanto bisogno di queste sentinelle che vigilano attente su ogni moto della fantasia, su ogni nuovo slancio di coraggio, su ogni accenno di libertà che si ridesta, su ogni inizio di generosità, su ogni germoglio di speranza.

+ Nunzio Galantino

Presidente dell’Amministrazione
del Patrimonio della Sede Apostolica

[1] La Giornata mondiale del Rifugiato vuole rendere omaggio alla ricchezza umana e alla complessità di ciascuna migrazione: quelle che hanno costruito attraverso i secoli la nostra storia di europei, quelle che ancora oggi intrecciano attraverso il mondo collegamenti e dialoghi che aprono nuove prospettive per un futuro di democrazia e di giustizia. 

[2] Un saggio di questo studio potete trovarlo in un articolo pubblicato (20 Maggio 2019) dal giornalista del Corriere della sera: “Prima la Padania, ora i migranti. Tutti i fischi leghisti ai Papi”.