«Certamente il nostro compito è quello di distogliere lo sguardo da noi stessi, e di fissare gli occhi su Gesù, di schivare la contemplazione dei nostri sentimenti, delle nostre emozioni e dei nostri stati mentali,, come se fossero la questione centrale della religione».
Questa riflessione di un John Henry Newman trentenne ci spiazza, perché ci denuncia in faccia un modo di comprendere la religione che va per la maggiore. Alla domanda: «Perché hai ripreso la pratica religiosa?», la risposta che ho sentito da molti è questa: «Perché mi fa sentire bene con me stesso».
Per carità, essere religiosi ha questi buoni effetti collaterali, e va benissimo così. Ciò a cui dobbiamo badare, è di non fare del nostro benessere il centro del mondo e il centro del nostro rapporto con Dio. Possiamo girare molto intorno alla questione, ma l’analogia che ci presenta Gesù chiarisce meglio di mille concetti.
La mostra vita è come quella del seme. Il seme starebbe tanto bene nella comodità di un granaio, ma la sua vita, il senso della sua esistenza, non viene dalla calma, ma dalla fioritura; una fioritura – per tornare a noi – che passa per il morire a sé, per vivere di Cristo, in Cristo e per Cristo .
Fonte: il sito di Robert Cheaib
Docente di Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana e l’Università Cattolica del Sacro Cuore.
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Se il chicco di grano muore, produce molto frutto.
Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 12, 24-26
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto.
Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna.
Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà».
Parola del Signore.