Prima lettura: Isaia 66,10-14
Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa tutti voi che l’amate. Sfavillate con essa di gioia tutti voi che per essa eravate in lutto. Così sarete allattati e vi sazierete al seno delle sue consolazioni; succhierete e vi delizierete al petto della sua gloria. Perché così dice il Signore: «Ecco, io farò scorrere verso di essa, come un fiume, la pace; come un torrente in piena, la gloria delle genti. Voi sarete allattati e portati in braccio, e sulle ginocchia sarete accarezzati. Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò; a Gerusalemme sarete consolati. Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore, le vostre ossa saranno rigogliose come l’erba. La mano del Signore si farà conoscere ai suoi servi». |
La comprensione del brano sarebbe resa più chiara dal suo contesto anticipando la lettura al v. 5. Nel v. 9 poi è il Signore che parla in modo diretto usando l’immagine del parto per illustrare la sua azione rigenerante verso il suo popolo. Il v. 8 aveva notato un fenomeno impossibile a verificarsi nella realtà: la formazione di un popolo non è istantanea, richiede tempo, conflitti, generazioni e fatiche. L’affetto del Signore per il suo popolo ha superato tutto questo, la rinascita d’Israele dopo l’amara esperienza dell’esilio sembra non conoscere i limiti imposti dalla storia. Nell’ottica del profeta basta un solo istante al Signore per rigenerare il suo popolo; il ritorno a Gerusalemme è come un parto in cui rapidamente una nuova vita viene alla luce.
Ora il contenuto della lettura è più chiaro, I vv. 10-11 sono un invito alla gioia rivolto ai rimpatriati. Essi amano la loro città e ne hanno fatto il lutto al momento della loro partenza, al tempo della vittoria dei nemici che l’hanno resa vedova e priva di figli (Lam 1,1; Ger 14,17-19; 15,5-9). Ma ora la situazione è rovesciata, anziché essere privata dei figli, Gerusalemme li ha partoriti di nuovo, li ha riavuti tutti insieme, il loro ritorno è felice come il giorno della loro nascita. Nonostante le dure prove, Sion ora è prospera, il suo seno turgido e può offrire nutrimento a tutti senza razionamento.
Nel giorno della nascita i regali sono una consuetudine. Di questo parla il v. 12. Il Signore assicura alla sua città un dono proporzionato per un evento così felice: la ricchezza dei popoli arriverà come un torrente in piena. Ma ancora più importante dei doni materiali, che tra l’altro un neonato non è in grado di apprezzare, è l’affetto. Neppure questo man-cherà alla rinata popolazione di Sion; la tenerezza e le coccole le saranno pure garantite come il segno più percepibile dell’affetto divino.
Nel v. 13 troviamo ancora una grande espressione di tenerezza applicata a Dio: Egli sa consolare con delicatezza materna. Bisognerebbe ricordare il passaggio di 49,15 per gustare di più l’immagine:
Si dimentica forse una donna del suo bambino,
così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?
Anche se queste donne si dimenticassero,
io invece non ti dimenticherò mai.
Se la consolazione, da una parte è un grande atto di forza — come dice 40,1-2 dove si vede che per consolare il suo popolo Dio rovescia le sorti della storia e delle grandi potenze, ponendo fine alla schiavitù del suo popolo — dall’altra parte questo intervento a favore d’Israele è compiuto con sentimenti materni. Forza divina e tenerezza materna si ab-bracciano senza contrasto nel Dio d’Israele.
Il v. 14 assicura che la descrizione fatta fin qui non è un miraggio. Essa sarà una realtà visibile e la sua vista sarà il sollievo definitivo del popolo provato. Le ossa spezzate sono il segno più evidente della tribolazione e del peccato (cf. Sal 31,11; 51,10). Il loro vigore ritrovato e paragonato all’erba primaverile, primizia di vita, è un ulteriore, tangibile segno del perdono concesso da Dio. La manifestazione della mano del Signore, cioè della sua forza operante, sarà salvezza per Israele, rovina per i suoi nemici.
Seconda lettura: Galati 6,14-18
Fratelli, quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo. Non è infatti la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l’essere nuova creatura. E su quanti seguiranno questa norma sia pace e misericordia, come su tutto l’Israele di Dio. D’ora innanzi nessuno mi procuri fastidi: io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo. La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con il vostro spirito, fratelli. Amen. |
Si tratta dei versetti finali della lettera e ne costituiscono una buona sintesi. In riferimento al v. 11 si potrebbe quasi dire che si tratta di ipsissima verba, dell’apostolo, ma al di là di questa esagerazione esse appartengono alla parte autografa con la quale Paolo ha concluso lo scritto come segno di autenticità della missiva.
Il v. 14 si capisce meglio se non si perde il contrasto con quello precedente nel quale si parla del vanto dei circoncisi. Essi lo ripongono nell’avere proseliti, in un incremento numerico di coloro che sono sottoposti alla legge. Per essi dunque i galati sono uno strumento della loro vanagloria. Si dovrebbe rileggere a questo proposito 4,12-20 per comprendere come i giudaizzanti non avevano sentimenti corretti verso i galati, mentre Paolo li amava teneramente: 4,19. C’è anche un altro contrasto che non va perso e che è da ricercare nell’esperienza personale di Paolo. Anch’egli un tempo si vantava della pratica della legge e della circoncisione come lui stesso dice in 2Cor 11,21b-22; Fil 3,4-6. A quel periodo della sua vita fa cenno anche nella stessa lettera ai galati: 1,13-14. Ora tutto è cambiato, l’unico vanto che gli è rimasto è la croce. Non è una novità nel pensiero dell’apostolo. Già in 1Cor 1,31 mentre Paolo parla della sapienza della croce scrive: «chi si vanta si vanti nel Signore». Ma ora il legame tra croce e vanto è ancora più stretto, veramente personale. In 2,1.9 Paolo aveva già dichiarato di essere stato crocifisso con Cristo e in 5,24 aveva dichiarato che quelli che sono in Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con i suoi desideri e le sue passioni. Qui Paolo riprende quelle dichiarazioni. La croce lo ha estraniato al mondo e gli ha dato una nuova sapienza (cf. 1Cor 1,17-1,16). Se poi volessimo prescindere da una ricerca tecnica del significato della parola mondo ci potremmo indirizzare verso Fil 3,7-11 dove Paolo dice di voler diventare conforme a Cristo nella morte (v. 10) e fa questa affermazione alla fine di un brano in cui ha dichiarato di aver abbandonato la pratica della legge come strumento per arrivare alla giustizia.
Nei vv. 15-16 Paolo sembra puntare su quanto è essenziale, cioè essere una nuova creatura. Leggendo 2Cor 5,14-17 si comprende meglio il significato di quello che viene detto qui. L’essere nuova creatura è il frutto dell’amore di Cristo e della sua morte. La norma dunque è quella di non vivere più per se stessi, ma per Gesù, una norma che da pace a tutti, anche ad Israele che per Paolo è pure destinato alla salvezza (Rm 11,26).
Il v. 17 presenta il motivo per cui Paolo chiede che non venga più contestato e rattristato: egli è conformato anche fisicamente a Gesù. Chi sa se si tratta delle stigmate come ce le immaginiamo noi per alcuni mistici?
Molto più probabilmente Paolo allude qui a tutto quello che ha sofferto nell’annuncio del vangelo e che l’apostolo narra in 2Cor 6,4-5; 11,23-25. Sono queste sofferenze che egli ha sopportato per il vangelo a costituire il segno più chiaro della sua appartenenza a Gesù. In 1,10 si è dichiarato servitore (doulos), schiavo di Cristo. Nell’antichità gli schiavi portavano il marchio del loro padrone. Le cicatrici rimaste sul corpo di Paolo per le ferite ricevute durante l’apostolato lo dichiarano senza equivoco alcuno proprietà di Gesù.
Il v. 18 è un saluto affettuoso di ispirazione liturgica.
Vangelo: Luca 10,1-12.17-20
In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”. Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: “Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino”. Io vi dico che, in quel giorno, Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città». I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome». Egli disse loro: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli». |
Esegesi
Il brano presenta l’inizio e la conclusione della missione dei settantadue discepoli, omettendo i vv. 13-16 del capitolo 9 in cui Gesù si lamenta fortemente per la mancanza di fede di Corazin, Betsaida e Cafarnao in cui ha operato miracoli senza ottenerne la conversione.
1 – Il soggetto che agisce è Gesù nella sua qualità di «Signore», quindi nella sua veste regale. Come un sovrano, egli invita davanti a sé degli araldi con l’incarico di preparare la sua venuta. Ciò da già una prospettiva particolare alla missione, essa non è opera autonoma, annuncio di un proprio messaggio, ma preparazione di una presenza superiore realmente salvifica. Non si dimentichi che il titolo «Signore» indica Gesù nella sua nuova condizione di risorto, quindi qui Luca non vuole semplicemente narrare un fatto accaduto nel passato egli descrive l’attualità della Chiesa alla quale il suo «Signore» non lascia mancare gli annunciatori della salvezza. Luca stabilisce anche una salvaguardia alla unicità del ministero dei dodici. Questi settantadue vengono qualificati come «altri». Non si deve però pensare ad evangelizzatori di rango inferiore, perché all’origine del loro ministero c’è il medesimo gesto che Gesù ha compiuto per i dodici: «li inviò» (9,2). Il numero 72 e preso dalla versione greca (LXX) di Gen 10 dove viene data la tavola dei popoli ampliata di due unità rispetto all’originale ebraico. Il numero è dunque altamente simbolico, di una simbologia particolarmente cara a Luca, così interessato all’evangelizzazione dei pagani. Essa non risulterebbe così per lui esclusa dall’intenzione del Gesù terreno. I discepoli sono mandati a due a due per sottolineare l’attendibilità della loro testimonianza in base ai parametri della legge giudaica: Dt 17,6; 19,15.
2 – L’immagine della messe non ha, in questo caso sapore escatologico (cf. Gl 4,13; Is 27,12). Si tratta di completare l’opera di Gesù al quale è toccato il compito della semina (Lc 8,4-8). Luca, profondamente coinvolto nella missione paolina aveva un senso drammatico della vastità della missione. Nonostante questo, egli pone un principio preciso e irrinunciabile: l’esito della messe non dipende dallo sforzo umano, è unicamente nelle mani di Dio, padrone del vasto campo dell’evangelizzazione. Questa consapevolezza viene posta a fondamento della preghiera fiduciosa. La sproporzione altissima tra immensità del campo e quantità di operai può essere colmata solo dall’esaudimento della preghiera fiduciosa per avere le forze necessarie.
3-9 – Le istruzioni pratiche per la missione sono precedute da un’immagine che crea subito il clima nel quale la missione sarà portata avanti. Gli inviati saranno agnelli in mezzo ai lupi, lavoreranno dunque in un ambiente ostile e aggressivo. In quelle condizioni però essi devono rinunciare alla violenza e mantenersi nello spirito del discorso della pianura (Lc 6,27-35). L’equipaggiamento del missionario cristiano deve essere estremamente sobrio. Questa sobrietà va notata specialmente in Luca così sensibile al tema della povertà. Il fatto che i missionari non salutino nessuno lungo il cammino non è un invito alla maleducazione, ma una sottolineatura dell’urgenza della missione. L’ordine sarebbe meglio compreso se si conoscessero direttamente i costumi dell’antico vicino oriente che prevedevano per i saluti un cerimoniale complimentoso e ripetuto.
Ancora più importante tuttavia è il contenuto dell’annuncio. Il missionario è portatore di pace. Questa parola che costituisce il saluto tipico ebraico ha però un contenuto preciso. La pace è la caratteristica dell’epoca messianica (Is 9,5-6) e per conoscerne il contenuto basterebbe rileggere il salmo 72. Quel programma del re ideale, il messia appunto, viene realizzato in pieno da Gesù e i missionari devono essere i prosecutori della sua opera. Con la missione cristiana si estende il dominio pacifico di Gesù «da mare a mare e dal fiume sino ai confini della terra» (Sal 72,8). Ma ancora più interessante sarebbe riascoltare i vv. 12-14 del salmo che sono una sintesi di quanto Gesù ha compiuto nel suo ministero e una indicazione valida di programma per il missionario cristiano come certifica il v. 9 del nostro brano. I malati saranno i primi destinatari dell’annuncio e la loro guarigione è il segno che il regno si è realmente avvicinato. Viene così ripreso il contenuto della missione dei dodici: 9,2. Il saluto di pace deve essere dato prima di entrare in casa; è la condizione per verificare se vi è disponibilità ad accogliere il messaggio. Accertata questa condizione il missionario può restare senza scrupolo di pesare su chi lo ospita e senza chiedere di più rispetto all’ospitalità che viene offerta. Chi sa che non si trovi qui la problematica affrontata in 1Cor 9,4-18 dove si trova un detto di Gesù non registrato alla lettera dai vangeli. «Così anche il Signore ha disposto che quelli che annunciano il vangelo vivano del vangelo». Il divieto di passare di casa in casa verte ad evitare la dispersione e la tentazione di cercare un alloggio migliore. Per il v. 8 invece la questione è diversa. Viene affrontato il problema della promiscuità di cibo con i pagani. Mt e Mc non affrontano il problema nei loro discorsi missionari. Nella chiesa primitiva si trattava però di una questione molto sentita, basti pensare a Gal 2,11-14. Qui Luca si rifà ad una istruzione data da Paolo in 1Cor 10,27 e risulterà utile l’accostamento a At 10,9-16 in cui Pietro attraverso una visione riceve dal cielo la dichiarazione del superamento del problema della purità legale in ambito alimentare, visione che prelude all’accoglienza dei pagani nella Chiesa come avverrà con il battesimo di Cornelio (At 10,34-48).
10-12 – La missione cristiana non è garantita di successo, lo scacco, il rifiuto sono più di una probabilità. In questo caso si deve seguire il costume orientale di scuotere la polvere dai piedi, gesto che dice dissociazione totale. Con chi rifiuta positivamente e consapevolmente il vangelo il messaggero non vuole avere nulla da spartire neanche la polvere della città che è rimasta attaccata ai suoi piedi. Anzi il rifiuto del vangelo attira un giudizio ben più grave di quello riservato a Sodoma che secondo la Bibbia è l’iperbole del male. Il peccato di Sodoma non segna il limite della perversione. C’è un peccato più grande: la chiusura di fronte al vangelo.
17-20 – In 9,1 Gesù aveva dato ai dodici il potere di scacciare i demoni. Nel discorso appena commentato non se ne è fatto cenno, ma doveva essere incluso se i settantadue di fatto hanno operato esorcismi con successo. Il risultato positivo della missione ha riempito gli inviati di gioia. Il tema è assai caro a Luca che vede la gioia come la reazione umana alla salvezza operata da Dio. I settantadue sono ora il soggetto di quel sentimento e diventano così l’eco universale della gioia per la salvezza che si diffonde. Il detto su Satana è più problematico. Se ci rifacciamo a Gb 1,6-12; 2,1-7 3 Zc 3,1 in cui Satana è presentato come accusatore degli uomini davanti a Dio nel cielo significa che questa sua attività è finita, gli uomini davanti a Dio non hanno più accusatori. Se ci riferiamo a Ap 12 7-10 si alluderebbe al combattimento finale contro Satana dal quale Dio esce vincitore. Si prospetta pertanto la vittoria apocalittica. In ogni caso l’attività esorcistica dei missionari con risultati positivi è sintomo chiaro della vittoria definitiva sulle forze diaboliche. Da ultimo Gesù svela agli inviati il motivo vero della gioia: non tanto i fatti eccezionali di cui sono protagonisti nella missione bensì la conoscenza personale che Dio ha di loro e che sarà la loro eredità. I loro nomi infatti sono scritti in cielo.
Meditazione
Un annuncio di consolazione e di gioia parte da Gerusalemme e raggiunge il mondo intero; la gioiosa notizia della salvezza, l’evangelo della pace non cessa di risuonare e di richiamare all’unità l’Israele di Dio disperso. Simbolicamente questo annuncio unisce i testi della Scrittura proposti dalla liturgia della Parola di questa domenica. «Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa tutti voi che l’amate… Io vi consolerò; a Gerusalemme sarete consolati» (Is 66,10.13): è questo l’annuncio pieno di gioia che il profeta proclama al popolo di Israele che sta giungendo nella città amata dopo il lungo esilio babilonese. Gerusalemme ritorna ad essere una madre feconda e in questa maternità piena di tenerezza si riflette la compassione stessa di Dio quell’amore inesprimibile che infonde pace e che solo l’esperienza di una madre che ha cura del suo figlio può fare intuire: «…sarete allattati e portati in braccio e sulle ginocchia sarete accarezzati. Come una madre consola il figlio, così io vi consolerò…» (Is 66,12-13). La stessa gioia colma di pace risuona nell’evangelo affidato da Gesù ai discepoli: «Pace a questa casa è vicino a voi il regno di Dio!» (Lc 10,5.9). Ma l’orizzonte che si apre sotto lo sguardo del discepolo non è più ristretto nei limiti di una città: è come un campo immenso e colmo di grano maturo che deve essere raccolto, è l’abbondanza di una umanità che deve essere salvata, a cui l’evangelo porta la pace e la gioia (cfr. Lc 10,2). L’evangelo che rende vicino il Regno e che dona la consolazione ha però un volto: quello di Gesù, quello dell’amore fedele di Dio che non si arresta di fronte alle resistenze e alle infedeltà dell’uomo. L’evangelo della pace ha il volto del Crocifisso, della parola rifiutata e continuamente donata. Il discepolo che annuncia pace e consolazione, che guarisce e dona la salvezza, ha una sola forza che lo sostiene per le strade del mondo: la croce di Cristo. Stupendamente lo esprime Paolo concludendo la sua lettera ai Galati: «…non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo… e su quanti seguiranno questa norma sia pace e misericordia, come su tutto l’Israele di Dio» (Gal 6,14.16).
Il discepolo che è chiamato a donare l’evangelo al mondo deve farlo con lo stile stesso di Gesù. Ed è su questo aspetto che si sofferma maggiormente il discorso missionario di Luca al cap. 10 relativo all’invio dei settantadue discepoli. Nelle parole che Gesù rivolge ai discepoli si riflette la responsabilità della missione, della missione della comunità ecclesiale e di ogni singolo in essa, la posta in gioco dell’annuncio (il regno di Dio) e la conseguente trasparenza di stile e radicalità con cui questo deve essere proclamato. E si potrebbe dire che questa trasparenza è motivata anzitutto dal fatto che il discepolo inviato ad annunciar il Regno è colui che precede il volto di Gesù: «(Gesù) mandò messaggeri davanti a sé e questi si incamminarono…» (Lc 9,52).
Nella storia, nel mondo, il discepolo annuncia la venuta del Signore, l’approssimarsi del suo regno; ma gli occhi del discepolo sono sempre rivolti a Colui che annuncia e senza questa continua relazione di sguardi, la parola proclamata diventa solo parola umana. L’inviato non deve mai dimenticare che è il Signore a mandarlo nel mondo come apostolo – «…ecco, io vi mando» (10,3) – e che il contenuto dell’annuncio è il regno di Dio, qualcosa che non gli appartiene e che ha ricevuto gratuitamente (cfr. Mt 10,8).
Lo stile e, nello stesso tempo, la forza dell’annuncio sono custoditi nel paradosso: debolezza, mancanza di mezzi, pericolo, rifiuto, ma anche fiducia, libertà, pace, salvezza, accoglienza. L’immagine della messe immensa e abbondante con cui Gesù apre il suo discorso, contrasta con lo sparuto gruppo di ‘mietitori’ chiamati a lavorare il questo campo. Eppure sta qui, in questo contrasto, la forza della missione: «Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!» (10,2). I discepoli, consapevoli di essere piccolo gregge a cui è affidato un compito immenso, si aprono così alla lucida consapevolezza che il regno non è loro, ma di Dio: lui ha cura affinché esso cresca e raggiunga gli estremi confini della terra. Lo stile della missione allora si nutre della preghiera: essa è il segno umile di chi lavora in un campo che non è suo, sapendo che ciò che ha seminato sicuramente crescerà, nei tempi e nei modi che Dio stesso, il signore della messe, sceglie.
C’è tuttavia una seconda immagine che presenta la missione dei discepoli come un cammino fatto di contrasti e confronti: il discepolo è come un agnello mandato non in un recinto sicuro, ma in mezzo a dei lupi (cfr. v. 3). Il discepolo deve essere cosciente che la parola annunciata provocherà tensioni e giudizio; è una parola di salvezza, ma deve essere accolta. E la sua valenza di giudizio può provocare rifiuto. Questo determina tutto un modo di porsi di fronte al mondo, modo che Gesù descrive attraverso simboli e atteggiamenti. Il rapporto con il mondo è delicato: c’è un rischio ed è quello che potrebbe trasformare il discepolo o in un carrierista che cerca successi e consensi oppure in uno spietato giudice nei confronti del mondo cattivo e crudele. Non è questo lo stile che Gesù insegna al discepolo. Questi non deve mai dimenticare che è inviato al mondo e ogni uomo è il destinatario dell’evangelo; il mondo è ‘capace’ dell’evangelo. Ma nel mondo agisce anche una logica idolatrica, anti-evangelica: da questa deve guardarsi il discepolo. Ecco allora la radicalità della testimonianza che deve rendere trasparente l’essenziale dell’annuncio: niente di superfluo nei mezzi usati (e qui Lc 10,4, nell’elencare l’equipaggiamento, è ancora più radi-cale di Mc 6,8-9). E poi una libertà da legami e logiche di potere: lo stile del discepolo deve esser discreto e convincente allo stesso tempo, aperto ad ogni uomo, lontano da un certo mondo caratterizzato dal vuoto verbalismo e dalla ricerca di beni (cfr. vv. 4-8). Nella precarietà (accoglienza o rifiuto), il discepolo impara a non preoccuparsi di se stesso, della riuscita o meno del suo annuncio, ma solo del dono contenuto in questo annuncio, la pace e la salvezza che Dio offre ad ogni uomo (cfr. vv. 9-10).
Il discepolo che si lascia plasmare da questo stile è sicuro della riuscita della sua missione? Sì e no. Il discepolo sa che questo stile è quello vissuto da Gesù e quindi, misteriosamente, sa che in esso è custodita la forza del regno che, come chicco nascosto sotto terra, produrrà il frutto abbondante. Ma lo sguardo del discepolo, umanamente, può incontrare il fallimento, nonostante tutto: «…quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle piazze e dite: …sappiate però che il regno di Dio è vicino» (v. 10-11). La radicalità dell’annuncio incontra nel rifiuto la prova e la spogliazione più dura: il discepolo è chiamato a staccarsi anche da una legittima gratificazione, cioè vedere l’evangelo accolto. Un annuncio che si avvale solo della parola e della testimonianza in favore del Regno, può essere esposto al rischio del fallimento; così è avvenuto per Gesù, così avviene per il discepolo. Il Regno però non si ferma: nonostante tutto deve essere annunciato. Il discepolo sa che, tra il rifiuto e il giudizio (cfr. vv. 13-15), il Signore pone un tempo di pazienza e di conversione e questo tempo può veramente diventare, nuovamente, la forza per riprendere l’annuncio. Il discepolo è un umile e povero operaio nella messe del Signore: questa è la sua vera gioia.