Natività di San Giovanni Battista, patrono della città di Firenze
[Is 49,1-6; Sal 138; At 13,22-26; Lc 1,57-66.80]
La casa di Zaccaria ed Elisabetta si riempie di gioia: è nato un bambino. Una nascita attesa tutta una vita, accolta come un dono in cui si scorge la manifestazione della misericordia, l’intervento della mano di Dio.
A tutto questo, dobbiamo confessarlo, molti oggi si sentono estranei. Riconoscere la nascita come una benedizione è incomprensibile per una società dalle culle vuote, che in questa disaffezione alla vita esprime la sua mancanza di speranza e di futuro. Disillusi da un presente che ci pesa sempre di più e nel quale fatichiamo a orientarci, stentiamo a pensare che la vita possa essere un bene da comunicare ad altri, un progetto di cui farsi carico con tutte le sue difficoltà, convinti che sarà difficile trovare chi ci dia una mano nel compito, tantomeno uno Stato oggettivamente assente su questo fronte, che pur dovrebbe essere il primo di ogni volontà di sviluppo.
Se vogliamo dare una svolta alla crisi sociale in cui siamo precipitati, tutto dovrebbe ripartire proprio da questo sguardo positivo sulla vita, vincendo la paura che ci tarpa le ali. Abbiamo bisogno di fiducia nel futuro, riscoprendo la vicenda umana come un progetto spalancato sul domani, da costruire nella fatica ma anche nella gioia di sentircene protagonisti; guardando al mondo come la scena sulla quale siamo chiamati a interpretare quel confronto tra vita e morte, tra istanze negative e semi di bontà, tra miserie e grandezze che è il nucleo della storia umana, così come l’ha rivelata la Pasqua di Gesù. Abbiamo bisogno di fiducia nell’altro, che non è un temibile concorrente da schivare o un nemico da abbattere o un intruso da cacciare, ma il fratello di una convivenza in cui ciascuno cresce grazie al riconoscimento nell’altro e dell’altro e ci si edifica nella rete delle relazioni che formano il tessuto di una comunità e di una società, tanto più ricca quanto più ampia, includente, armonicamente varia. Abbiamo infine bisogno di fiducia in Dio, che la cultura odierna troppo spesso identifica con un limite imposto all’uomo e quindi come una presenza da emarginare e negare, perché non si riconosce che solo il legame con la trascendenza libera l’uomo dai suoi limiti, lo innalza oltre la schiavitù dei bisogni materiali e di quelli indotti dal sistema dei consumi, per aprirlo agli orizzonti gratificanti della verità, della bontà e della bellezza.
Solo questa fiducia può ridare futuro al riconoscimento della dignità della persona e della ricchezza delle sue relazioni di cui oggi abbiamo bisogno. Di fronte a noi c’è il compito urgente di ricostruzione del soggetto umano nelle sue dimensioni costitutive. Mi limito a due soli esempi che colgo dalle cronache di questi giorni.
Il primo riguarda la destrutturazione in atto nella nostra cultura della natura propria della generatività, senza cui non c’è storia per l’umanità. È quanto sta accadendo con i tentativi di legalizzare la cosiddetta ‘gestazione per altri’ ‘ come viene definita nella neo-lingua di stampo orwelliano la mostruosa pratica dell’utero in affitto ‘, ultima, per ora, forma di mercificazione del tutto, che giunge a toccare il corpo della donna e il mistero della nascita.
Il secondo è la diffusione di processi che intaccano il concetto fondamentale di uguaglianza degli esseri umani, con l’introduzione di formule di priorità che negano la pari dignità di ogni persona e, per quanto ci riguarda, vanno a confliggere con il fatto che se c’è una priorità ammessa dal Vangelo ‘ e lo stesso ritengo che si possa di dire della nostra Costituzione ‘ è quella che va riconosciuta ai poveri.
Nella nascita di Giovanni e poi nell’immagine che di lui ci offre l’apostolo Paolo negli Atti degli Apostoli, ma già nelle parole profetiche di Isaia, il Battista appare tutto proteso nel porsi al servizio della venuta di Cristo, per creare le condizioni favorevoli alla sua presenza e al suo riconoscimento da parte degli uomini. Sentirci al servizio gli uni degli altri e, per i credenti, sentirci al servizio di Cristo e del suo Vangelo, costituisce dunque una componente fondamentale della testimonianza di Giovanni, da raccogliere e fare nostra. E il Precursore non solo ci indica un compito, ma ne offre anche alcune coordinate significative.
Il suo servizio è stato anzitutto un richiamo coraggioso e senza sconti alla conversione dei cuori. Si apre di fronte a noi il campo vasto della mentalità diffusa, da denunciare nelle sue contraddizioni e da illuminare per orientarla verso un vero umanesimo. Occorre purificare il pensare comune, a cominciare dal superamento del politicamente corretto, per ricostruire un giudizio critico, oltre i luoghi comuni, e la progettualità, oltre il ‘si è fatto sempre così’. La corrosione dell’umano ha raggiunto livelli preoccupanti: ci troviamo in scenari in cui da una parte la specificità della persona umana non si distingue più dal mondo animale e dalla natura in genere, mentre dall’altra ci si prospetta il trapasso verso un post-umano o un trans-umano che, in forza di un biologismo esasperato e del potere del pensiero artificiale, uccidono la coscienza, dissolvono il legame tra materia e spirito, azzerano le ragioni della solidarietà. Abbiamo bisogno di ribadire con forza le ragioni della persona e dei suoi legami sociali, ritornando alle radici più autentiche del nostro umanesimo.
L’agire del Battista è inoltre tutto proiettato verso il futuro, in un sacrificio di sé che alla fine lo porta a scomparire dietro il Signore Gesù. La sua esistenza è un cammino di crescente umiltà. Ci troviamo ancora a confliggere con uno dei dogmi del pensiero dominante, in cui l’affermazione di sé prevale su ogni altro interesse e il servizio umile non gode dei favori del mondo. La testimonianza del Battista ci invita invece a pensare che ci si realizza proprio quando si pone la propria esistenza al servizio della verità e del bene, che i cristiani riconoscono nel volto di Gesù, ma che ogni uomo può riscoprire come tracce sedimentate nel profondo del proprio cuore.
Vale per ciascuno e vale per il nostro vivere insieme, per la città. Anche la città ha bisogno di sentire la sua chiamata a ricostruire ogni giorno la propria identità. Questo perché la città non è un contenitore immobile di singole vicende, ma un vero e proprio organismo, in cui ciascun membro ha la propria irrinunciabile funzione, in cui ogni cellula contribuisce al benessere dell’intero corpo sociale, in cui l’organismo salva la propria identità attraverso il suo sviluppo, pena il decadimento. A questa immagine di città che vive ciascuno è chiamato a dare il suo contributo, e perché ciò avvenga è essenziale che si salvaguardi lo spazio delle possibilità e delle responsabilità, secondo il principio di sussidiarietà, che salvaguarda le soggettività locali a fronte delle istanze centraliste e valorizza le vitalità della società civile a fronte del ruolo proprio ma limitato delle istituzioni.
Sono queste le condizioni perché restino vive le radici e ci si proietti verso il futuro, in cui continuare la nostra missione di ‘città sul monte’.
Giuseppe card. Betori
Arcivescovo di Firenze