card. Gianfranco Ravasi – Da diciotto anni con la schiena curva

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Un giorno Cristo aveva osato dichiarare, colpendo uno dei tanti tabù sacrali del giudaismo: «Il Figlio dell’uomo è Signore del sabato!» (Luca 6,5). Eppure egli, da buon ebreo, frequentava di sabato la sinagoga e proprio durante il culto amava talora intervenire con i suoi insegnamenti. Aveva fatto così anche in una giornata di sabato all’interno di una sinagoga mentre stava compiendo il suo lungo e ultimo viaggio verso Gerusalemme, un percorso che occupa il corpo centrale del terzo Vangelo (13,10-17).

Aveva in quell’occasione notato una donna che da diciotto anni aveva la spina dorsale piegata al punto tale da «non riuscire in alcun modo a stare diritta» (13,11; la frase può essere tradotta anche così: «Non riusciva ad alzare completamente la testa»). Gesù la nota, la chiama a sé, le impone le mani e proclama: «Donna, sei liberata dalla tua malattia» e quella si raddrizza felice, benedicendo Dio. C’era, però, tra «la folla intera che esultava per tutte le meraviglie da lui compiute» (13,17) anche il capo della sinagoga che, invece, aveva reagito sdegnato.

Egli, come tutti i praticanti rigidi e fin fanatici, attenti soltanto alla norma, al rito esteriore, all’osservanza legalistica, non tollerava che venisse violato il sabato con quell’atto, una guarigione, che egli considerava un lavoro. È noto, infatti, che era in vigore una regolamentazione puntigliosa con un elenco delle opere da escludere per non infrangere il riposo sabbatico. In questa concezione il rito travalica l’umanità, il primato va alla norma e non alla persona.

Non è la prima volta che Cristo stravolge questa concezione fondamentalista che in realtà fa perdere al sabato il suo valore profondo di quiete interiore, di incontro con Dio, di distacco dalle cose. Lo aveva fatto a Cafarnao per un uomo che aveva la mano destra paralizzata (Luca 6,6- 11). Lo farà ancora, mentre sarà ospite nella casa di un capo dei farisei per festeggiare il sabato, guarendo un malato di idropisia (14,1-6). In un’altra occasione aveva giustificato i suoi discepoli che di sabato «coglievano e mangiavano le spighe sfregandole tra le mani» e, quindi, compiendo un gesto “lavorativo” (6,1-5).

Noi che stiamo interessandoci alle molte pagine “femminili” di Luca abbiamo privilegiato questa donna dalla schiena curva. Reagendo alla critica del capo della sinagoga e riflettendo la nota mentalità comune di allora secondo la quale si vedeva nelle malattie in azione uno spirito maligno, Gesù ribadisce il primato della carità sulla ritualità: «Questa figlia di Abramo, che Satana ha tenuto prigioniera per ben diciotto anni, non doveva essere liberata da questo legame nel giorno di sabato?» (13,16). La compassione amorosa aveva, così, prevalso sulla fredda lettera della legge. Come aveva insegnato il profeta Osea in un oracolo divino caro anche a Cristo, il Signore «vuole l’amore, non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti» (Osea 6,6; Matteo 9,13; 12,7).

Fonte: Famiglia Cristiana