card. Gianfranco Ravasi – Come una chioccia con i suoi pulcini

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È certamente inattesa la figura femminile che questa volta estraiamo dalle pagine del Vangelo di Luca. Prima, però, ricostruiamo la cornice entro cui le parole di Cristo sono collocate. Egli, come fanno tutti i pellegrini in Terra Santa, è forse sul monte degli Ulivi e contempla la città santa e sulle sue labbra sboccia una sorta di lamento amaro che è ripreso anche da Matteo (23,37-39): «Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono mandati a te: quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia i suoi pulcini sotto le sue ali, e voi non avete voluto!» (13,34).

Più avanti, quando il suo viaggio verso Gerusalemme sarà compiuto e sarà «in vista della città, Gesù pianse su di essa», presentendo il destino di distruzione che l’evangelista descrive poi con la sua esperienza dell’assedio e della rovina della città santa nel 70 d.C. sotto le armate romane di Tito (19,41-44). Noi ora sentiamo nella voce di Cristo il fremito di amore e di dolore per la fine di quello che è quasi il cuore spirituale di ogni ebreo, marcato allora dalla presenza del tempio di Sion.

Ma ritorniamo alla curiosa immagine femminile di taglio materno che Gesù applica a sé stesso. Sappiamo che egli, come ogni persona che appartiene al mondo contadino, ama gli animali: parla, infatti, di pesci, di pecore, di capre, di uccelli vari, di cani, di scorpioni, di asini, di volpi, di serpenti, di porci e così via. Tra costoro c’è anche il gallo ammonitore di Pietro e ora la gallina, ma nella sua funzione “materna” (a margine ricordiamo che questi due animali sono assenti nell’Antico Testamento).

La scenetta è piuttosto tenera ed è ancor oggi di facile incontro all’interno di un pollaio: una chioccia, in greco órnis, evocata nel Nuovo Testamento solo in questo caso, allarga le sue ali e protegge i suoi pulcini che accorrono verso il suo calore che dà sicurezza. Letteralmente Luca non usa come Matteo il vocabolo greco nossíon, il piccolo di un uccello, il pulcino, bensì nossiá, la “covata”. I gallinacei nella Palestina di allora venivano allevati sia per le loro uova considerate commestibili, come ricorda lo stesso Gesù (Luca 11,12) e per la carne, ma anche per una fruizione specifica, fungendo quasi da orologio: la terza delle quattro veglie notturne era detta “del canto del gallo” (attorno alle 3 o 4 del mattino).

Il valore simbolico espresso dalle parole di Cristo riguarda, però, una virtù di cui si sta perdendo il gusto e che potremmo, un po’ liberamente, assegnare soprattutto alla femminilità, cioè la tenerezza. Essa è fatta di delicatezza, di sentimento, di passione, di lievità, di mitezza. Pensiamo all’autoritratto che Gesù fa di sé stesso: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore e troverete ristoro per la vostra vita» (Matteo 11,29). In un certo senso l’idea è parallela a questa della chioccia: egli sognava di raccogliere i figli di Israele in un abbraccio di tenerezza e di protezione. In un mondo così frenetico, in cui le relazioni sono solo di pelle, cioè esteriori e superficiali, oppure virtuali, legate alla freddezza di un cellulare o di un computer, è importante tornare a questa virtù “materna”.

Fonte: Famiglia Cristiana