Prima lettura: Proverbi 8,22-31
Così parla la Sapienza di Dio: «Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra. Quando non esistevano gli abissi, io fui generata, quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua; prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io fui generata, quando ancora non aveva fatto la terra e i campi né le prime zolle del mondo. Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell’abisso, quando stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non ne oltrepassassero i confini, quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo». |
Che quanto il Padre possiede sia anche tutto del Figlio si può cominciare a capirlo da questo passo, culmine del lungo prologo del libro dei Proverbi (Pr 1,8-9,18). Là il maestro parla della sapienza al discepolo come il padre al figlio e la stessa Sapienza parla di sé due volte (Pr 1,20-32 e 8,1-36), in una personificazione letteraria, non filosofica o teologica. La seconda volta essa fa questo discorso sulla propria origine, preceduto dalla raccomandazione a seguire lei e i suoi insegnamenti (Pr 8,1-21) e seguito dall’invito ad essere ascoltata (Pr 8,32-36). Delle sue origini parla con riferimenti al racconto della creazione di Gen 1 e con importanti approfondimenti su quello che la parola di Dio dice e lo spirito opera. Prima afferma la sua priorità su tutto quanto esiste e poi la sua presenza nell’opera creatrice.
La priorità su tutto quanto esiste (Pr 8,22-26) pone la Sapienza in rapporto unico con Dio. Da lui, quando nulla ancora esisteva, è stata «creata» (v. 22), nel senso di acquisita e posseduta quasi fosse una persona (cf. Gen 4,1), un’idea resa ancor meglio poi con «generata» (vv. 24s). Da lui fu «costituita» sulle sue opere, con una specie di investitura regale, «dall’eternità» (v. 23) specificata nel senso dei tempi più remoti con le espressioni «fin dal principio, dagli inizi della terra» e «come inizio della sua attività» (v. 22). «Fin dal principio» può esser inteso anche come «alla base» dell’agire divino, aggiungendo alla priorità temporale quella del modello della causa esemplare.
La presenza nella creazione (Pr 8,27-31) pone la Sapienza in un rapporto speciale con tutte le opere di Dio. «Io ero là» (v. 26) non significa di per sé una presenza attiva. Ma poi «Io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno» (v. 30) dice una partecipazione al compiacimento divino, ripetuto in Gen 1 con «vide che era cosa buona». E il successivo «dilettandomi» presenta la Sapienza anche come suscitatrice della gioia in ogni opera creata da Dio, in generale sul globo terrestre e in particolare «tra i figli dell’uomo» (v. 31). Quest’ultimo aspetto è portato avanti poi da Sir 24 e da Sap 7,22-8,1.
Il brano liturgico non rivela dunque ancora la Trinità. Ma è tra quelli che più da vicino, nell’Antico Testamento, hanno preparato la rivelazione della seconda Persona come Sapienza e Parola eterna che procede dal Padre e opera in sintonia con lui. Aiuta a capire l’affermazione di Gesù: «Tutto quello che il Padre possiede è mio» (Vangelo), alla luce del prologo di Giovanni che si ispira a questo passo dei Proverbi (Gv 1,1-18 in particolare 1,3-4), come poi anche l’inno cristologico di Col 1,15-20 e l’esordio della lettera agli Ebrei (Eb 1,2-4). E della paternità di Dio apre la prospettiva cosmica, oltre a quella strettamente religiosa.
Seconda lettura: Romani 5,1-5
Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio. E non solo: ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. |
Idea dominante di questo passaggio della lettera ai Romani è la speranza viva accesa in noi dalla giustificazione o recupero dal peccato e dalle mirabili prospettive di vita nuova, per il dono della grazia di Cristo e per l’amore dello Spirito Santo: inizia gli sviluppi che da Rm 5 culminano in Rm 8. Tutta la Trinità vi appare, ma è opera soprattutto dello Spirito Santo il sostegno nel cammino della speranza, nominata qui da Paolo per tre volte, in altrettante riprese del pensiero.
Prima (vv. 1-2) egli dice che la risposta di fede al dono della grazia di Cristo mette nella pace con Dio, che nella Bibbia vuol dire crescita armoniosa e piena della vita. A tale pace si accompagna un «vanto» particolare, nel senso anche di ambizione, ma nel significato più santo e profondo, quale il gloriarsi per un fondamento sicuro della vita. È un vanto che si proietta nella speranza nientemeno che «nella speranza della gloria di Dio», cioè di arrivare a tutta la ricchezza e lo splendore dell’opera di salvezza voluta dal Padre (cf. Rm 8 ed Ef 1,3-14).
Poi (vv. 3-4) l’apostolo fa un passo indietro a indicare quasi un supporto pure umano della speranza. Dice infatti che motivo del vanto è anche il travaglio che continua ad essere richiesto al credente per vivere la fede. Perché è un travaglio che costruisce e solidifica la speranza, salendo quattro ideali gradini: dalla tribolazione o persecuzione alla pazienza o capacità di sopportare, dalla pazienza all’irrobustimento della virtù, e da questo alla sicura speranza.
Infine (v. 5) torna al fondamento divino per il quale la speranza cristiana non può andare delusa: l’amore di Dio nei nostri cuori, cioè nelle profondità più intime delle nostre persone. Si tratta primariamente dell’amore che Dio ha per noi, portato e alimentato dentro di noi dallo Spirito Santo. Ma, al culmine degli sviluppi di questa parte della lettera, Paolo dirà che lo Spirito Santo rende attivi anche noi nella corrispondenza allo stesso amore, in quanto: ci fa gridare «Abbà, Padre!»; sostiene il gemito per la rivelazione al mondo dei figli di Dio, paragonabile alle doglie di un parto; e ci mette dentro con gemiti inesprimibili i desideri e quello che è conveniente domandare per la piena realizzazione dei disegni amorosi di Dio (cf. Rm 8,15-16.22-24,26-27).
Vangelo: Giovanni 16,12-15
In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà». |
Esegesi
In questo brano del secondo discorso dell’ultima Cena (Gv 15-16), Gesù torna sulla promessa dello Spirito Santo. Nel primo discorso ne aveva annunciato l’opera a favore della comunità dei discepoli (Gv 14,16-17.25-26), adesso ne prospetta la testimonianza di fronte al mondo, che opererà in un duplice modo (cf. Gv 15,26): come diretto accusatore del mondo nelle coscienze umane (Gv 16,5-11) e come guida nella testimonianza che anche i discepoli hanno da dare, nel continuo e impegnativo sviluppo dell’esistenza dentro al mondo (la lettura odierna). Destinatario del messaggio sono le comunità cristiane della fine del primo secolo e, insieme con loro, tutte le successive impegnate nella lotta contro il male e nella propria crescita.
Lo Spirito Santo — dice Gesù — sarà intermediario, lungo la storia, fra le Persone divine e noi. Sta per prendere il suo posto e dirà ai discepoli le cose che egli ora non può dire loro, perché non sono in grado di portarne il peso. Non è che manchino di intelligenza, ma il mistero suo e della Trinità hanno bisogno dell’esperienza vissuta per essere approfonditi. E le esigenze concrete della testimonianza si manifestano alla prova dei fatti, spesso tra ostacoli e persecuzioni: là lo Spirito sarà davvero l’altro Consolatore o Paraclito o Avvocato sostenitore. Questa azione è annunciata con le due frasi: «vi guiderà a tutta la verità» e «vi annuncerà le cose future», o meglio «venute o venienti», perché si tratta non del futuro lontano, ma di quello che istante per istante arriva al nostro presente e che anche noi chiamiamo avvenimenti.
Questo annuncio e questa guida realizzano la mediazione dello Spirito Santo anzitutto tra la seconda persona della Trinità, Gesù Cristo, e noi. È Cristo infatti «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). E in riferimento a lui il Paraclito è «lo Spirito della verità» (a questo senso del testo originale è tornata la nuova versione della CEI, correggendo il generico «Spirito di verità» ancora in uso). Infatti: «non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito… prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà». Quest’ultimo verbo è ripetuto per tre volte alla fine degli ultimi tre versetti: «ananghèlei», un annunciare dall’alto, che vuol dire rivelare e insieme progressivamente attualizzare.
L’ultimo versetto accenna alla mediazione dello Spirito Santo tra la prima persona della Trinità, il Padre, e noi. Essa passa per l’opera del Figlio. Perché, se lo Spirito guida alla verità tutta intera che è Cristo, prendendo del suo, Gesù aggiunge: «tutto quello che il Padre possiede è mio». Questa estensione si intende bene con il Prologo di Giovanni (Gv 1,1-18), che al Padre attribuisce la creazione e la storia della salvezza, operate e rivelate mediante il Figlio e nel Figlio, l’Unigenito. E spiega l’inserimento liturgico come prima Lettura del brano sulla Sapienza eterna di Dio.
Meditazione
Solennità della Santissima Trinità. Una festa di recente istituzione, storicamente ben databile, che ci aiuta a concentrare l’attenzione in modo specifico sulle persone del Padre, del Figlio e dello Spirito santo. Noi siamo soliti parlare genericamente di Dio, cerchiamo di cogliere i tratti del suo volto a partire dalla sua Parola e in particolar modo a partire dall’esperienza di Gesù, che ce lo ha «rivelato» (Gv 1,18). Ma ‘dimentichiamo’ sia lo Spirito santo sia di fissare lo sguardo sulla ‘vita interna’ di Dio, sulla sua interiorità più profonda… Ardua impresa, si potrebbe obiettare: già è difficile capire cosa si annida nel cuore di un essere umano, figuriamoci in quello di Dio! Ma è Gesù stesso, la nostra via (cfr. Gv 14,6) per eccellenza, che ci abilita e anzi ci stimola a questa ricerca. È possiamo cercare di addentrarci nel segreto della vita intima di Dio a partire dal brano evangelico dell’evangelista Giovanni, tratto dai cosiddetti ‘discorsi d’addio’ – che giustamente qualcuno ha definito ‘discorsi di arrivederci’, in quanto sono finalizzati a nuovo incontro tra noi e Gesù. In questi dialoghi con i suoi discepoli, pronunciati poche ore prima della tragica conclusione della sua esistenza, Gesù ha raccolto i desideri, le preoccupazioni, le consegne e le parole che maggiormente gli stavano a cuore. E se queste espressioni ci vengono presentate a un altissimo livello di densità e di profondità – così come è per ogni testamento – siamo allora invitati a moltiplicare la nostra attenzione e la nostra ricerca. Anche la colletta di questa eucaristia ci esorta affinché «nella pazienza e nella speranza, possiamo giungere alla piena conoscenza di te, che sei amore, verità e vita».
I quattro versetti (Gv 16,12-15) del brano evangelico si aprono con la disincantata affermazione di Gesù ai discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso» (v. 12). Troppi fatti avvenuti nelle ultime ore, troppe parole ancora da rielaborare: troppo… di tutto! Capita a chiunque, in momenti particolarmente densi, di non avere più ‘spazio’ per accogliere altre indicazioni e stimoli dalla vita: ci vuole una pausa e uno stacco. Ma… se non ora, quando?
Gesù non ha più tempo! Il suo tempo, la sua ‘ora’ (cfr. Gv 2,4) è ormai imminente! È stupefacente osservare la signoria con cui Gesù allora apre all’azione dello «Spirito della verità» (v. 13) e richiama la perfetta comunione tra Lui e il Padre: «Tutto quello che il Padre possiede è mio» (v. 15). Gesù appare perfettamente padrone della situazione e del tempo, non introduce ‘a denti stretti’ il Padre e lo Spirito, quasi a rincalzo e a delega di una sua incapacità a compiere tutto quanto si era prefissato. No, egli sa bene – potremmo dire per esperienza diretta e costante – che è divino non solo il donare ma anche il ricevere, l’offrire come anche l’accogliere. Questo è forse il tratto che ci colpisce maggiormente: la piena condivisione di intenti e di operazioni all’interno della Trinità, condivisione che diviene simbolo e modello per la Chiesa e per ogni compagine umana. L’amore si alimenta in un incessante dare e ricevere e Dio stesso vive così! Un vero leader non fa tutto da solo ma cerca collaborazione e apre volentieri lo spazio all’azione di altri, che completano la sua opera, approfondendola e cogliendone tutte le implicazioni (cfr. vv. 13-14). Non c’è traccia di alcuna forma di durezza, rigidità o autosufficienza: Gesù coinvolge in questo circolo addirittura i suoi discepoli, prolungando l’azione della Trinità stessa! C’è da rimanere stupiti e quasi disorientati da tanta stima e generosità!
Il brano della Lettera ai Romani che costituisce la seconda lettura liturgica riprende la medesima immagine: «l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo che ci è stato dato» (5,5). C’è un dono che ci raggiunge e, se accettiamo di accoglierlo con riconoscenza, ci abilita a un’azione missionaria capace di renderci forti e maturi perfino nelle tribolazioni (cfr. vv. 3-4). La delizia di Dio (cfr. Pr 8,30-31; prima lettura), del Padre, del Figlio, dello Spirito santo risulta allora essere quella di coinvolgere in questa dinamica d’amore ogni essere umano, svelandoci in tal modo la elementare e gioiosa essenza della propria intimità. Domandiamo ancora al Dio uno e trino lo stupore e il coraggio di partecipare in pienezza «a questa grazia nella quale ci troviamo» (Rm 5,2).