Commento al Vangelo del 16 Giugno 2019 – p. Fernando Armellini

Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 16 Giugno 2019.
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Trinità: Dio solitario o Dio comunione?

Qual è la carta d’identità dei cristiani? Quale caratteristica li distingue dai seguaci delle altre religioni?

Non l’amore al prossimo: anche gli altri – lo sappiamo – fanno del bene. Non la preghiera: anche i musulmani pregano. Non la fede in Dio: l’hanno anche i pagani. Non basta credere in Dio, importante è sapere in quale Dio si crede. È un “qualcosa” o un “qualcuno”? È un padre che vuole comunicare la sua vita o un padrone che cerca nuovi sudditi?

Gli Islamici dicono: Dio è l’assoluto. È il creatore che abita lassù, governa dall’alto, non scende mai, è giudice che attende per la resa dei conti.

Gli Ebrei – al contrario – affermano che Dio cammina con il suo popolo, si manifesta dentro la storia, cerca l’alleanza con l’uomo.

I cristiani celebrano oggi l’aspetto specifico della loro fede: credono in un Dio Trinità. Credono che Dio è il Padre che ha creato l’universo e lo dirige con sapienza e amore; credono che egli non è rimasto in cielo, ma, nella sua immagine, il Figlio, è venuto a farsi uno di noi; credono che egli porta a compimento il suo progetto di amore con la sua forza, con il suo Spirito.

Ogni idea o espressione di Dio ha una ricaduta immediata sull’identità dell’uomo.

In ogni cristiano deve essere riconoscibile il volto di Dio che è Padre, Figlio e Spirito. Immagine visibile della Trinità dev’essere la chiesa che tutto riceve da Dio e tutto gratuitamente dona, che è tutta proiettata, come Gesù, verso i fratelli, in un atteggiamento di disponibilità incondizionata. In essa la diversità non è eliminata in nome dell’unità, ma è considerata un arricchimento.

Si deve cogliere l’impronta della Trinità nelle famiglie divenute segno di un autentico dialogo d’amore, d’intesa reciproca e di disponibilità ad aprire il cuore a chi ha bisogno di sentirsi amato.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Il tuo volto io cerco, Signore, non nascondermi il tuo volto”.

Prima Lettura (Prv 8,22-31)

La Sapienza di Dio parla:
22
“Il Signore mi ha creato all’inizio della sua attività,
prima di ogni sua opera, fin d’allora.
23 Dall’eternità sono stata costituita,
fin dal principio, dagli inizi della terra.
24 Quando non esistevano gli abissi, io fui generata;
quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua;
25 prima che fossero fissate le basi dei monti,
prima delle colline, io sono stata generata.
26 Quando ancora non aveva fatto la terra e i campi,
né le prime zolle del mondo;
27 quando egli fissava i cieli, io ero là;
quando tracciava un cerchio sull’abisso;
28 quando condensava le nubi in alto,
quando fissava le sorgenti dell’abisso;
29 quando stabiliva al mare i suoi limiti,
sicché le acque non ne oltrepassassero la spiaggia;
quando disponeva le fondamenta della terra,
30 allora io ero con lui come architetto
ed ero la sua delizia ogni giorno,
dilettandomi davanti a lui in ogni istante;
31 dilettandomi sul globo terrestre,
ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo”.

La prima lettura introduce il tema della Trinità parlandoci del Padre, creatore dell’universo. La sua opera sapiente è presentata con immagini suggestive che, per essere comprese, hanno bisogno di un breve cenno sulle concezioni cosmologiche alle quali si ispirano.

I popoli antichi immaginavano il mondo costruito su tre piani:

la terra dove abitano gli esseri viventi;

il sottosuolo, regno dei morti, dei fiumi infernali e delle acque oscure degli abissi che alimentano le sorgenti e i fiumi e ove sono poste anche le enormi colonne su cui è posata la terra;

– infine, sostenuto dai “monti eterni” (Dt 33,15), c’è il piano superiore, il cielo, costituito da una lamina di cristallo lucente che trattiene le acque superiori. Da cataratte che si aprono e si chiudono, Dio fa uscire piogge, nevi e rugiade. A questo firmamento sono appesi gli astri, le stelle, i pianeti, la luna e il sole che si muovono e percorrono il loro cammino su vie appositamente tracciate.

Come è nato questo cosmo affascinante e misterioso che ci circonda e ci sovrasta? Lo spiega la lettura.

Prima di ogni cosa, Dio fece la Sapienza. L’autore del libro dei Proverbi la immagina come una ragazza incantevole che il Signore vuole, fin dall’inizio, accanto a sé, per farle seguire e contemplare tutta la sua attività (vv.22-23). È in sua presenza che egli crea l’universo.

Comincia la sua opera sotto terra: sistema gli abissi e prepara le sorgenti abbondanti che alimentano i fiumi e i mari (v.24), fissa le basi delle montagne, fa emergere la terra dalle acque e forma le zolle dei campi (vv.25-26), mentre la Sapienza gli siede sempre accanto e lo ammira stupita.

Poi ordina i cieli con le nubi, pone un cerchio lungo l’orizzonte per separare le acque che si trovano sopra il firmamento da quelle dell’abisso e stabilisce un limite al mare (vv. 27-29).

La scena con cui si chiude la lettura (vv.30-31) è deliziosa e richiama il giudizio di Dio al termine dell’opera creatrice: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31).

È tutta un’esplosione di felicità. La Sapienza afferma di essersi rallegrata e di aver danzato, tutto il tempo, felice davanti a Dio, mentre egli si deliziava della  sua presenza. Infine manifesta il suo desiderio di rimanere sulla terra per sempre, la sua gioia, infatti, è stare fra gli uomini (vv.30-31).

Che significano queste immagini?

Quando si riflette su ciò che accade nel mondo, sulle catastrofi, sulle atrocità che vengono commesse, è facile venire non solo sfiorati, ma spesso attanagliati dal dubbio che l’universo sia frutto del caso, che tutto sia solo confusione, che nulla abbia un senso.

La lettura assicura: il creato è uscito dalle mani di un Padre provvidente e saggio; durante tutta la sua attività egli è sempre stato assistito dalla sua Sapienza; la creazione risponde ad un progetto di amore, anche se l’intelligenza dell’uomo non sempre è in grado di coglierlo. Siamo come bambini di fronte a una cattedrale in costruzione. Chi entra in un cantiere non vede che disordine, materiale accatastato, mucchi di sabbia, sbarre di ferro, assi, mattoni, barattoli, martelli, chiodi sparsi un po’ ovunque. Solo alla fine, quando l’opera è conclusa si capisce che anche ciò che sembrava solo confusione, in realtà rientrava nel progetto sapiente di un abile architetto.

Avere fede in Dio Padre – è il messaggio della lettura – significa credere che egli ha fatto tutto con sapienza ed amore.

Seconda Lettura (Rm 5,1-5)

1 Giustificati dunque per la fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo; 2 per suo mezzo abbiamo anche ottenuto, mediante la fede, di accedere a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio.
3 E non soltanto questo: noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata 4 e la virtù provata la speranza.
5 La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.

Dopo aver creato con sapienza l’universo, Dio non ha considerato conclusa la sua opera. Non si è ritirato in cielo abbandonando a se stessi il mondo e gli uomini.

I nostri ragionamenti ci portano ad allontanare Dio dal nostro mondo, ci spingono a collocarlo in un punto irraggiungibile dalla nostra impurità. “Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere” – dice Abramo (Gen 18,27).

Il Dio che si rivela fin dalle prime pagine della Bibbia è invece sorprendente: non solo non considera che la sua santità sia messa in pericolo dal contatto con le sue creature, ma manifesta un bisogno irresistibile di stare in questo mondo. Egli accarezza l’uomo mentre lo plasma con la polvere del suolo e soffia in lui il suo stesso alito di vita (Gen 2,7), poi scende dal cielo e passeggia al suo fianco nel giardino alla brezza del giorno (Gen 3,8).

Tutto per preparare la grande sorpresa alla quale anche la prima lettura ci ha introdotto: la Sapienza di Dio non solo non ha paura di contaminarsi, ma “si diletta a stare sulla terra e pone le sue delizie tra i figli dell’uomo”.

Nella pienezza dei tempi, la Sapienza di Dio è venuta “a visitarci dall’alto”, si è fatta uno di noi.

Questo Dio fatto uomo è il Figlio, l’immagine perfetta del Padre. È lui la Sapienza di cui si parlava nella prima lettura.

Come mai Dio è entrato nella nostra storia?

Lo dice il secondo testo biblico che ci viene proposto oggi: egli è intervenuto per giustificarci, mediante la fede in Gesù; per questo “ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio” (vv.1-2). Che significa?

Di fronte ai loro simili, gli uomini si vantano delle loro capacità, della loro forza, della loro ricchezza, dei loro successi. Ma, davanti a Dio, di che cosa possono vantarsi? A questa domanda qualcuno risponde: possono far valere le loro opere buone. Se si comportano bene egli li guarda con compiacimento, se si comportano male si indigna e infligge castighi.

Il Figlio è venuto in questo mondo per annunciare un messaggio inaudito, una buona novella sorprendente, incredibile: il Padre ha deciso di “giustificare”, cioè, di rendere giusti tutti gli uomini in modo completamente gratuito, senza considerare i loro meriti.

Vanto dell’uomo non sono le sue opere buone, ma qualcosa di infinitamente più solido e più sicuro: l’amore incondizionato di Dio.

Questo non significa che Dio coprirà, fingerà di non vedere i nostri peccati. Questa non sarebbe una salvezza.

Dio rende giusti tutti gli uomini perché, lasciandoli sempre liberi, riesce, con il suo amore, a cambiare il loro cuore ed a farli diventare buoni.

Prendiamo come esempio il comportamento di una mamma: anche se il figlio rifiuta il cibo e si intestardisce nel mantenere chiusa la bocca, lei non si scoraggia, non si rassegna di fronte ai capricci del piccolo e con baci e carezze riesce sempre ad ottenere che il figlio si nutra con ciò che lo fa crescere. Non è pensabile che l’amore onnipotente di Dio sia più debole di quello di una mamma.

Se guardasse solo a se stesso, l’uomo ha una sola cosa di cui vantarsi: la propria debolezza (v.3). Questo sguardo – dice Paolo – non deve gettare nello sconforto, ma aprire alla fiducia nell’amore di Dio e far sorgere una speranza che, di certo, non andrà mai delusa (v.5).

Avere fede in Dio Figlio significa credere che egli ama l’uomo al punto da condividerne la precarietà e la fragilità della vita; significa coltivare la speranza che questo amore infinito può registrare qualche insuccesso momentaneo, mai una sconfitta definitiva.

Vangelo (Gv 16,12-15)

In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: 12 “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. 13 Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future. 14 Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve l’annunzierà. 15 Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà del mio e ve l’annunzierà”.

È la quinta volta che, nel Vangelo di Giovanni, Gesù promette di inviare lo Spirito ed afferma che sarà lui a portare a compimento il progetto del Padre. Senza la sua opera gli uomini non potrebbero mai essere in grado di accogliere la salvezza.

Il brano inizia con le parole di Gesù: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso” (v.12). Questa frase potrebbe suggerire l’idea che Gesù, essendo vissuto pochi anni, non ha avuto la possibilità di trasmettere tutto il suo messaggio. Allora, per non lasciare a metà la sua missione, bruscamente interrotta dalla morte, avrebbe inviato lo Spirito a insegnare ciò che ancora mancava.

Non è questo il significato.

Gesù ha affermato chiaramente che non ha altre rivelazioni da fare: “Tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15) e nel Vangelo di oggi dice che lo Spirito non aggiungerà nulla a ciò che egli ha detto: “non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito; prenderà del mio e ve l’annunzierà” (vv.13-14). Non ha il compito di integrare o ampliare il messaggio, ma di illuminare i discepoli per far loro comprendere, in modo corretto, ciò che il Maestro ha insegnato.

La ragione per cui Gesù non spiega tutto, non è la mancanza di tempo, ma l’incapacità dei discepoli a “portare il peso” del suo messaggio. Di che si tratta? Qual è l’argomento troppo “pesante” per le loro deboli forze?

È il peso della croce. Attraverso le spiegazioni ed i ragionamenti umani è impossibile arrivare a capire che il progetto di salvezza di Dio passa attraverso il fallimento, la sconfitta, la morte di suo Figlio per mano di empi; è impossibile capire che la vita viene raggiunta solo passando attraverso la morte, attraverso il dono gratuito di sé. Questa è la “verità totale”, molto pesante, impossibile da sostenere senza la forza comunicata dallo Spirito.

Nella prima lettura abbiamo considerato il progetto del Padre nella creazione, nella seconda ci è stato spiegato che questo progetto viene realizzato dal Figlio, ma non sapevamo ancora che il cammino che porta alla salvezza sarebbe stato non solo strano, ma addirittura assurdo. Ecco la ragione per cui è necessaria l’opera dello Spirito. Solo lui può spingerci ad aderire al progetto del Padre ed all’opera del Figlio.

Egli vi annunzierà le cose future (v.13). Non si tratta – come affermano i Testimoni di Geova – delle previsioni sulla fine del mondo, ma delle implicazioni concrete del messaggio di Gesù. Non basta leggere ciò che è scritto nel Vangelo, è necessario applicarlo alle situazioni concrete del mondo d’oggi. I discepoli di Cristo non si inganneranno mai in queste interpretazioni se seguiranno gli impulsi dello Spirito, perché egli è l’incaricato di guidare “alla verità tutt’intera” (v.13).

A chi si rivela lo Spirito?

Tutti i discepoli di Cristo sono istruiti e guidati dallo Spirito: “Quanto a voi – scrive Giovanni – l’unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che alcuno vi ammaestri… State saldi in lui, come essa vi insegna” (1 Gv 2,27).

Negli Atti degli Apostoli, un episodio mostra il modo e il contesto privilegiato in cui lo Spirito ama manifestarsi.

Ad Antiochia, mentre i discepoli sono riuniti per celebrare il culto del Signore, lo Spirito “parla”, rivela i suoi progetti, il suo volere, le sue scelte (At 13,1-2). Preghiera, riflessione, meditazione della Parola, dialogo fraterno creano le condizioni che permettono allo Spirito di rivelarsi. Egli non fa piovere miracolosamente dal cielo le soluzioni, non riserva le sue illuminazioni a qualche membro privilegiato, non si sostituisce agli sforzi dell’uomo, ma accompagna la ricerca appassionata della volontà del Signore che i discepoli fanno insieme.

Ecco perché, nella chiesa primitiva, ognuno era invitato a condividere con i fratelli ciò che, durante l’incontro comunitario, lo Spirito suggeriva per l’edificazione di tutti (1 Cor 14).

Egli mi glorificherà (v.14). Glorificare per noi vuol dire applaudire, esaltare, incensare, magnificare. Gesù non ha bisogno di queste onorificenze.

Egli viene glorificato quando si attua il progetto di salvezza del Padre: il malvagio diviene giusto, il misero riceve un aiuto, chi soffre trova conforto, l’infelice riprende a sperare e a credere nella vita, lo storpio si rialza e il lebbroso viene reso puro. Gesù ha glorificato il Padre perché ha compiuto l’opera di salvezza che gli era stata affidata.

Lo Spirito a sua volta glorifica Gesù perché apre le menti ed i cuori degli uomini al suo Vangelo, dà loro la forza di amare anche i nemici, rinnova i rapporti fra le persone e crea una società fondata sulla legge dell’amore. Ecco qual è la gloria del Padre, del Figlio e dello Spirito: un mondo in cui tutti siano suoi figli e vivano felici!

Fonte – Settimana News

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