p. Giovanni Nicoli – Commento al Vangelo del 7 Giugno 2019 – Gv 21, 15-19

Lo scopo del nostro essere cristiani è essere liberi di amare. Nella chiesa vi è l’istituzione e vi è il carisma che richiama solo amore, ma la libertà di amare è sopra tutto e sopra tutti. Tutto il resto è funzionale, vale a dire che lo si può e si deve accettare o rifiutare a partire dal fatto che serva o meno ad amare.

Possiamo cogliere come il fatto che Pietro sia risentito che Gesù gli chieda per l’ennesima volta se lo ama, come cosa normale con cui fare i conti.

È bello il richiamo di Gesù a Pietro: “quando sarai vecchio tenderai le mani e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi”. È stupendo questo passo che diventa augurio oggi per ognuno di noi. Scoprire la bellezza del lasciarci portare e vestire. Far risuonare nella nostra vita l’invito a cogliere il farci condurre e il lasciarci fare, come dono che viene dall’alto.

Non se ne può più dei nostri fariseismi organizzativi. È tempo di lasciarci portare. Lasciare che Lui ci conduca su pascoli erbosi chiamandoci per nome. Ci potremmo smarrire? Questo non è un dubbio, è una certezza. Ma lo smarrirci è un luogo dove possiamo ritrovarci in modo più vero.

Non si tratta di giustificare i nostri errori, si tratta di viverli in modo diverso. Non ci interessa negarli per manifestare la nostra maggiore bravura farisaica nei confronti dei fratelli. Non ci interessa sminuirli, dicendo che è cosa da poco conto, per continuare a fare come se nulla fosse.

Il Signore ci chiama alla libertà di amare, non di sbagliare o di non sbagliare. La libertà di amare è lasciarci amare da Lui, Padre Nostro che è Dio. Libertà di amare è lasciarci condurre dalla sua sapienza smettendola di rincorrere la nostra che ha sempre più il fiato corto.

Bello poterci lasciare condurre da Lui dove noi non vogliamo. Questo significa lasciare che Lui metta le mani nelle profondità del nostro quotidiano non sempre limpido. Il nostro Dio Padre è Dio che ama e che ci mette la faccia sporcandosi le mani col nostro male. Non usa guanti di lattice, si tuffa mani e piedi nelle nostre infedeltà: lì Dio Padre vive il gioco dello scrivere diritto sulle righe storte. Vale a dire che non si scandalizza dei nostri mali e del nostro rimanere male e dei nostri rinnegamenti, semplicemente si getta nella mischia per aiutarci a camminare sulle strade che a volte sono fanghiglia.

Lasciarci portare da Lui come dei vecchi, consci che da soli non ce la possiamo fare, è un atto di fiducia libera ed amante a Colui che ci ama comunque. Essere bene non è cosa da confondere col fare tutto bene e in modo perfetto. Essere bene è il bello del lasciarci condurre da Colui che ci ama, è accettare di essere amati. Non è cosa triste questa, non è cosa che dobbiamo fare quando non riusciamo più a fare altro: è cosa bella e quotidiana, mistero di amore di giocarsi nella vita che vive ogni ostacolo e ogni caduta semplicemente come realtà di vita da non fuggire ma da amare.

Il dire di Pietro “Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene”, è cosa bella che ci riporta alla centralità dell’esistenza stessa.

Gesù vuole fare superare a Pietro, come vuole che la superiamo noi, quella sfiducia che ancora non emerge ma che ci fa diventare tristi. Il cuore di Pietro, di colui che ha rinnegato, è rimasto ferito, come lo siamo noi: feriti dal nostro male!

Noi giudichiamo o neghiamo il nostro male, il nostro peccato, non accogliendo la ferita che lo stesso male opera in noi. Lasciarci finalmente condurre dal Pastore della vita laddove non vogliamo e lasciarci rivestire da Lui dalla vita vera, significa cominciare a comprendere che il nostro male e il nostro peccato, mai scomparsi e non negati, sono il luogo dove potere costruire tutto. È lì infatti che abbiamo la conoscenza del Padre dal più piccolo al più grande, perché Dio è perdono. Perdono non tanto perché ci guarda dall’alto in basso, quanto invece perché si getta nel nostro peccato perché quel male diventi letame che fertilizza la terra dove Lui ha gettato il seme della Parola, seme che morendo germoglia e porta frutto.

Lasciarci condurre lì, in quella inutilità dove non siamo noi a condurre le danze, significa cogliere che lì può nascere la comunità, la fraternità che non ha altro fondamento se non il perdono. Senza questo dono che viene dall’alto, non ci può essere che aggressione e uccisione, pur con tutti i carismi morali di questo mondo.

Commento a cura di p. Giovanni Nicoli.

Fonte – Scuola Apostolica Sacro Cuore

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Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore.

Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 21, 15-19

In quel tempo, [quando si fu manifestato ai discepoli ed] essi ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli».
Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore».
Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse “Mi vuoi bene?”, e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi».
Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».

C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.

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