Commento al Vangelo del 20 giugno 2010 – Paolo Curtaz

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Dodicesima domenica durante l’anno Zc 12, 10-11/ Gal 3, 26-29/ Lc 9, 18 – 24

Chi sei, Nazareno?

Chi sei, Nazareno?

Chi sei, per me?

Senza risposte automatiche, a tavolino, finte, solo io e te, guardandoci negli occhi.

Chi sei, Nazareno?

Non dieci anni fa, o quand’ero giovane ed entusiasta, chi sei per me, oggi, ora?

Tra ieri e oggi, milioni di persone si raduneranno per ascoltare la tua Parola, per celebrare, in obbedienza al tuo comando, la cena che ti rende presente nel segno del pane e del vino.

Chi sei, Nazareno?

Ciò non accade per Garibaldi, o per Napoleone.

Accade per un oscuro falegname di Nazareth, ebreo marginale, perso nei meandri della storia, la cui presenza viene ancora professata da milioni di persone diverse, eppure affascinate e rese discepole dalla testimonianza di coloro che dicono averlo incontrato.

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Si parla, spesso, del Nazareno e dei suoi discepoli. Appena l’attenzione cala, ecco un qualche evento che lo riporta alla ribalta: una scoperta archeologica che conferma o smentisce la versione ufficiale della vita di Gesù (ricorrono a ciclo periodico, boiate incluse), un qualche evento drammatico che ci riporta alla mente la fatica della testimonianza pagata da alcuni con la vita, qualche audace opera propagandistica sempre alla ricerca del Gesù “alterantivo”, quello nascosto dalla Chiesa…

Gesù fa discutere, schierare, accende gli animi, ognuno, un poco, si sente di difenderlo, di proteggerlo, di capirlo, di interpretarlo. Credenti o non credenti, quest’uomo che paga con la vita la sua coerenza e la sua non-violenza ancora scuote e interroga.

Chi sei, davvero, Nazareno?

Un grande uomo della storia divinizzato dai propri discepoli? Un profeta sopravvalutato, un anarchico inquadrato dalla storiografia ufficiale? Nessuno potrà mai possederti in pienezza, nessuno afferrarti con verità, nessuno dare di te una visione definitiva, neppure la comunità dei tuoi discepoli, che pure ne conserva fedelmente la Parola e che, sempre, apre il cuore alla comprensione del Mistero della sua presenza per farla risuonare lungo la Storia in attesa del suo ritorno.

Sì, d’accordo, ma tu?

Eppure, alla fine, la domanda arriva, diretta, senza scantonamenti: “Lascia stare cosa ne pensa la gente. Chi sono, io per te?”

A voi la risposta, amici, senza tentennamenti o risposte da catechismo, per favore.

Cuore a cuore, nudi davanti alla nostra coscienza, disarmati dai tanti pregiudizi nei confronti della Chiesa e di Cristo, con cui il nostro tollerante mondo ci riempie la testa, chi è per me il Nazareno?

Compagno? Amico? Dio? Maestro? Nostalgia? Ricerca? Rabbia?

Pietro risponde, con forza e decisione, osando dire ciò che gli altri discepoli neppure hanno il coraggio di pensare: “Tu sei il Cristo”, cioè l’atteso, l’inviato da Dio, il consacrato, il Messia atteso con passione da Israele.

Ma Pietro ancora non sa cosa lo aspetta. Gesù lo ammonisce: sì, lui è l’atteso, lo svelatore di Dio, il raccontatore del suo volto. E il volto di Dio, che Gesù conosce bene, perché lui e il Padre sono una cosa sola, è così diverso da quello che Pietro (e noi) ci saremmo aspettati.

Il Dio di Gesù

Non un Dio forte che mostra i bicipiti, non un Dio onnipotente che sbaraglia gli avversari, non un Dio vincitore da corrompere e convincere, da blandire e sedurre, no.

Un Dio schivo e amorevole, timido, quasi. Un Dio nascosto che vuole essere amato perciò che è, non per ciò che dà.

Un Dio che vale la pena di seguire, talmente bello da dimenticarsi di sé, pur di conoscerlo.

Un Dio che vale la pena di conoscere al costo di perdere ogni cosa, un Dio che è più di ogni affetto, più di ogni gioia, più della più grande cosa che possiamo possedere.

Un Dio che vale la pena di conoscere, anche a costo di perdere la faccia. Perdere la faccia per lui, svergognarsi, così come la vergogna più grande per il mondo antico era essere crocifissi, nudi, ostesi al pubblico ludibrio, la più temuta e odiata forma di umiliazione che i romani, tra gli altri, infliggevano come somma punizione. Vergogna al punto che anche le prime comunità cristiane stentavano ad usare la croce come segno di appartenenza.

Fino a che, dice Gesù, non ci saremo appassionati di Lui al punto da poter perdere la faccia, al punto da essere con-crocifissi con lui, avremo ancora uno spazio di crescita nella nostra consapevolezza della sua vera identità.

Iniziamo la nostra estate con questa domanda pungete, politicamente scorretta, da portarci in spiaggia o al lago, da lasciar crescere in noi. Chi sei per me, Nazareno?

Paolo Curtaz