Ascensione: Assunzione in profondità
La ricchezza poliedrica del mistero pasquale mostra oggi un suo aspetto in parte trascurato nella spiritualità cristiana di molti fedeli. La Chiesa celebra gli ultimi momenti del mistero di Cristo che patisce, muore, è sepolto, risorge, sale al Padre, siede alla sua destra, invia lo Spirito Santo.
Chi dice che “il cielo” sia solo “in alto” e non forse anche “nel profondo” delle cose?
La Pasqua giunge alla profondità del mistero di salvezza e di grazia costituito da Gesù, morto e risorto.
Si mostrò vivo per quaranta giorni
Nel Prologo degli Atti (At 1,1-14), l’autore della seconda parte dell’opera doppia Lc-At (comunemente identificato con Luca) elabora un racconto che raccorda strettamente il finale del Vangelo con l’inizio dell’opera che narra la corsa della parola da Gerusalemme a Roma. Il Vangelo di Luca inizia nel tempio di Gerusalemme (Lc 1,5-22) e termina nello stesso luogo (Lc 24,53).
Con una studiata articolazione a embricatura, Luca inizia il libro degli Atti con un rimando alla prima parte della sua opera conclusa con l’assunzione di Gesù (Lc 24,51) e vi aggiunge il ricordo del suo comando di non allontanarsi da Gerusalemme fino al compimento della promessa del battesimo nello Spirito (At 1,4). Concluso a Gerusalemme il Vangelo (Lc 24,52), da Gerusalemme (At 1,4) inizia il cammino della Parola che si concluderà a Roma, capitale dell’impero romano che raggiunge i confini della terra allora conosciuta.
Luca articola il suo prologo ricordando la promessa dello Spirito e l’invio missionario intimato da Gesù ai suoi, fino ai confini della terra (At 1,1-8). In una seconda parte racconta in un primo quadro l’Ascensione di Gesù (At 1,9-11) raccordandolo al secondo quadro che descrive la prima comunità a Gerusalemme (1,12-14).
Per il tempo simbolico di quaranta giorni, tempo giudicato più che sufficiente dai rabbini del tempo per formare un discepolo, Gesù risorto accompagna la sua Chiesa, facendosi vedere dagli Undici e «mostrandosi ad essi vivo/hois kai parestēsen heauton zōnta» con molte prove. Colui che era considerato maledetto da Dio per la sua morte infame di croce, aveva vinto la morte, dimostrando la sua giustizia e la verità della sua persona e del suo messaggio.
La promessa del Padre: il battesimo nello Spirito
Come ai tempi del diluvio universale (Gen 7,4), la durata della manna nel deserto (Es 16,35), quello della permanenza di Mosè sul monte Sinai (Es 24,18; 34,28), il cammino di Israele nel deserto della liberazione (Es Nm 14,3; Dt 2,7; Gs 5,6), il tempo impiegato dagli esploratori della terra promessa (Nm 13,25), la durata del regno di Davide (2Sam 5,4), il cammino di Elia nella fuga verso l’Horeb (1Re 19,8), il tempo concesso da Giona ai niniviti per convertirsi (Gn 3,4), la durata della permanenza di Gesù nel deserto all’inizio della sua vita pubblica (Mc 1,3), i “quaranta” giorni o anni plasmano la comunione della creatura e del popolo col proprio liberatore, legislatore e Voce a cui obbediscono le voce dei profeti.
Gesù plasma ulteriormente gli Undici – dopo il catecumenato prepasquale – con degli ulteriori insegnamenti circa la regalità (Herrschaft) di YHWH/Il Padre che crea il suo Regno (Reich) nel cuore degli uomini e delle società. Con un’inclusione letteraria perfetta, il libro degli Atti si concluderà a Roma, con la scena di Paolo che predica il regno di Dio con franchezza e senza impedimento (cf. At 28,31).
Gesù “prende insieme il sale/synalizomenos” con i suoi. Un pranzo che sigilla alleanza, comunione di vita che preserva dalla marcescenza e aiuta ad accendere il fuoco della “legna” che dovrà incendiare il mondo intero. Da Gerusalemme non ci si deve “partire/allontanare/separarsi/chōrizesthai”, perché non sta per iniziare un’avventura di carattere “umano”, ma divino (cf. la raccomandazione di Gamaliele ai sinedriti in At 5,38-39).
A Gerusalemme, luogo della morte e risurrezione pasquale di Gesù, il Figlio di Dio, si deve attendere la pienezza del mistero pasquale: l’effusione dello Spirito Santo. Egli (cf. il pronome dimostrativo maschile personalizzante in Gv 15,26!) è la “promessa/epaggelia” del Padre, enunciata dal Figlio, fedele plenipotenziario e ambasciatore scrupoloso. Nella sua missione prepasquale Gesù aveva preannunziato/promesso l’incombente battesimo nello Spirito Santo, dopo un primo battesimo con acqua amministrato da Giovanni Battista.
Gli apostoli non possono iniziare la missione di conversione dei cuori, senza prima essere stati immersi nella vita dello Spirito del Figlio di Dio, l’incendiario del mondo col fuoco del suo Spirito.
Di me sarete testimoni
Gesù parla del regno di Dio, gli Undici gli chiedono i tempi di realizzazione del regno per Israele. L’incomprensione politico-militare “terrestre” da parte dei discepoli continua. Il Padre ha posto “nella/en” sua autorità i tempi cronologici (chronous) e quelli giusti/escatologici/definitivi/gravidi di decisività (chairous) per la realizzazione del suo Regno, che non è di questo mondo e di cui il regno davidico era solo una pallida prefigurazione umana.
Con una distinzione qualitativa ben accentuata (“ma/alla”), nella sua risposta Gesù annuncia una venuta e una partenza: «Riceverete una potenza/forza sopravveniente del Santo Spirito sopra di voi e sarete di me testimoni in Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino alla fine del mondo» (At 1,8 lett.).
La partenza missionaria testimoniale non potrà avvenire prima del sopraggiungere intenso e “preciso” (epelthontos… eph’ hymas) di una potenza (= “della potenza”: il greco semitizzante nasconde e rivela un costrutto ebraico soggiacente che richiede l’assenza dell’articolo determinativo) che consiste nello Spirito Santo (genitivo epesegetico: la seconda parola spiega la precedente).
Egli attrezzerà con una potenza divina, sovrumana, spirituale i discepoli quali testimoni all’altezza dell’oggetto della loro testimonianza. Essa non verterà più tanto su “queste cose/toutōn” (Lc 24,48), ma si concentrerà interamente sulla persona di Gesù: sarete testimoni di me. At-testerete nei tribunali e sulle piazze, nei negozi e nelle sinagoghe, sulle navi e lungo il cammino, sul tavola della tortura e nell’intimo delle case ciò che avete sentito, visto, sperimentato personalmente di ciò che sono io, di ciò che sento io, di ciò che vivo io. La vita stessa dei discepoli entrerà a far parte del vangelo che testimonieranno. Questa è la concezione della “testimonianza” secondo Luca.
La ripartizione territoriale dell’invio missionario che Gesù risorto fa nei confronti dei discepoli non ha solo una valenza geografica e non è l’unico indice secondo cui strutturare il libro degli Atti. Essa rappresenta i campi principali della propagazione della Parola: la città madre Gerusalemme, il campo spurio ed eretico della Samaria, il mondo vasto delle genti che giunge fino alla “fine del mondo”. All’incontrario del movimento centripeto previsto per la conoscenza della Torah di YHWH nell’Antico Testamento (cf. Is 2,1-5), ora la spinta centrifuga parte da Gerusalemme per raggiungere le genti là dove vivono. La Chiesa di Gesù, radicata nel popolo di Israele, deve essere sempre “in uscita”.
Assunto
Come gli è abituale, Luca visualizza in una scena esemplare, episodica e drammatica, una verità teologica di fede. Egli dà fondo a tutta la ricchezza terminologica verbale della lingua greca per esprimere il mistero del ricongiungimento di Gesù risorto con Padre, principio e termine della sua missione e della sua identità profonda. Mentre gli occhi dei discepoli lo “vedono/blepontōn”, Gesù “fu elevato/eperthē < ep-airō” da una forza esterna divina.
Luca si serve del linguaggio impiegato nell’AT per evocare l’elevazione dei grandi profeti o quello usato dalla storia romana per notificare la scomparsa celeste degli imperatori in vista della loro divinizzazione. Sotto gli occhi dei discepoli, resi testimoni qualificati (a diversità di ciò che avvenne con Enoch in Gen 5,23 quando Dio “gli cambiò posto/lo spostò/metethēken” e con Elia in 2Re 2,11, che “fu portato su/fu assunto/anelēmphthē”), Gesù “fu preso da sotto in su/fu elevato/anelēmpthē < ana-lambanō” (At 1,2), “fu elevato/eperthē < ep-airō” (1,9), “una nube lo prese su da sotto/lo prese in carico/hypelaben < hypo-lambanō”, di modo che Gesù è “l’Assunto/ho analēmptheis” (1,11) verso il cielo e “colui che se ne va/auton poreuomenon” (1,11) verso il cielo, cioè Dio/Il Padre.
Luca visibilizza in una scena “spaziale” una verità teologica indiscutibile per la Chiesa, della quale gli Undici sono stati testimoni per esperienza propria.
Dopo un tempo opportuno più che sufficiente per una ulteriore formazione postpasquale, Gesù cessa di essere presente in modo visibile alla sua Chiesa, per “raggiungere” in pienezza il termine/lo scopo della sua missione terrena quale Inviato dal Padre. Egli è Figlio dell’Altissimo, Colui che siede per sempre sul trono di Davide ormai spiritualizzato per regnare per sempre – e non solo su Israele –, il Santo (cf. Lc 1,32-35). Il Vangelo dell’Infanzia di Luca, vangelo in miniatura, aveva già indicato in anticipo l’altissima dignità del nascituro, anticipandola già nell’Annunciazione angelica a Maria, la madre, la “Tutta trasformata dalla grazia”.
Gesù raggiunge – trasformato e arricchito della sua vicenda terrena conclusasi con gli sfregi dolorosi della crocifissione – la pienezza della sua missione, il termine ultimo del compimento della sua stessa identità di Figlio di Dio incarnato fra gli uomini. Gesù raggiunge il Padre, la pienezza della vita divina striata ormai anch’essa del dolore degli uomini. «Innalzato dunque alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire» (At 2,33) proclamerà Pietro il giorno di Pentecoste.
“Innalzato/esaltato/hypsotheis < hypsoō” “alla destra/dalla destra/tēi dexiai” del Padre, siede alla destra del Padre in pari dignità di potere regale di dominio e di possesso della pienezza dello Spirito Santo. Gesù risorto “prende/riceve/accoglie/labōn” dal Padre lo Spirito promesso ai discepoli, perché egli lo possa riversare sulla terra non quale Spirito Santo “generico”, ma quale Spirito del Figlio risorto, uno Spirito di figliolanza, che rende figli nel Figlio.
La sessione alla destra del Padre è il penultimo atto “teologico” del mistero pasquale. Nella pienezza del potere sovrano compartecipatogli dal Padre, Gesù risorto e asceso al cielo, seduto alla destra del Padre, può “effondere/spargere/execheen” sulla terra lo Spirito Santo cha ha “preso/accolto” nella comunione col Padre. Si compie in tal modo la realtà di base perché possa compiersi la promessa del battesimo nello Spirito Santo, lo Spirito del Figlio risorto.
Verrà allo stesso modo
I due uomini in bianche vesti – esseri angelici che partecipano del mondo divino (“bianco”) e che aiutano in modo personalizzato il cammino degli uomini – scuotono con un elegante rimprovero i discepoli che «se ne stavano in continuità a fissare con sguardo attento e fisso in un punto solo verso il cielo/atenizontes ēsan eis ton ouranon». Non bisogna restare a fissare il mondo di Dio, perché Gesù risorto e innalzato/elevato/portato su dal Padre e «“che se ne va per virtù propria/poreuomenou autou” (verso il cielo/il mondo di Dio), “verrà/eleusetai < erchomai” = venire (non “tornare” o “ritornare”…)» nello stesso modo in cui i discepoli l’hanno visto “andarsene/poreuomenon”.
Cristo glorioso e seduto alla destra del Padre verrà certamente, e non solo alla fine dei tempi. Verrà con la pienezza dello Spirito donato dal Padre (Gv 14,17), Spirito inviato dal Padre nel nome di Gesù Signore (Gv 14,26), lo Spirito che Gesù Signore invierà da presso il Padre (Gv 15,26), lo Spirito che procede da presso il Padre (Gv 15,26), lo Spirito che sopraggiunge sui discepoli a Pentecoste (At 1,8) e che “si posa (a sedere)/ekathisen” su ciascuno di loro (At 2,4).
È lo Spirito effuso da Cristo Signore assiso alla destra del Padre dopo averlo “preso/accolto/labōn” da lui (At 2,33), lo Spirito di cui furono riempiti tutti coloro che erano radunati in preghiera dopo la liberazione di Pietro e Giovanni (At 4,31), lo Spirito Santo che testimonia insieme agli apostoli interrogati nel sinedrio (At 5,32), lo Spirito che riempie Stefano e “i Sette” (At 6,3.5; 7,55), che i samaritani ricevono tramite l’imposizione delle mani da parte di Pietro e Giovanni (At 8,15.17.18) ecc. È lo Spirito di Gesù che impedisce a Paolo e a Timòteo di passare in Bitinia (At 16,7).
La Chiesa si consolida, cammina nel timore del Signore e cresce di numero in Giudea, in Galilea e nella Samaria con il conforto dello Spirito Santo (At 9,31).
Gesù risorto viene nella sua Chiesa con il suo Santo Spirito e l’accompagna fin d’ora nel suo cammino di “testimonianza/martyria” – talvolta “martiriale” – fino a raggiungere il confine del mondo (cf. At 1,8), i confini di ogni cuore.
Cominciando da Gerusalemme
Nel primo giorno della settimana, gli eventi si accavallano: le donne trovano la tomba di Gesù vuota, ricevono il messaggio degli angeli e lo riferiscono agli Undici e agli altri (24,1-11), Pietro corre alla tomba (v. 12), i due discepoli di Emmaus incontrano il misterioso viandante e raccontano agli Undici di averlo riconosciuto e questi proclamano la sua apparizione a Pietro (vv. 13-35); tutti godono, infine, dell’incontro pasquale che Gesù regala loro (vv. 36-49) e a Betania ricevono la benedizione di colui che «viene portato su nel cielo» (vv. 50-53).
Nel finale del suo Vangelo, Luca concentra gli incontri pasquali di Gesù in un unico luogo (Gerusalemme) e in un unico tempo (il giorno di Pasqua).
Negli Atti degli Apostoli, il secondo momento della sua opera in due atti (Doppelwerk), egli invece “storicizza” i fatti e distribuisce didatticamente in quaranta giorni la compagnia che il Risorto offre alla sua Chiesa che muove i primi passi.
Da Gerusalemme tutto è partito, con Zaccaria che prega nel tempio, ma non riesce a benedire il popolo (Lc 1,21-22). Nel tempio di Gerusalemme si concluderà il Vangelo con la preghiera gioiosa degli Unici (e degli altri). Da Gerusalemme (su ordine del Risorto, cf. Lc 24,49 e At 1,4) riprenderà il cammino degli apostoli e della loro testimonianza, che troverà un’apertura incontrastata a livello mondiale con l’apostolo Paolo che annuncia il regno di Dio a Roma (cf. (At 28,31).
Gerusalemme è il perno della storia e della geografia della salvezza, “ombelico della terra/omphalos tēs gēs” (cf. Gdc 9,37LXX; Ez 38,12LXX), centro del mondo nuovo che nasce col Risorto. L’annuncio della conversione dai peccati deve essere comunicato per primo ad essa, e da essa raggiungere i confini della terra. È il frutto maturo del mistero pasquale di sofferenza, morte e risurrezione di Gesù (Lc 24,44-47). La testimonianza di queste cose (Lc 24,47), che in At 1,8 diventerà «di me sarete testimoni», sarà possibile però agli apostoli solo dopo la ricezione della promessa del Padre, che li rivestirà di potenza dall’alto (Lc 24,49; At 1,4).
Portato su, nel cielo, mentre benediceva
Gesù porta i suoi apostoli a Betania, sulle pendici orientali del monte degli Ulivi. Alza le mani al cielo come un sacerdote e li benedice con una benedizione che porta a compimento quella di Dio nella creazione (Gen 1,28), quella donata a Noè e alla sua famiglia (Gen 9,1) e quella concessa ad Abramo prima della sua partenza (Gen 12,1-3). I patriarchi avevano benedetto i figli: benedizioni usurpate (Gen 27), o fraudolente (Gen 48). Mosè aveva benedetto a lungo Israele prima di morire (Dt 33) e aveva insegnato ad Aronne la benedizioni da impartire a Israele (Nm 6,22-27).
Verso il 180 a.C. il sommo sacerdote Simone II, figlio di Onia, era bellissimo quando «alzava le sue mani su tutta l’assemblea dei figli d’Israele per dare con le sue labbra la benedizione del Signore e per gloriarsi del nome di lui» (Sir 50,20).
Come un patriarca, Gesù benedice i suoi e come sacerdote benedice l’assemblea riunita attorno a lui e che si inchina al suo cospetto. Gesù risorto dona quella benedizione che Zaccaria, rappresentante del popolo dell’Antico Testamento, non era riuscito a dare al popolo che lo aspettava disorientato fuori dalla tenda dell’incenso. Benedizione “sospesa” nel tempo della gestazione, ora concessa nel momento del parto.
La benedizione è un gesto che realizza ciò che esprime, è performativo: «… comunica la benevolenza e la protezione, assicura la continuità e la fedeltà nel momento della partenza e della separazione». Di solito, le parole dette in questi momenti assurgono a parole di giuramento. «Nel nostro passo vi è dunque un paradosso del ritiro e del dono, dell’assenza e della presenza… il paradosso di Emmaus qui si ripete» (F. Bovon).
Mentre, come un patriarca, Gesù benedice i suoi, egli si separa per iniziativa propria da loro: “si staccò/diestē” dai suoi. Allo stesso tempo, egli “veniva portato su, verso il cielo/anephereto eis ton ouranon” da un’altra potenza, quella del Padre (passivum divinum).
Rispetto agli Atti, Luca impiega qui un’ulteriore radice verbale per esprimere il cambiamento di condizione di Gesù, che arriva alla profondità della vita con il Padre e lo Spirito e al compimento della sua missione. Il verbo anapherō non esprime un rapimento violento, ma un atto dolce di presa in carico (lambanō), un innalzamento verso il mondo di Dio (“cielo”). Un movimento dal basso verso l’alto (ava-) che vuole indicare la differenza di luogo e di condizione a cui Gesù va incontro. Egli lascia il mondo egli uomini («si staccò da loro»), per entrare definitivamente nel mondo del Totalmente Altro, il mondo di Dio Padre (“cielo”).
Gioia e lode nel tempio
Ricevuta la benedizione discendente del patriarca-sacerdote portato dal Padre nella condizione completamente “celeste”, divina, gli Undici tornano a Gerusalemme dalla sua periferia orientale dove erano stati portati da Gesù.
Il Monte degli ulivi riunisce come una cerniera perenne il suo versante orientale, Betania, con quello occidentale, la città vera e propria. L’evangelista aveva presente l’antica tradizione biblica secondo la quale la venuta finale del Signore sarebbe avvenuta sul Monte degli ulivi (cf. Zc 14,4: «In quel giorno i suoi piedi si poseranno sopra il Monte degli ulivi che sta di fronte a Gerusalemme verso oriente, e il Monte degli ulivi si fenderà in due, da oriente a occidente, formando una valle molto profonda; una metà del monte si ritirerà verso settentrione e l’altra verso mezzogiorno; Ez 11,23: Quindi dal centro della città la gloria del Signore si alzò e andò a fermarsi sul monte che è a oriente della città», sul quale tornerà dopo essersene andata con Israele in esilio a Babilonia).
Secondo l’evangelista Luca, è necessario uscire (non del tutto) da Gerusalemme e andare a Betania perché la parusia si sarebbe svolta come l’ascensione, solo in ordine inverso (cf. At 1,11: «… Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà/eleusetai [non “ritornerà”!] allo stesso modo/outōs… hon tropon in cui l’avete visto andare/poreuomenon in cielo»).
Con immensa gioia gli Undici “innalzano la loro lode continua/eulogountes” a Dio/il Padre nel tempio, luogo dove è invocato il suo Nome (cf. 1Re 8,29.43; 2Cr 6,6.33). È la benedizione ascendente dei discepoli radunati nella Chiesa, innestati nel corpo risorto di Gesù, casa di Dio – rinnovata –, casa di preghiera (cf. Lc 24,46 [= Ger 7,11]; Mt 21,13; Gv 2,13-22) per tutti i popoli (Mc 11,17).
La Chiesa “loda/benedice ascensionalmente/eulogountes” il Padre, ringraziandolo per il destino glorioso riservato al Figlio e lodandolo per il suo piano di salvezza portato a compimento.
La Chiesa non piange un’assenza, ma benedice una presenza diversa, nella potenza dello Spirito del Risorto (cf. At 2, 33).
Felicità per una presenza-assenza.
Felicità di chi, con gli occhi del cuore, vede l’invisibile e gioisce per la sorte gloriosa dell’Amato che va al Padre (cf. Gv 14,28).
È asceso il Buon Pastore, ascenda con lui il nostro cuore (s. Agostino).
Commento a cura di padre Roberto Mela scj
Fonte del commento: Settimana News