V domenica di Pasqua
LETTURE: At 14,21b-27; Sal 144; Ap 21,1-5a; Gv 13,31-33a.34-35
Il passo evangelico di questa domenica inizia facendo menzione dell’uscita di scena di Giuda, il traditore. Poco prima, al versetto immediatamente precedente, Giovanni annota in maniera icastica:
«Ed era notte» (13,30). È scesa la notte del rifiuto e del tradimento e Giuda, uscito dalla sala del banchetto, esce anche dallo spazio di quell’amore che tutto avvolge, che tutto illumina, che tutto in sé integra. La luce dell’amore di Gesù è troppo forte per Giuda ed egli, non potendola sopportare, preferisce ‘tuffarsi’ nel buio della notte, là dove le tenebre ricoprono ogni cosa e stendono un velo anche sulla verità del proprio cuore (cfr. Gv 3,19-20!).
Può sorprendere che proprio nel momento in cui Giuda esce per consumare il suo tradimento Gesù dica: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui» (13,31). Come può Gesù parlare di ‘glorificazione’ di fronte alla tragica perdita di un discepolo? Non bisognerebbe forse parlare di sconfitta e di fallimento? È infatti uno dei Dodici che se ne va, uno del gruppo per il quale Gesù aveva speso le sue migliori energie cercando di farne una comunità di fratelli, una comunità che fosse segno esemplare di un nuovo modo di tessere relazioni, di un nuovo modo di agire e di vivere. Il tradimento di Giuda intacca profondamente la coesione e il legame che Gesù si era da tempo impegnato a costruire e, certamente, per lo stesso Gesù non deve essere stato facile accettarlo. Al riguardo, Giovanni ci fa notare che «Gesù fu profondamente turbato» (13,21), rimane sconvolto, allo stesso modo con cui lo era stato per la perdita dell’amico Lazzaro (cfr. 11,33, dove ricorre lo stesso verbo: tarássM). Ogni volta che un’amicizia viene tradita, ogni volta che una comunione viene infranta, ogni volta che una relazione viene ferita mortalmente, si sta davvero male e grande è il dolore da portare… Eppure Gesù, anche in questa situazione di profonda sofferenza e tristezza, continua a porgere la mano, continua a mostrare la sua amicizia a Giuda offrendogli il boccone dell’accoglienza e della comunione (cfr. 13,26), continua ad amare fino in fondo. È in questo che sta la glorificazione: in quest’amore capace perfino di integrare il tradimento, di assumerlo in sé e di avvolgerlo dentro un orizzonte più ampio e più forte. La gloria di Gesù è la luce del suo amore che attraversa anche la notte del tradimento. E Dio è glorificato in Gesù perché in Gesù, nei suoi gesti, nei suoi atteggiamenti, si manifesta il suo volto di Padre, si rivela fino a che punto arriva il suo amore per il mondo (cfr. 3,16). Questa glorificazione reciproca
– del Figlio nel Padre e del Padre nel Figlio – ci dice a che livello giunge la comunione divina: niente è dell’uno che non debba risplendere anche nell’altro e la gloria di uno non può essere che luce per tutti e due. Gesù non ha mai cercato la propria gloria, ma solo quella che veniva da Dio (cfr. 5,44; 7,18; 8,50) e questo suo ‘lasciarsi glorificare’ è indice della sua apertura e della sua totale obbedienza al Padre, a Colui dal quale tutto riceve e al quale tutto a sua volta si dona.
Ma se la glorificazione massima di Gesù giunge al momento della sua morte – l’«ora» della Croce –, c’è un altro ‘luogo’ in cui può risplendere la luce della gloria di Dio: una comunità di discepoli in cui regna l’amore: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (13,35). Là dove alcune persone accolgono l’amore di Dio e si lasciano in tutto plasmare da esso, ivi si rende presente la gloria di Dio. Nel loro amore e nel loro donarsi vicendevole è riconoscibile il volto di Dio, si conosce chi è veramente Dio. Non ci sono altri segni o criteri per riconoscere una comunità che ‘appartiene’ a Dio («sapranno che siete miei discepoli») se non il vedere all’opera l’amore stesso con cui Gesù ha amato. Quel «come io ho amato voi» (v. 34) racchiude tutto il segreto di un’esistenza che vuole essere segno trasparente di un mondo nuovo, di un modo nuovo di pensare e di agire, di guardare la propria e altrui vita, di vivere le relazioni all’interno di una comunità o di una famiglia. L’amore, quando ‘prende corpo’ in una persona, in una comunità, anche piccola ed esigua, ha la forza di «far nuove tutte le cose» (Ap 21,5), come si dice nella seconda lettura di questa domenica.
La novità del comandamento dell’amore, che Gesù lascia in eredità ai suoi discepoli come il bene a lui più caro e prezioso, sta proprio in quel «come io». Il comandamento è nuovo perché
nuova è la ‘misura’ dell’amore, perché nuovo è colui che comanda un tale amore. Vivere e amare
«come Gesù»: in questo sta l’essenza e l’originalità dell’esistenza cristiana. Ma non si tratta qui semplicemente di ‘imitazione’ (è poi possibile ‘imitare’ Gesù? Non è forse una pretesa assurda?): il modo con cui ci è chiesto di amare se rimanda al suo modello – Gesù, appunto – riceve anche da esso la forza e la capacità stessa di farlo. Quel come, infatti, vuol dire anche perché (il termine greco kathMs è passibile anche di questo ulteriore significato): «Amatevi… come e perché io ho amato voi». È il fatto che Gesù ci ha amati per primo, che ci ha inseriti nel flusso vitale e rigenerante del suo amore, che noi, a nostra volta, possiamo «amarci gli uni gli altri». Senza questa ‘comunicazione’ dell’amore di Gesù in noi e senza questo nostro ‘comunicarci’ a lui, aprendoci all’accoglienza del suo dono, sarebbe vano e irrealistico pensare di ‘osservare’ questo singolare comandamento…
Da ultimo, una parola sulla peculiarità di un amore espresso in forma di «comandamento». Perché l’amore ha bisogno di essere ‘comandato’? Non diventa in questo modo una forzatura che rischia di svilire i tratti più belli e liberanti di questa grande – e unica – realtà umana che ci rende simili a Dio? Anzitutto bisogna ricordare che il comandamento dell’amore è un dono (Gesù dice infatti: «Vi do…»: v. 34) e questo semplice fatto contribuisce già a vederlo in una luce nuova e diversa da quella a cui una lunga consuetudine ci ha abituati. In secondo luogo, se l’amore non entrasse nell’orizzonte umano sotto l’aspetto del comandamento, rischierebbe di perdere la sua qualità divina e diventerebbe solo amore di spontaneità, di affinità, di simpatia, di attrazione. Il comandamento non si oppone all’amore e neppure è la negazione della sua libertà, ma è «il vero scrigno che lo custodisce» (Carmine Di Sante). Affinché esso rimanga amore divino, di una misura ‘altra’.
Fonte: Monastero Dumenza