Commento al Vangelo del 19 Maggio 2019 – Ileana Mortari (Teologa)

 “Vi do un comandamento nuovo”

Ispirandosi al genere letterario dei “discorsi di addio” e utilizzando alcune tradizioni degli “addii di Gesù”, Giovanni ha composto nei capitoli 13-17 del suo vangelo un lungo e straordinario discorso che il Nazareno pronuncia prima di affrontare la sua Ora. Queste pagine sono di una profondità spirituale senza paragoni, anche nello stesso quarto evangelo, e il breve brano proposto dalla liturgia ne costituisce il vertice.

Siamo di fronte infatti a quello che è stato giustamente definito il “testamento spirituale” di Gesù, imperniato su due motivi fortemente sottolineati dall’evangelista e strettamente legati tra di loro: la glorificazione del Figlio dell’uomo e il comandamento nuovo dell’amore.

Se nell’Antico Testamento la gloria divina è la manifestazione della potenza di Dio nelle forme sensibili del fuoco o della nube, nel Nuovo – e particolarmente nel quarto evangelo – essa compare come inscindibilmente legata alla persona e all’azione di Gesù.

Nel Verbo incarnato abita e si rivela la gloria del Figlio unico di Dio che splende nelle tenebre (prologo); essa accompagna il Profeta di Nazareth “potente in parole ed opere”, ma soprattutto rifulge nella sua morte, in quella misteriosa Ora in cui “il principe di questo mondo viene gettato fuori” (Giov. 12,31) e nella sua resurrezione.

All’occhio credente dell’evangelista proprio l’ora più oscura nella vita terrena di Gesù – quella del fallimento e della sconfitta segnata dalla condanna a morte – si rivela come l’ora della glorificazione perché in Lui, che ama fino al dono della propria vita, si manifesta la vera natura della potenza di Dio, che è potenza di amore. Per questo “Dio è stato glorificato in Lui” (v.31). E’ la più grande delle teofanie!

Ma l’Ora della Passione-glorificazione è anche l’ora del distacco di Gesù dai suoi discepoli (“ancora per poco sono con voi” – v.33), l’ora delle ultime volontà. Egli, ben consapevole di ciò che lo attende, dal momento in cui Giuda è uscito nel buio della notte per mandare ad effetto il suo tradimento, si rivolge ai discepoli con grande affetto – espresso dal termine “figliuoli” che ricorre solo qui – e comunica il suo testamento spirituale, quel “comandamento” dell’amore, in cui si concentra l’eredità più profonda che lascia loro.

Infatti è ancora soprattutto nel vangelo di Giovanni che emerge come l’amore (“agape” in greco) sia all’origine, al cuore e al termine dell’opera divina in Gesù Cristo. Egli non è venuto, non ha agito e non è morto che per amore: verso il Padre e verso tutti gli uomini ai quali il Padre lo ha inviato. E ora, nell’attesa del Suo ritorno, anche gli uomini potranno e dovranno amarsi allo stesso modo di Gesù.

“Dovranno” amarsi? E’ possibile “comandare” l’amore? O non è forse meglio che tale sentimento vada rispettato nella sua spontaneità?

Un’attenta analisi dei termini e del contesto scritturistico consente di andare oltre una visione “precettistica” delle parole di Gesù.

Anzitutto Egli “dona” (questo è il primo significato di “didomi”) un “comandamento” nuovo, e quest’ultimo non è tanto un ordine o una legge, analoga a quella del Primo Testamento, ma piuttosto una disposizione, un incarico, una possibilità di “entrare nella volontà del Padre” che Gesù rivela e che Egli stesso attua donando la sua vita.

Inoltre la novità di tale “comandamento” e anche la novità dell’amore rivelato e vissuto da Gesù non è cronologica, ma qualitativa. Si tratta di qualcosa di assolutamente originale, non paragonabile a situazioni precedenti e superiore a qualsiasi forma di amore. “Amate i vostri nemici”, Egli aveva detto nel Discorso della montagna e nel momento della sua morte avrebbe pronunciato parole di perdono verso i suoi persecutori.

Così l’espressione “come Io vi ho amato” ha un duplice significato. Quello immediato, comparativo, richiama l’esempio di Gesù che poco prima ha lavato i piedi ai discepoli; dunque viene proposto l’amore nella sua dimensione di servizio umile e gratuito. Ma la frase può essere tradotta anche con “poiché Io vi ho amato”. Cioè: è solo in forza dell’immenso amore di Gesù che anche noi, nella nostra piccolezza, possiamo amare i fratelli. E questo è molto confortante!

Infine – e siamo all’ultimo versetto della pericope – solo dall’amore che avranno gli uni per gli altri, potranno venire riconosciuti i discepoli di Gesù. Il che spiega molto bene la ragione del “comandamento”: come Egli viene riconosciuto Figlio perché è unito al Padre e lo ama fino al dono della sua vita, così i discepoli di Gesù saranno riconosciuti da tutti come i “suoi” se saranno uniti tra loro da un tale amore.

Sappiamo bene quanto sia difficile vivere questo comandamento non solo verso i nemici, ma anzitutto tra i fratelli nella fede della comunità cristiana! Eppure Gesù ha potuto pronunciare quelle parole proprio perché è Lui a darci non solo l’esempio, ma la possibilità e la forza di amare così. O non è forse vero che solo chi si sa e si sente amato è capace a sua volta di amare?

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