Mentre passava — si legge nel Santo Vangelo —
Gesù vide un uomo cieco dalla nascita..
Gesù che passa. Mi sono meravigliato spesso di questo modo semplice di
narrare la clemenza divina. Gesù passa e si accorge subito del dolore.
Considerate invece quanto fossero diversi in quel momento i pensieri
dei suoi discepoli. Gli domandarono infatti:
Maestro, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?.
Non dobbiamo sorprenderci se molti, anche fra quelli che si considerano
cristiani, si comportano in modo analogo: la prima cosa che pensano è
il male. Senza averne le prove, lo presuppongono. E non solo lo
pensano, ma si permettono anche di esprimerlo in pubblico con giudizi
avventati.
Il comportamento dei discepoli potrebbe essere considerato benevolmente
come leggerezza. Ma in quella società — come del resto in quella di
oggi, che in questo è cambiata di poco — c’erano altre persone, i
farisei, che facevano di questo atteggiamento una norma di condotta.
Ricordate in che modo Gesù Cristo li smaschera. È
venuto Giovanni, che non mangia e non beve, e hanno detto: Ha un
demonio. È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono:
Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori.
Attacchi sistematici alla buona fama, denigrazione di una condotta
irreprensibile: Gesù Cristo soffrì questa calunnia mordace e tagliente,
e non è strano che certuni riservino lo stesso trattamento a coloro
che, pur coscienti delle loro comprensibili e naturali miserie e dei
loro errori personali
— piccoli e inevitabili, aggiungerei, data l’umana debolezza —
tuttavia desiderano seguire il Maestro. Ma la costatazione di questa
realtà non deve indurci a giustificare siffatti peccati e delitti — che
con sospetta comprensione vogliono chiamare chiacchiere — contro il
buon nome di qualcuno. Gesù avverte che se hanno chiamato Belzebù il
padre di famiglia non è da sperare che si comportino meglio con quelli
della sua casa: ma chiarisce pure che colui che chiamerà sciocco suo fratello sarà reo del fuoco dell’inferno.
Da dove nasce il giudizio iniquo verso il prossimo? Si direbbe che
alcuni hanno sempre davanti agli occhi delle lenti deformanti, che
fanno loro vedere tutto storto. Per partito preso, non ammettono che
sia possibile l’onestà, o almeno l’impegno costante per comportarsi
bene. Tutto in loro è ricevuto — come dice l’antica sentenza — a misura
del recipiente, e cioè a misura della loro preconcetta deformazione.
Per costoro anche la cosa più onesta nasconde necessariamente una
cattiva intenzione rivestita dell’apparenza ipocrita del bene. Quando scoprono chiaramente il bene — scrive san Gregorio — vanno a scrutarlo per vedere se non contiene qualche male occulto.
68 È difficile far capire a queste persone, nelle quali la deformazione
diventa quasi una seconda natura, che è più umano e più giusto pensare
bene del prossimo. Sant’Agostino dà questo consiglio: Cercate
di acquistare le virtù che secondo voi mancano ai vostri fratelli, e
così non vi accorgerete più dei loro difetti, non avendoli voi. Per
alcuni questo modo di fare sarebbe ingenuità. Essi sarebbero invece più
"realisti" e più ragionevoli. Erigendo il pregiudizio a norma di
giudizio, offendono chiunque prima ancora di averne ascoltato le
ragioni. Poi, con "oggettività" e "benevolenza", concederanno forse
all’offeso la possibilità di difendersi: il che va contro ogni morale e
ogni diritto, perché, invece di assumersi l’onere di provare le pretese
colpe, "concedono" all’innocente il "privilegio" di dimostrare la
propria innocenza. Non sarei sincero se non vi confidassi che tutte
queste considerazioni sono qualcosa di più di un’affrettata spigolatura
dai trattati di diritto e di morale. Esse si fondano su un’esperienza
che non pochi oggi soffrono nella propria carne, analogamente a quanto
è accaduto a molti altri, che sono stati oggetto — spesso e per lunghi
anni — di esercitazioni di tiro al bersaglio con mormorazioni,
diffamazioni e calunnie. La grazia di Dio e un carattere alieno dal
risentimento fanno sì che tutto questo non lasci in loro la minima
traccia di amarezza. Mihi pro minimo est, ut a vobis iudicer: a
me importa ben poco essere giudicato da voi, potrebbero ripetere con
san Paolo. A volte, per dirla nel linguaggio corrente, avranno aggiunto
che tutto questo non faceva loro né caldo né freddo. Ed è la pura
verità.
D’altra parte non posso negare che a me fa una gran pena l’anima di chi
attacca ingiustamente la reputazione altrui, perché l’ingiusto
aggressore rovina se stesso. E soffro anche per coloro che, di fronte
ad accuse violente e arbitrarie, non sanno dove volgere gli occhi:
rimangono sgomenti, non le credono possibili, e magari pensano che si
tratti di un incubo.
Qualche giorno fa leggevamo nelle letture della santa Messa il racconto
di Susanna, la donna casta che venne ingiustamente accusata di
disonestà da due corrotti anziani. Susanna,
piangendo, esclamò: « Sono alle strette da ogni parte. Se cedo, è la
morte per me; se rifiuto, non potrò scampare dalle vostre mani ».
Quante volte l’insidia degli invidiosi e degli intriganti mette delle
persone oneste in questa stessa situazione! Le si pone di fronte a
questa alternativa: offendere Dio oppure vedersi rovinata la
reputazione. L’unica soluzione nobile e degna è, allo stesso tempo,
estremamente dolorosa, dovendo prendere questa decisione: Meglio per me cadere innocente nelle vostre mani che peccare davanti al Signore.
69 Torniamo all’episodio della guarigione del cieco. Gesù ha replicato
ai suoi discepoli che quella disgrazia non è conseguenza del peccato,
ma occasione perché si manifesti la potenza di Dio. E con meravigliosa
semplicità decide che il cieco riacquisti la vista.
Comincia allora per quell’uomo, assieme alla gioia, la tribolazione. Non lo lasciano più in pace. I primi a cominciare sono i vicini e quelli che lo avevano visto chiedere l’elemosina.
Il Vangelo non dice che si rallegrarono, ma che invece stentavano a
credergli, benché il cieco insistesse a ripetere che lui, che ora ci
vedeva, era la stessa persona che prima non ci vedeva. Invece di
lasciargli godere in pace la grazia ricevuta, lo trascinano dinanzi ai
farisei, e quelli tornano a domandargli come sono andate le cose. Egli
spiega per la seconda volta: Mi ha posto del fango sopra gli occhi, mi sono lavato e ora ci vedo.
I farisei vogliono allora dimostrare che quanto è avvenuto — che è una
cosa buona e un grande miracolo — non è avvenuto. Alcuni di loro
ricorrono a ragionamenti meschini, ipocriti, tutt’altro che equanimi:
ha operato la guarigione in giorno di sabato, e poiché il sabato è
proibito lavorare, non può aver fatto il miracolo. Altri avviano quella
che oggi si chiamerebbe un’inchiesta. Vanno a trovare i genitori del
cieco: È questo il vostro figlio, che voi dite esser nato cieco? Come mai ora ci vede?.
La paura dei potenti fa sì che quei poveri genitori diano una risposta
che raccoglie tutte le garanzie del metodo scientifico: Sappiamo
che questo è il nostro figlio e che è nato cieco; come poi ora ci veda,
non lo sappiamo, né sappiamo chi gli ha aperto gli occhi; chiedetelo a
lui, ha l’età, parlerà lui di se stesso.
I promotori dell’inchiesta non ci possono credere, perché non ci vogliono credere. Chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: (…) Noi sappiamo che quest’uomo — Gesù Cristo — è un peccatore.
In poche parole il testo di san Giovanni ci offre qui un tipico esempio
di un tremendo attentato contro il diritto fondamentale, che per natura
compete a tutti, di essere trattati con rispetto.
L’argomento continua a essere di attualità. Non costerebbe molto
indicare, ai nostri giorni, esempi di questa curiosità aggressiva che
porta a indagare morbosamente nella vita privata degli altri. Un minimo
senso di giustizia esige che persino nell’investigazione di un presunto
delitto si proceda con cautela e moderazione, senza prendere per sicuro
ciò che è solo possibile. Si comprende chiaramente che la curiosità
malsana, che porta a rovistare in ciò che non solo non costituisce un
reato ma può essere addirittura un’azione meritoria, deve considerarsi
una vera e propria perversione.
Di fronte ai negoziatori del sospetto, che dànno l’impressione di
organizzare una "tratta dell’intimità", è doveroso difendere la dignità
di ogni persona, il suo diritto al silenzio, a non replicare. E in
questa difesa sono d’accordo tutte le persone oneste, cristiane o non
cristiane, perché è in gioco un valore comune: la sacrosanta libertà di
essere se stessi, di non esibirsi, di conservare un giusto e delicato
riserbo circa le proprie gioie, i propri dolori e le pene di famiglia;
e soprattutto la libertà di fare il bene senza ostentazione, di aiutare
i bisognosi per puro amore, senza vedersi obbligati a pubblicizzare
queste opere di servizio agli altri e tanto meno a offrire l’intimità
della propria anima agli sguardi indiscreti e obliqui di persone che
della vita spirituale non sanno niente e non vogliono saperne niente,
se non per prendersene gioco empiamente.
Ma com’è difficile sentirsi liberi da questa aggressività pettegola! I
metodi per non lasciar tranquillo nessuno si sono moltiplicati. Mi
riferisco ai mezzi tecnici e anche a quelle diffuse argomentazioni a
cui è difficile opporsi se si vuole conservare la buona fama. Per
esempio, si parte spesso dal presupposto che tutti si comportino male,
e allora, grazie a questo ragionamento assurdo, sembra inevitabile il
"meaculpismo", l’autocritica. Se uno non si butta addosso una
tonnellata di fango, pensano che non solo è un perfetto mascalzone, ma
anche un ipocrita e un presuntuoso.
In altre occasioni il procedimento è diverso. Chi parla o scrive
calunniando è disposto ad ammettere che siete persone perbene, ma
aggiunge che altri forse non la penseranno allo stesso modo e
potrebbero pubblicare che siete dei ladri: come dimostrate che non
siete dei ladri? Oppure: lei ha sempre detto che la sua condotta è
pulita, nobile, retta; le dispiacerebbe considerarla di nuovo per
vedere se non è invece sporca, ignobile e falsa?
70 Non sono esempi immaginari. Sono convinto che qualsiasi persona o
qualsiasi istituzione un po’ conosciuta potrebbe aggiungerne altri
simili. Si è creata in alcuni ambienti la falsa persuasione che il
pubblico, il popolo, o comunque lo si voglia chiamare, abbia il diritto
di conoscere e interpretare i particolari più intimi della vita degli
altri.
Permettetemi un accenno a una cosa che è profondamente unita alla mia
anima. Da oltre trent’anni ho detto e scritto in mille modi che l’Opus
Dei non ha nessun fine temporale, politico, ma cerca soltanto ed
esclusivamente di diffondere tra le genti di ogni razza, di ogni
condizione sociale e di ogni paese la conoscenza e la pratica della
dottrina di salvezza portata da Cristo; cerca soltanto di contribuire a
far sì che vi sia più amore di Dio sulla terra, e quindi più pace, più
giustizia tra gli uomini, figli di un solo Padre.
Molte migliaia di persone — milioni — hanno capito questo in tutto il
mondo. Altri, piuttosto pochi, sembra che non lo abbiano capito, per i
motivi che siano. Se il mio cuore è più vicino ai primi, tuttavia
rispetto e amo anche i secondi, perché in tutti è da rispettare e
stimare la dignità personale e tutti sono chiamati alla gloria dei
figli di Dio.
Ma non manca mai una minoranza settaria che, non comprendendo ciò che
io e tanti altri amiamo, vorrebbe che glielo spiegassimo d’accordo con
la loro mentalità, che è esclusivamente politica, estranea a ogni
dimensione soprannaturale, attenta unicamente a equilibri di interessi
e di pressioni di gruppi.
Se non ricevono una spiegazione così, falsa e accomodata ai loro gusti,
continuano a pensare che ci siano menzogna, occultamento e piani
sinistri.
Lasciate che vi dica che di fronte a questi casi non mi affiggo né mi
preoccupo. Direi anzi che mi diverto, se non fosse che non posso passar
sopra al fatto che offendono il prossimo e commettono un peccato che
grida vendetta al cospetto di Dio. Io sono aragonese e anche per
naturale disposizione di carattere amo la sincerità, per cui provo una
repulsione istintiva per tutto ciò che sa di raggiro. Ho sempre cercato
di rispondere con la verità, senza iattanza e senza orgoglio, anche
quando i calunniatori erano maleducati, arroganti, prevenuti e privi
del più piccolo segno di umanità.
Mi è venuta alla mente più volte la risposta del cieco nato ai farisei
che domandavano per l’ennesima volta com’era avvenuto il miracolo: Ve l’ho già detto e non mi avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?.
71 Il peccato dei farisei non consisteva nel non vedere Dio in Cristo,
bensì nel chiudersi volontariamente in se stessi, perché non
tolleravano che Gesù, che è la luce, aprisse loro gli occhi. Questa
cecità ha un’influenza immediata nei rapporti con i nostri simili. Il
fariseo che credendosi luce non permette a Dio di aprirgli gli occhi è
lo stesso che tratta con superbia e ingiustamente il prossimo: Io ti ringrazio di non essere come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri; e nemmeno come questo publicano.
Così prega. E al cieco nato, che persiste nel raccontare la verità
della guarigione miracolosa, vengono rivolti questi insulti: Sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi? E lo cacciarono fuori.
Tra quelli che non conoscono Cristo ci sono molti galantuomini che, per
elementare riguardo, sanno comportarsi con delicatezza e sono sinceri,
cordiali, educati. Se loro e noi lasciamo che Cristo guarisca quel
resto di cecità che ancora ci offusca gli occhi, se permettiamo al
Signore di applicarci quel fango che nelle sue mani diventa un
incomparabile collirio, allora noi potremo vedere le realtà terrene e
intravedere le realtà eterne con una luce nuova, con la luce della
fede: avremo acquistato uno sguardo puro.
Questa è la vocazione del cristiano: la pienezza della carità che è
paziente, è benigna; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si
gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si
adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma
si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera. tutto
sopporta.
La carità di Cristo non è soltanto un buon sentimento verso il
prossimo, non si limita al piacere della filantropia. La carità infusa
da Dio nell’anima trasforma dal di dentro l’intelligenza e la volontà,
fonda soprannaturalmente l’amicizia e la gioia di compiere il bene.
Contemplate l’episodio della guarigione dello storpio, tramandatoci dagli Atti degli Apostoli.
Pietro e Giovanni salivano al tempio e, all’entrare, si imbattono in un
uomo seduto accanto alla porta; quest’uomo era storpio fin dalla
nascita. La scena ricorda quella della guarigione del cieco. Ma in
questa occasione i discepoli non pensano che la disgrazia sia dovuta ai
peccati personali dell’infermo o a quelli dei suoi genitori. Invece gli
dicono: Nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, alzati e cammina.
Prima erano pieni d’incomprensione, adesso di misericordia; prima
giudicavano temerariamente, adesso guariscono miracolosamente nel nome
del Signore. È sempre Gesù che passa! È Cristo che continua a
passare per le strade e le piazze del mondo nella persona dei suoi
discepoli, i cristiani: io gli chiedo ardentemente di passare attraverso l’anima di qualcuno di coloro che in questo momento mi ascoltano.
72 All’inizio ci sorprendeva l’atteggiamento dei discepoli di Gesù di
fronte al cieco nato. Si regolavano su quel disgraziato proverbio: a
pensar male non si sbaglia mai. Dopo, quando conoscono meglio il
Maestro, quando si rendono conto di ciò che significa essere cristiani,
le loro opinioni si ispirano alla comprensione.
In qualsiasi uomo — scrive san Tommaso d’Aquino — esiste
qualche aspetto per il quale gli altri possono considerarlo come
superiore a loro, come dice l’Apostolo: « Mossi dall’umiltà,
considerate gli altri superiori a voi » (Fil 2, 3). D’accordo con questo, tutti gli uomini devono rendersi reciprocamente onore.
Con la virtù dell’umiltà scopriamo che le manifestazioni di rispetto
alla persona — al suo onore, alla sua buona fede, alla sua intimità —
non sono formalità convenzionali, ma le prime manifestazioni della
carità e della giustizia.
La carità cristiana non si limita a dare un soccorso economico ai
bisognosi, ma si impegna anzitutto a rispettare e a comprendere ogni
persona come tale, nella sua intrinseca dignità di uomo e di figlio del
Creatore. Pertanto gli attentati alla dignità della persona, alla sua
reputazione, al suo onore, stanno a dimostrare che chi li commette non
conosce o non pratica alcune verità della nostra fede cristiana. E che
comunque non ha un vero amore di Dio. La
carità con cui amiamo Dio e quella con cui amiamo il prossimo sono una
sola virtù, perché la ragione di amare il prossimo è appunto Dio, e
quando amiamo il prossimo con carità amiamo Dio.
Spero che saremo capaci di trarre delle conseguenze precise da questo
nostro momento di conversazione alla presenza del Signore. Anzitutto,
il proposito di non giudicare gli altri, di non offendere nemmeno con
il dubbio, di annegare il male nella sovrabbondanza del bene,
diffondendo intorno a noi la convivenza leale, la giustizia e la pace.
E poi la decisione di non rattristarci mai se la nostra condotta retta
è capita male da altri; se il bene che cerchiamo di realizzare con
l’aiuto continuo del Signore è interpretato in modo distorto; se
qualcuno, con un ingiusto processo alle intenzioni, ci attribuisce
propositi malvagi, procedimenti dolosi e simulazione. Perdoniamo
sempre, col sorriso sulle labbra. Parliamo chiaramente e senza rancore,
se in coscienza riteniamo di dover parlare. E lasciamo tutto nelle mani
di Dio nostro Padre, con un silenzio divino — Iesus autem tacebat,
Gesù rimaneva in silenzio — se si tratta di offese personali, per
brutali e indecorose che siano. Preoccupiamoci solo di fare opere
buone: sarà Lui a farle risplendere davanti agli uomini.