FACCIAMO FESTA
La liturgia di questa quarta Domenica di Quaresima esorta ad aprirsi ad una fratellanza universale perché siamo tutti figli di Dio Padre, Provvidente e Misericordioso.
Gesù si trova a mangiare con i peccatori. L’atto del prendere cibo insieme è segno della comunione che fa pregustare la vita eterna con Dio nel Regno.
È evidente il contrasto con l’atteggiamento degli scribi, dei farisei e degli osservanti che evitano i rapporti con le persone che non compiono le prescrizioni della Legge. I non osservanti sono considerati impuri, immorali o irreligiosi; sono da tenere lontano per non contaminarsi.
3. Ed egli disse loro questa parabola:
Probabilmente la parabola a cui si riferisce Luca è solo quella del Padre misericordioso, a cui sarebbero state aggiunte successivamente le altre due: quella della pecorella smarrita e della moneta perduta. I destinatari erano solo scribi e farisei, ma si può intendere che l’uditorio comprendesse anche tutti i presenti.
Anche noi siamo nel numero dei destinatari. Apriamo il cuore alla Parola e lasciamoci convertire.
11. ”Un uomo aveva due figli.
Il fatto che i figli sono due consente di presentare due comportamenti appositamente divergenti.
12. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze.
Luca non dice se ci sia stato un litigio tra il padre e il figlio minore. Afferma solo che il giovane chiede la divisione del patrimonio, cosa che solitamente avveniva solo dopo la morte del genitore. È come se dicesse che il padre è già morto per lui.
13. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto.
La partenza del figlio minore sembra dettata non da una fuga, ma dal desiderio di indipendenza, di realizzazione di un sogno, dalla voglia di libertà. Era comune al tempo di Gesù che gli israeliti emigrassero per trovare una migliore sistemazione all’estero, dal momento che la terra di Palestina non era sufficientemente grande per consentire la vita per tutto il popolo.
Invece di mettere a frutto il capitale ricevuto, però, il giovane sperperò tutti i suoi beni vivendo da dissoluto. Luca mette in evidenza che il peccato del figlio minore non è quello di essere andato via di casa, ma di aver sperperato tutti i beni ricevuti, perdendo davanti a suo padre ogni diritto.
Riflettiamo sul fatto che Dio ci lascia liberi e sta a noi scegliere in che modo utilizzare l’indipendenza ricevuta, se per il bene o per il male, scambiato erroneamente per la felicità.
14. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno.
Il vangelo presenta due catastrofi: quella personale del giovane e quella naturale, costituita dalla carestia, avvenimento comune in terre semidesertiche.
Persa ogni sicurezza materiale, rovinate le relazioni, il figlio minore è ridotto in miseria. Ora dipende totalmente dagli altri.
15. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci.
In queste poche battute viene presentata la rovina in cui è caduto il giovane. Sia spiritualmente che materialmente non poteva scendere più in basso. Egli, ebreo, è costretto a mettersi a servizio di un
pagano, perché gli abitanti della regione non erano israeliti, ma stranieri. Il lavoro che è costretto, suo malgrado, a svolgere è molto disprezzato: guardiano di porci, animali ritenuti immondi.
16. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla.
I porci ricevono in cibo le carrube, ma il giovane non ha diritto nemmeno a quelle. Nessuno pensa al suo nutrimento, nessuno si relaziona con lui in modo umano o, almeno, misericordioso. Con i soldi, l’onore, la casa, il cibo ha perso anche le relazioni di affetto che lo legavano al padre e alla famiglia. Non ha più dignità ed è considerato meno di una bestia.
17. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!
La parabola comincia ad evidenziare che l’allontanamento da Dio conduce alla morte spirituale, alla caduta nel peccato. Un proverbio rabbinico dice: “Quando gli Israeliti sono costretti a mangiare carrube, si convertono”. Giunto al fondo, il ragazzo comincia a pensare che è meglio ritornare a casa, dal padre, almeno per non morire di fame. La motivazione non è eccelsa, ma è comunque una spinta per ritornare nei suoi passi, per convertirsi.
18. Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19. non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”.
Il giovane formula nei suoi pensieri una frase di circostanza. Sa di non avere più alcun diritto nei confronti del padre. Non spera nel perdono, si augura soltanto il minimo di pietà: un po’ di cibo e un lavoro per sopravvivere.
Anche noi di fronte a Dio non abbiamo meriti da esibire. Il peso del nostro peccato ci rimorde. La difficoltà più grande è perdonare se stessi. È questo il momento per alzare gli occhi a Dio e implorare misericordia.
20. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò.
Il figlio minore mette in atto la sua risoluzione. Si alza. Torna. Intraprende il cammino a ritroso.
L’attenzione ora è posta tutta sul padre. Le parole commuovono fino in fondo; sono tra le più belle della Scrittura.
“Il padre lo vide”: lo sguardo del padre scruta l’orizzonte in continuazione, non si rassegna a non vedere più il figlio. Finalmente lo intravede avvicinarsi lacero e misero. Lo riconosce.
“Ne ebbe compassione”: il termine ebraico dice che si muovono le viscere, come avviene ad una madre verso il proprio figlio. L’amore del padre è un amore “materno”. Dio è Padre e Madre, è Creatore e Generatore di vita. Così è Dio con noi. Ci ama anche se ritorniamo a lui sporchi e laceri. Come una madre che non teme di prendere in braccio il figlioletto caduto nel fango. È suo figlio, e tutto il resto non conta.
“Gli corse incontro”: non è dignitoso per il suo rango e per la sua età mettersi a correre. Eppure l’amore è più grande, supera ogni convenienza sociale.
“Gli si gettò al collo”: il padre non attende che il figlio si umili. Lo afferra prima e lo abbraccia con slancio. Non lo rimprovera. Non lo insulta. Non lo apostrofa. Lo ama e basta. È suo figlio, ed è tornato. Il padre sa che incorre nell’impurità legale toccando il figlio impuro, ma questo non lo ferma. Solo il figlio conta.
“Lo baciò”: non permette al figlio di pronunciare parola. Lo bacia. Lo riammette alla sua presenza, gli dona il suo amore. Gli manifesta che nulla è cambiato nei suoi confronti.
21. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”.
Finalmente il figlio minore riesce a parlare e a confessare il suo peccato, ma la frase rimane incompleta, perché non diventerà mai un salariato. È “il figlio” e tale rimane per sempre.
22. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi.
Il padre imparte ordini precisi ai servi perché compiano tre gesti simbolici pieni di significato. Il figlio deve essere reintegrato totalmente in dignità e in autorità, e devono agire in fretta.
“Il vestito più bello”: è la veste lunga, ricca, sontuosa, solitamente regalata dal re ad un ospite di particolare riguardo.
“L’anello al dito”: è l’anello con il sigillo che permette di suggellare gli atti legali imprimendo i simboli in rilievo.
“I sandali”: solo gli uomini liberi calzavano i sandali, mentre gli schiavi camminavano a piedi nudi. Il figlio è un uomo libero, non è un servo, né uno schiavo.
23. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa,
Festeggiare il ritorno con un banchetto è il segno della ritrovata comunione familiare. Segno di gioia, il mangiare insieme indica lo stare accanto con pari dignità. Il nostro è il Dio della festa, che ha gioia per ogni figlio che ritorna. È la festa del perdono e della rinascita.
“Il vitello grasso”: è stato fatto ingrassare apposta per mangiarlo nelle grandi occasioni. Il ritorno del giovane è l’occasione propizia per utilizzarlo.
24. perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
La gioia del padre è al culmine. Il figlio era come morto ed è tornato in vita, era come perso (cfr. pecorella smarrita e moneta perduta) ed è stato ritrovato.
Diversamente dalla concezione ebraica corrente, Luca presenta la conversione come un ritorno e una grande festa. Per Gesù, infatti, il cambiamento di vita non è dato da digiuni, penitenze elemosine, a testimonianza della volontà di redimersi. È gioia che nasce dall’incontro con Dio Padre che perdona, riabilita gratuitamente. Il figlio minore non ha fatto nulla per essere riaccolto, se non il fatto che ha cercato l’incontro.
Non è il nostro accumulo di meriti, ma l’incontro con Dio che, da peccatori, ci rende giusti per la sua misericordia. Gesù ci chiede di coltivare la fede nella redenzione alla quale dobbiamo aprirci, con umile e fiduciosa riconoscenza.
25. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze;
La scena cambia e si concentra sul figlio maggiore, tornato dai campi. Nel grande clima di festa ci si aspetterebbe che anche lui si lasciasse coinvolgere dalla gioia del padre, felice per il ritorno del fratello minore. Tutto al contrario: si arrabbia e non vuole entrare. Ecco il grande contrasto!
26. chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”.
Il figlio maggiore non si reca dal padre, non va ad abbracciare il fratello. Si informa da un servo, come se fosse un estraneo alla famiglia. La gelosia afferra il suo cuore.
28. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo.
La logica della retribuzione per un’osservanza fedele viene totalmente capovolta. Non più l’osservanza esteriore, ma la gratuità dell’amore. Compassione e non egoismo.
Di nuovo il padre esce: prima è uscito incontro al figlio minore che è ritornato. Ora esce incontro al figlio maggiore che non vuole entrare per puntiglio, per rabbia, per gelosia.
29. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici.
Il figlio maggiore elenca tutti i suoi meriti: “io ti servo”, “non ho mai disobbedito”.
Esige giustizia e riconoscimento. Il tono è di rimprovero e di irriverente atteggiamento verso un padre ritenuto ingrato. Il rapporto con il padre non è basato sull’amore autentico e sulla gratuità, ma sul servilismo e sulla meritocrazia.
Il salto che deve fare è quello della gratuità, che il padre gli insegna perdonando e condonando tutto al figlio minore. È una diversa logica! Il fariseismo aveva questo atteggiamento: esigeva da Dio il riconoscimento dei meriti per una fedeltà legalistica.
Stiamo attenti anche noi cristiani di non far valere davanti a Dio i nostri meriti per la religiosità esteriore che ci gloriamo di manifestare…
30. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”.
Il figlio maggiore rincara la dose e continua ad offendere il padre e a disprezzare il fratello minore. La reazione è estremamente negativa e scaturisce da una grande ira che lo porta a calpestare ogni legame familiare. L’egoismo schiaccia le relazioni e ci rende acidi e freddi verso coloro che ci sono più vicini. I legami familiari, allora, non contano più, anzi diventano un ostacolo alla realizzazione dei propri interessi.
31. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo;
Come ha accolto il figlio minore, così il padre ora accoglie il figlio maggiore, che si è allontanato dal padre, pur rimanendo in casa. Allontanamento emotivo e non fisico, ma sempre una distanza che solo l’amore riesce a valicare. Il padre recupera con l’affetto anche il primogenito e gli ricorda che è lui l’erede legittimo di tutto.
Anche Dio Padre ci attira ricordando che quello che conta è la comunione con Lui. Tutto il resto è nulla.
32. ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato””.
Il Vangelo non dice se il figlio maggiore abbia riabbracciato il padre e il fratello minore. È un finale aperto che ci invita a calare nel nostro vissuto l’invito al perdono, alla riconciliazione, alla logica dell’amore. Il padre paziente e dolce richiama i valori che sostengono la famiglia: l’unità nella diversità, la condivisione degli affetti, il rispetto dell’altro nella sua dignità, qualsiasi cosa accada, qualsiasi sbaglio commetta.
Impariamo da questi atteggiamenti il nostro modo di essere nella Chiesa, nella famiglia, nella comunità. Accogliamo chi ha sbagliato, seminiamo l’amore che perdona ogni iniquità, sentiamoci accolti come siamo e, nel momento della caduta, spalanchiamo le braccia a Colui che siamo sicuri ci accoglie ancora prima che glielo chiediamo; che ci perdona ancora prima che gli chiediamo perdono.
Entriamo nella logica dell’amore, evitiamo di assecondare gli impeti negativi che distruggono i legami, costruiamo umilmente strade che favoriscano l’incontro, disposti a pagare di persona pur di essere figli del Padre che ci ama gratuitamente, solo perché siamo suoi. Egli ci ricopre delle vesti splendide della salvezza e ci farà gustare in pienezza la gioia nella cena pasquale dell’Agnello, nella comunione piena con tutti i nostri fratelli.
Suor Emanuela Biasiolo