Lectio Divina di domenica 31 Marzo 2019 – Comunità di Pulsano

Lectio Divina di domenica 31 Marzo 2019 a cura della Comunità monastica di Pulsano.

DOMENICA «DEL PADRE MISERICORDIOSO»

Antifona d’Ingresso Cf Is 66,10-11

Rallégrati, Gerusalemme,

e voi tutti che l’amate, riunitevi.

Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza:

saziatevi dell’abbondanza

della vostra consolazione.

 

Laetáre, Ierúsalem,

et convéntum fácite,

omnes qui dilígitis eam;

gaudéte cum laetítia, qui in tristítia fuístis,

ut exsultétis,

et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestrae.

Oggi Domenica di Laetare (rallegratevi) la Divina Liturgia anticipa l’esultanza pasquale facendoci condividere la gioia del Padre misericordioso che accoglie e fà festa per il figlio prodigo.

La celebrazione di questa domenica a metà del cammino quaresimale è pervasa da un contenuto senso di gioia; è la domenica di Laetare (rallegratevi), nome preso dalla prima parola dell’antifona d’ingresso della messa. Il sacerdote in questo giorno può sostituire con il colore rosa quello viola dei suoi paramenti, esprimendo così anche visivamente quella gioia dovuta alla pasqua ormai vicina (cfr. coll[1]), all’incontro con Cristo luce che illumina ogni uomo.

La citazione di Is 66,10-11 è adattato, il testo originale diceva «Gioite con Gerusalemme». Nell’adattamento oggi l’imperativo è rivolto a Gerusalemme stessa, la Chiesa che qui celebra. Intorno ad essa chiunque la ama deve fare adunanza, poiché dopo la tristezza dell’abbandono divino, causato dal peccato, essa si riscopre di nuovo come la Sposa amata, con cui si fa giubilo (Sal 121,6), anzi di cui esulta il Signore stesso (Is 63,19). Così la Sposa riceve dal Signore altri figli, e il Signore dichiara beati chi la amerà e gode della sua pace (Tob 13,18). Si avvicina il tempo della gioia, la consolazione che il Signore infonde sulla Sposa, e che i figli della Sposa succhieranno dalle mammelle di lei, nutriti amorevolmente. I Padri, approfondendo questo tema, spiegano che le due mammelle della Sposa che nutrono i figli per la Vita eterna sono le Scritture dell’A T. e del N. T.

Canto all’Evangelo Lc 15,18

Gloria e lode a te, o Cristo!

Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò:

Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te.

Gloria e lode a te, o Cristo!

Il canto all’evangelo orienta in qualche modo la proclamazione della pericope di oggi. Il v. 18 è la decisione del Figlio prodigo di “tornare” dal Padre suo e di confessargli in modo aperto e totale il suo stato di colpa verso il Cielo e verso gli uomini, nella speranza di essere reintegrato, sia pure all’ultimo posto, nella Casa comune, dove tutti hanno tutto e a nessuno mai alcunché manca.

Al centro della liturgia troviamo oggi quel capolavoro dell’evangelo di Luca che è la parabola del figlio prodigo [o del figlio perduto e del figlio fedele (Bibbia di Gerusalemme), oppure del Padre misericordioso (La Bibbia in lingua corrente)].

La parabola, propria di Luca, è la più nota, la più lunga, quella che più di tante altre di Gesù ha fatto breccia nel cuore dei credenti e dei non credenti. Per la sua ampiezza e pienezza di significato, per la vastità del respiro e la dottrina che contiene viene giustamente definita un piccolo evangelo nell’Evangelo»

Il contesto della parabola è dato dai vv. 1-3 del c. 15 che provvidamente la liturgia pone a introduzione del racconto: è la risposta diretta alle mormorazioni dei farisei e degli scribi, indignati del modo umano e delicato con cui Gesù avvicinava i peccatori e si rallegrava per la loro conversione. Accusato di essere troppo condiscendente con i peccatori, Gesù risponde proponendo il comportamento del Padre, che egli è venuto a rivelare al mondo: «Chi ha veduto me, ha veduto il padre» (cfr. Gv 14,9): forse mai come nella condotta di Gesù verso i peccatori queste due parole, dette alla vigilia della morte trovano la più convincente esemplificazione. Più che del “figliolo prodigo” o del “fratello maggiore”, è la parabola del Padre, e sono proprio le sue parole che ci danno la via per comprendere il racconto: «Bisognava far festa». L’hanno capito i peccatori, che fanno festa a Gesù; i giusti sono chiamati a fare altrettanto.

Questa IV Dom. di Quaresima è segnata particolarmente da questo clima di gioia: “rallegratevi” (cfr. Ant. di ingresso, di comunione[2], offertorio, nuova colletta, ecc.). La festa e la gioia del perdono cominciano quaggiù (vedi anche il gioioso colore rosa che attenua il severo viola penitenziale) .

Per quattro volte nel racconto evangelico risuona il verbo “festeggiare”, a cui si aggiunge anche il verbo della gioia che scandiva le due precedenti parabole gemelle della pecora e della dramma perduta e ritrovata.

La gioia biblica è, certo, un’esperienza psicologica e umana, comprendente l’allegria e la serenità, ma va oltre: è, infatti, lo stato di chi è in comunione con Dio e partecipa della sua perfezione.

È partecipazione al suo amore: il figlio maggiore della parabola non riesce a condividere la gioia del padre perché il suo cuore è gretto ed egoista». L’evangelista Luca, in particolare, sente la gioia come l’atmosfera dei tempi messianici inaugurata da Gesù; a lui si accosta Paolo, che così si rivolge ai cristiani di Filippi: «Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete saldi nel Signore così come avete imparato, carissimi!.,,Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino!» (Fil 4,1 »4-5).

E Pietro nella sua prima lettera continua: «Esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre conseguite la meta della vostra fede, cioè la salvezza delle anime» (1 Pt 1,8-9).

Esaminiamo il brano

1 – «si avvicinavano…pubblicani e peccatori»: nonostante le strettissime esigenze appena espresse sul discepolato (14,25-35), “rinnegati e furfanti” non desistono dall’ avvicinarsi a Gesù.

«tutti»: si sottolinea la totalità; nessuno è escluso, specialmente i lontani.

«per ascoltarlo»: tutti i peccatori sono ammessi come uditori della gloria di Dio. Ascoltare significa diventare discepoli,.

2 – «Farisei e scribi mormoravano»: nelle sacre Scritture questo vocabolo è il verbo della contestazione di Dio e del rifiuto del suo modo di dare salvezza («Perché ci hai fatto uscire dall’Egitto ?»; è il verbo che percorre i libri biblici che parlano di Israele nel deserto e della ribellione a Dio e ai suoi doni (Esodo, Numeri, Deuteronomio). È il verbo con cui l’uomo pretende di suggerire a Dio come dovrebbe comportarsi con l’uomo e come dovrebbe dargli la salvezza (o il castigo). Per costoro (farisei e scribi) i pubblicani e i peccatori sono persone ormai «perdute»: su di loro incombe il giudizio di Dio.

L’accoglienza calorosa che essi ricevono da Gesù è inspiegabile e contro ogni logica.

3 – Il motivo che spinge Gesù a narrare questa parabola è dimostrare che Dio non la pensa come gli scribi e ì farisei. Scribi e i farisei sono i veri destinatari del racconto; la parabola è un invito ai giusti perché si convertano dalla propria giustizia, che condanna, alla gioia del Padre, che giustifica. Gesù parla non tanto per difendersi dalle loro obiezioni, quanto per aprire loro gli occhi al mistero di Dio. Dio è misericordia.

11- «Un uomo»: È Dio, che nel corso della lettura si rivelerà insieme padre e madre, legge e amore.

«aveva due figli»: i due figli indicano la totalità degli uomini; peccatori о giusti, per lui siamo sempre e solo figli, per questo ha compassione di tutti e non guarda i peccati.

12«Padre»: così lo chiama il figlio minore; non tanto per dei sentimenti positivi, quanto per far valere i propri diritti. Lo conosce come uno che gli deve dare delle cose.

«dammi»: attivo imperativo aoristo: inizia un’azione nuova. Alcune norme regolavano il diritto di successione alla morte del padre, о la spartizione dei beni mentre era ancora in vita il padre: cfr. Dt 21,17; Sir 33,20-24.

«divise»: Dio non è antagonista, concede ai suoi figli tutto quanto ha.

13-16 – Preso dall’ansia di vivere, portandosi via tutto, si allontana dal Padre, ma così, presto, perde tutte le sue sostanze e se stesso.

«a pascolare i porci»: il peggio che poteva capitargli in fatto di degradazione (cfr. 8,32), perché oltre a tutto, si trovava in uno stato di impurità legale (cfr. Lv 11,7; Dt 14,8).

17-19 – «rientrò in se stesso»: semplicemente rinsavisce; constata che la realtà non era come pensava. Si noti come in questo soliloquio l’evangelista Luca non esprima grandi sentimenti di pentimento; è una conversione a sé, più che al Padre, intuisce il vero proprio interesse. La fame gli fa capire che s’è sbagliato nel valutare le cose; è l’inizio di un cammino. Dice un antico proverbio ebraico: «Quando gli israeliti hanno bisogno di mangiare carrube, è la volta che si convertono».

«salariati…di mio padre»: lo considera e lo chiama padre, anche se non considera sé come figlio. Instaura il paragone con i salariati: istintivamente pensa che l’alternativa sia diventare come il fratello maggiore! Ha ancora una falsa immagine del Padre.

«ho peccato»: dalla considerazione della sua miseria il giovane passa al riconoscimento delle sue colpe; non ha infatti una colpa sola, ma parecchie: aver chiesto la divisione dell’eredità; l’essere andato lontano; l’aver dilapidato tutto; il non aver pensato al padre prima di cercare il lavoro umiliante.

«contro il cielo»: modo ebraico di dire, per evitare di pronunciare il nome di Dio, qui particolarmente espressivo per chi, come il figlio minore, si sente indegno di ogni perdono.

«non sono degno di esser chiamato tuo figlio»: un altro peccato si aggiunge al fardello già pesante del figlio minore: essere figlio non è questione di dignità o di merito; è un dato di fatto. Il padre può essere libero nel mettere al mondo il figlio, ma nell’essere figlio non c’è libertà; non si sceglie né di nascere né da chi. Il figlio minore non ha ancora capito che il Padre è amore necessario e gratuito; pensa non avendola meritata, di rinunciare alla sua paternità. Il poveretto ha aggiunto ai suoi anche il peccato del giusto: il rifiuto di Dio come amore gratuito. La conversione non è diventare “degni”, o almeno “migliori” o “passabili”, per meritare la grazia di Dio; la conversione è accettare Dio come un Padre che ama gratuitamente.

«trattami»: attivo imperativo aoristo positivo: ordina di cominciare un’azione nuova.

20 – La scena dell’incontro col padre è travolgente.

«ancora lontano»: fin qui abbiamo parlato dell’ atteggiamento del figlio; suo padre è ben altro, non aspetta al varco l’indegno per rinfacciarli una colpa senza scuse, previene ogni suo atto di pentimento,

«lo vide»: per quanto lontano il Padre lo vede sempre; nessuna oscurità e tenebre può sottrarlo alla sua vista (Sal 139,11s). L’occhio è l’organo del cuore: gli porta l’oggetto del suo desiderio.

Vedere e commuoversi sono anche le due azioni attribuite al samaritano (10,33) e allo stesso Gesù nell’episodio della vedova di Nain (7,13).

«si commosse»: questo sentimento che sconvolge il cuore del padre fornisce la chiave della sua condotta; in quella commozione è narrata tutta la sua passione per l’uomo. Letteralmente «fu colpito alle viscere» (in gr. esplangnìsthe) indica l’aspetto materno della paternità di Dio. È la qualità di quel Dio che è misericordia. In Lc 6,36 Dio ci è presentato come «padre misericordioso », cioè insieme come padre e come madre (Luca usa ” oiktírmōn” che traduce l’ebraico «rahamin», che indica il ventre, l’utero materno che genera). La paternità di Dio per sé viene dopo la sua maternità; per questo siamo generati e amati senza condizioni, da sempre e per sempre accolti. In quanto madre, ci ama visceralmente, ed entra con noi in un rapporto di necessità biologica, dandoci la vita, la casa e il cibo. In quanto padre ci ama liberamente ed entra in rapporto con noi mediante la parola: ci dà un nome e ci fa crescere adulti e responsabili.

Lo sguardo di Dio verso il peccatore è tenero e benevolo come quello dì una madre verso il figlio malato (cfr. Is 49,14-16; Ger 31,20 s; Sal 27,10; Os 11,8; ).

Quale stridente contrasto con l’emozione opposta che prende il primogenito «egli fu preso da collera» (v. 28a)!

«correndo»: è un atteggiamento affatto normale per un orientale.

«si getto al suo collo»: la corsa del padre termina in uno slancio che lo fa letteralmente “cadere addosso ” al figlio. Esaù, il fratello al quale fu rubata la primogenitura, cadde sul collo di Israele, contro ogni sua aspettativa (Gen 33,4). L’incontro dei due fratelli, a lungo divisi e in lotta, è figura dell’incontro dei suoi figli. Anche Giuseppe, venduto come schiavo dai fratelli, si getta sul collo di Israele (Gen 46,29).

«lo baciò»: è il segno del perdono (cfr. 2 Sam 14,33).

21-24 Il padre prende subito l’iniziativa: non permette al figlio di terminare la sua confessione; non dice nulla al figlio, ma quanto sta per dire ai servi parla per lui in modo più

espressivo di ogni altro linguaggio.

«la veste migliore»: lett. il vestito primo, dove s’intende quella veste che è la prima in ordine di tempo e di dignità. È l’immagine e la somiglianza di Dio, gloria e bellezza originale che rivestiva l’uomo.

«rivestitelo… mettetegli»: attivo imperativo aoristo positivo: è il nuovo inizio.

«l’anello»: è il segno dell’autorità (cfr. Gen 41,42; Est 3,10; 8,2 ed anche Gc 2,2)

«sandali»: è un altro segno della recuperata figliolanza, della libertà di figlio; lo schiavo non porta sandali.

«portate»: attivo imperativo presente positivo: ordina di continuare un’azione già iniziata (siamo sempre considerati figli).

Nel dare i primi ordini il padre usa l’imperativo aoristo: si tratta di cominciare azioni nuove, causate dall’inizio di una nuova condizione, quale nessuno (nemmeno il figlio stesso) oserebbe sperare possibile.

Una volta restituito alla sua dignità, il resto viene di conseguenza e diventa normale: perciò il padre usa l’imperativo presente.

«il vitello grasso»: il sacrificio grasso (lett. di grano) immolato, che si “mangia”, “facendo festa” è un’allusione all’eucarestia. Per i commentatori questo vitello di grano è l’Agnello immolato per quell’amore che è prima della fondazione del mondo (Gv 17,24).

«ammazzatelo»: attivo imperativo aoristo: qui è necessario per indicare un’ azione che si compie una volta sola per sempre.

«cominciarono a far festa»: non si dice “fecero festa”, ma “cominciarono”; è l’inizio di ciò che sarà senza fine.

25-32 – «Il figlio maggiore»: il maggiore è Israele, il primogenito di Dio, figura di ogni giusto.

Raggiungiamo ora l’apice della parabola: l’incontro con chi deve essere ancora ritrovato.

«chiamò… domandò»: il giusto non sa nulla della gioia di Dio, anzi gli è sospetta e per questo indaga minuziosamente, interroga un servo per sapere cosa sta accadendo.

«si arrabbiò»: conosciuto l’avvenimento reagisce come davanti ad una minaccia; è venuto meno il fondamento della sua esistenza. Quest’ira è il contrario della compassione del padre. Giona si contristò mortalmente alla prospettiva di un Dio simile (cfr. Giona 4,3.8.9).

«non voleva entrare»: l’ostinazione del giusto è dura, come quella di Giona. Attraverso la porta della misericordia i peccatori passano tutti, ma dei giusti nessuno, perché non lo vogliono.

«il padre uscì a pregarlo»: (lett. «a consolarlo») anche con questo figlio il Padre è colui che si muove per primo. Dio consolò Israele mediante i profeti, fino al Battista che «consolava ed evangelizzava» (3,18), chiamando alla conversione.

«rispose a suo padre»: paziente, quel Padre che non ha ascoltato l’umiliazione penitente del secondogenito, ascolta ora le accuse del primogenito.

«ti servo… non ho trasgredito»: è il servizio dello schiavo (duleo), non l’obbedienza del figlio verso il Padre. Il tempo presento sottolineala condizione permanente scelta da questo figlio che come uno schiavo non si è mai sognato di trasgredire un comando del Padre.

«un capretto»: davvero una richiesta minima davanti al grosso vitello.

«il figlio tuo»: Il primogenito rifiuta di dare il nome di «fratello» al prodigo ma non gli contesta il nome di «figlio» in rapporto al padre. Di colpo, il padre del figlio indegno non gli sembra più neppure suo padre; parla di lui come di un padrone al cui servizio lavora come schiavo: «Ecco, io ti servo da tanti anni [come uno schiavo: duléo» (cfr. v. 29].

Se il secondogenito si augurava di divenire, a casa del padre, un servo ben pagato, il primogenito si considera come uno schiavo verso il quale il padrone non ha alcun debito di riconoscenza.

La comprensione che egli ha del rapporto padre-figlio non è migliore di quella del fratello.

La parabola tace, probabilmente ad arte, l’ulteriore reazione del figlio maggiore che del figlio minore. In una stupenda solitudine rimane il mistero dell’amore del Padre, che il peccatore non era riuscito a prevedere e il “buono” a spiegarsi.

Quell’amore imprevedibile è come una lama di luce che squarcia le tenebre della nostra condizione, la condizione di peccatori bisognosi di misericordia.

In questa prospettiva comprendiamo sempre di più cos’è la nostra eucarestia: rendimento di grazie al Padre per l’amore che ci dona, per il perdono che ci offre, per la Pasqua che vuole celebrare con noi.

Colletta:

O Dio, Padre buono e grande nel perdono,

accogli nell’abbraccio del tuo amore,

tutti i figli che tornano a te con animo pentito;

ricoprili delle splendide vesti di salvezza,

perché possano gustare la tua gioia

nella cena pasquale dell’Agnello.

Egli è Dio…

[1] Colletta:

       O Padre, che per mezzo del tuo Figlio

       operi mirabilmente la nostra redenzione,

       concedi al popolo cristiano di affrettarsi

       con fede viva e generoso impegno

       verso la Pasqua ormai vicina.

       Per il nostro Signore…

[2] Antif. alla Comunione:

            Rallegrati, figlio mio,

            perché tuo fratello era morto ed è tornato in vita,

            era perduto ed è stato ritrovato.

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