Solo l’amore genera buoni frutti
Il Vangelo di questa domenica ci presenta alcuni dei più celebri detti di Gesù nel discorso che, secondo Luca, avviene in un luogo pianeggiante: il cieco che guida un altro cieco, la pagliuzza del fratello opposta alla trave nel proprio occhio, i frutti buoni generati dall’albero buono. Possono essere considerate tre brevi parabole che pongono l’accento sull’umiltà, da conservare contro il rischio, sempre in agguato, di sentirsi migliori degli altri.
Irrompe poi come un macigno la parola «ipocrita», che ci ricorda cosa fosse realmente in grado di urtare Gesù: l’ipocrisia in generale, che sovente Egli si trovava a fronteggiare con i farisei. Il monito di fondo sotteso ai tre detti citati riguarda, senza dubbio, la presunzione di essere buoni, di essere a posto agli occhi di Dio, di essere puri e dunque autorizzati a giudicare e condannare i peccatori. Proprio riferendosi a queste parole di Gesù il magistero della Chiesa afferma che il peccato è da condannare, non il peccatore.
Gesù veniva chiamato e riconosciuto come Rabbi, “maestro”, e nel richiamare l’immagine del cieco che non può guidarne un altro fa intendere che Egli è l’unico ad avere la vista buona, a conoscere il sentiero sicuro di salvezza. Maestro non è solo qualcuno che insegna una materia, bensì colui che ne dà testimonianza con la vita. Non è la correzione fraterna a essere messa in discussione quanto l’atteggiamento altezzoso, a volte dispregiativo, che si rischia di assumere nel condannare le mancanze altrui, prima ancora di aver riconosciuto e superato le proprie. Affinché la correzione fraterna sia efficace, scevra di orgoglio, deve modellarsi su Gesù.
Per correggere le mancanze è fondamentale innanzitutto avere la vista buona, perciò il Signore sottolinea la presenza della trave nel nostro occhio, ben più grande della pagliuzza presente in quello del fratello. In proposito, però, si potrebbe sollevare una questione. La lettura superficiale di questa frase potrebbe suggerire che il nostro peccato è sempre più grave di quello altrui; ma, riflettendo, si può optare per una diversa prospettiva. Una pagliuzza attaccata all’occhio – Gesù parla chiaramente di qualcosa che sta «nel», all’interno dunque – appare enorme, al punto da oscurare la vista, o quanto meno da comprometterne gravemente la funzionalità. Una pagliuzza nell’occhio e una trave in lontananza possono essere percepite della stessa dimensione. Quindi l’appello di Gesù può essere interpretato non tanto in base all’enormità del peccato, quanto sull’urgenza di rimuovere anche la più piccola impurità che ci impedisce una visione corretta. Il monito, allora, è quello di non smettere mai di migliorare se stessi, perché solo facendolo possiamo aiutare gli altri. Solo brillando sempre più della luce di Dio possiamo illuminare l’ombra di chi ci sta accanto. Vuoi cambiare il mondo? Comincia a cambiare te stesso, magari riordinandoti il letto la mattina, suggerisce l’ammiraglio statunitense William Harry McRaven (protagonista dell’operazione militare culminata con la morte del leader di Al-Qâida, Osama bin Laden).
Infine Gesù afferma che l’albero si riconosce dal frutto. Ma è opportuno distinguere tra i frutti e i risultati. Spesso, nella vita, siamo chiamati a centrare degli obiettivi: un profitto a scuola o sul lavoro, uno stipendio appagante, una bella casa, una bella macchina… Questi sono sì dei risultati. I frutti, invece, sono ben altra cosa: un frutto è qualcosa che contiene in sé la fecondità. Nella Bibbia Dio non chiede mai risultati, ma frutti: «Se il seme non muore non porta frutto» (Gv 12,24). I risultati muoiono con noi: sono i nostri trofei, e possono creare divisione, invidia, competizione. I frutti, invece, nascono sempre dalla logica del dono, dunque dall’amore, e non sono fini a stessi: un albero non mangia il proprio frutto. Il frutto crea comunione e viene dato per essere condiviso.
Solo chi ama genera frutto.