L’abate e il manager: lezioni di leadership fra le mura di un monastero
Una gelida serata invernale, una sperduta stradina di campagna imboccata per evitare le code in autostrada, la potentissima auto superaccessoriata all’improvviso in panne, il navigatore e lo smartphone desolatamente muti e, intorno, una fitta nebbia: tutto sembra congiurare contro il rientro in città, quel venerdì sera, di un giovane manager frenetico.
Alla ricerca di un telefono per chiedere aiuto, finisce per bussare al portone di un’antica e isolata abbazia. Accolto da un rustico padre portinaio sottilmente ironico e da un sereno abate dalle perspicaci doti introspettive, il manager si scontra subito con l’essenzialità della vita monastica. A poco a poco, però, il suo spaesamento e la sua impaziente irritazione iniziale si stemperano, finendo per trasformare il pernottamento in un viaggio alla scoperta di una realtà solo in apparenza lontana da quella fuori delle mura dell’abbazia e, soprattutto, in un viaggio dentro se stesso.
A fargli da guida i dialoghi con l’abate e il padre portinaio, e con i loro confratelli (il bibliotecario, lo speziere, l’ortolano), su temi universali come politica, economia e bene comune, ecologia e ambiente, verità e fake news, ruolo delle donne, apertura al mondo. Chi dei due ha più da insegnare all’altro? È il monaco che ha bisogno del manager o il manager del monaco? Nell’irreale silenzio che abita gli antichi spazi del chiostro il manager scoprirà un modo nuovo di essere leader. Quello della sfida del Pope Francis’ Style. Così come l’abito non fa il monaco, infatti, il ruolo non fa il manager.
Abituato a dare lezioni di management e a gestire problemi-eventi-persone, l’ospite imparerà che niente è pericoloso come l’illusione di avere potere sugli altri. Usato come sostantivo, infatti, il potere è un motivetto che si fischia da soli. Diventa una sinfonia solo se inteso come verbo: poter essere, poter fare, poter guidare, poter decidere. E per essere suonata, una sinfonia richiede sia la capacità del direttore d’orchestra di amalgamare le voci di strumenti distinti, sia l’abilità dei singoli, che dovranno dare il meglio di sé, in armonia con tutti.
In “Se ne ride chi abita i cieli”, don Giulio Dellavite affronta, attraverso la lente particolarissima della cultura monastica, tutti i temi cari ai manager di oggi: dal pensare in ottica relazionale alla gestione delle organizzazioni, dai modelli di leadership responsabile alle migliori strategie per vivere il cambiamento. Così facendo, attualizza insegnamenti millenari e suggerisce a chi legge che la vera grandezza sta nel non perdere mai di vista la propria dimensione interiore, spirituale. Soprattutto, la propria umanità.
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Dalla premessa del libro
Tra un manager e un monaco che potere vince? Un braccio di ferro nasce inaspettato nel guaio di una notte che aiuta a vedere cose che la luce del giorno nasconde. E se il punto di vista vincente fosse altro e oltre? Ma allora che potere sarebbe?
Potere. Un concetto verso cui è semplice puntare il dito e da cui è ancora più facile farsi ammaliare, come avviene quotidianamente nella società e nelle società, come pure nelle relazioni e, anche, nella Chiesa.
Che sia un prete, come me, a parlare di potere può suonare stridulo – una nota stonata nella nuova melodia intonata da papa Francesco. Al contempo, però, sembra facile parlare di potere riguardo al Vaticano, gestito per secoli da una «corte», ancora ammiccante sotto il Cupolone, nella quale il nuovo Pontefice sta facendo pulizia e ordine.
Il potere è bello e gustoso, come il frutto proibito del paradiso terrestre. Sfogliando la Bibbia, dalla prima pagina della Genesi fino al Vangelo con Gesù nel deserto, il Tentatore gioca facile quando si tratta di far luccicare scettri, corone, troni, palchi.
Ma attenzione: di che potere parliamo? Di «potere» come sostantivo o di «potere» come verbo? All’apparenza, potrebbe trattarsi solo di una sottile distinzione grammaticale, mentre si tratta di una scommessa insita in ogni ruolo, in ogni tipo di responsabilità.
Un conto è il «potere», altra cosa il «poter fare», «poter crescere», «poter chiedere», «poter donare», «poter stimolare». Meglio avere potere o poter essere?
È, questa, una domanda cardine fra gli uomini contemporanei, laici o religiosi che siano. Così come l’abito non fa il monaco, infatti, il ruolo non fa il manager.
Nelle pagine che seguono ho voluto mettere a confronto questi due universi, all’apparenza così distanti: se un monaco e un manager si incontrassero per qualche scherzo del destino, avrebbero qualcosa da dirsi? Chi dei due avrebbe più da insegnare all’altro? È il monaco che ha bisogno del manager o è il manager che ha bisogno del monaco? Né l’uno né l’altro. Vince il terzo. Chi? È la scommessa dello «scarto», è la sfida di colui che per molti ha più potere al mondo: papa Francesco.
Nell’omelia della sua messa di inizio pontificato, intonò in modo chiaro la melodia che poi, giorno per giorno, nelle parole e nei fatti, abbiamo imparato a riconoscere come la colonna sonora del suo intendere quella forma di altissimo potere che è il papato:
Vorrei chiedere, per favore, a tutti coloro che occupano ruoli di responsabilità in ambito economico, politico o sociale, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà: siamo «custodi» della creazione … custodi dell’altro … Ma per «custodire» dobbiamo anche avere cura di noi stessi! … l’invidia, la superbia sporcano la vita! … Non dobbiamo avere paura della bontà, anzi neanche della tenerezza! … il prendersi cura, il custodire chiede bontà, chiede di essere vissuto con tenerezza … il vero potere è il servizio …
Leader è chi si lascia interpellare per essere manager fuori e monaco dentro. C’è chi confonde potere con «management», ma la realtà insegna che non tutti i manager sono leader e non tutti i leader devono essere necessariamente manager. Il che vale anche per preti, abati, vescovi, cardinali. Papa Francesco ne è la dimostrazione.
«Management» deriva dal verbo inglese to manage, che significa amministrare, gestire, organizzare, dirigere: si gestiscono, amministrano e organizzano attività, beni, eventi.
«Leadership», invece, deriva dal verbo to lead, condurre, guidare, indurre, plasmare: si guidano le persone e si conducono verso un preciso traguardo.
Tutti riconoscono al Santo Padre una grande forza di riforma della Chiesa, ma dove la sta portando? La sta portando alla «gioia del Vangelo», come ha indicato lui stesso:
Evidenziando i criteri-guida, i passi compiuti, ma soprattutto la logica del perché di ogni passo realizzato e di ciò che verrà compiuto mi torna spontaneo alla memoria l’antico adagio che illustra la dinamica degli Esercizi Spirituali nel metodo ignaziano, ossia: deformata reformare, reformata conformare, conformata confirmare e confirmata transformare. Non v’è dubbio che nella curia il significato della ri-forma può essere duplice: anzitutto renderla con-forme alla Buona Novella che deve essere proclamata gioiosamente e coraggiosamente a tutti, specialmente ai poveri, agli ultimi e agli scartati; con-forme ai segni del nostro tempo e a tutto ciò che di buono l’uomo ha raggiunto, per meglio andare incontro alle esigenze degli uomini e delle donne che siamo chiamati a servire … La riforma, per questo, non ha un fine estetico, quasi si voglia rendere più bella la curia; né può essere intesa come una sorta di lifting, di maquillage oppure di trucco per abbellire l’anziano corpo curiale, e nemmeno come un’operazione di chirurgia plastica per togliere le rughe. Cari fratelli, non sono le rughe che nella Chiesa si devono temere, ma le macchie! In questa prospettiva, occorre rilevare che la riforma sarà efficace solo e unicamente se si attua con uomini «rinnovati» e non semplicemente con «nuovi» uomini. Non basta accontentarsi di cambiare il personale, ma occorre portare i membri della curia a rinnovarsi spiritualmente, umanamente e professionalmente. … Senza un mutamento di mentalità lo sforzo funzionale risulterebbe vano. … È un delicato processo che deve essere vissuto con fedeltà all’essenziale, con continuo discernimento, con evangelico coraggio, con attento ascolto, con tenace azione, con positivo silenzio, con ferme decisioni, con tanta preghiera – tanta preghiera! –, con profonda umiltà, con chiara lungimiranza, con concreti passi in avanti e – quando risulta necessario – anche con passi indietro, con determinata volontà, con vivace vitalità, con responsabile potestà, con incondizionata obbedienza; ma in primo luogo con l’abbandonarci alla sicura guida dello Spirito Santo.
Così è nata l’idea di lasciare che l’immaginazione si mettesse a giocare tra gli spazi di un monastero in cui un manager si ritrova per caso. Chissà se lui e il monaco riusciranno a individuare il punto di visuale da dove intravedere come «poter essere», ciascuno nel proprio mondo, leader secondo il Pope Francis’ Style, proprio solo di chi sa che «se ne ride chi abita i cieli».