Il brano del vangelo di oggi si avvicina molto alla teoria della permacultura. Ovvero a quell’idea di lasciare che la natura faccia il suo corso, senza che l’uomo intervenga invasivamente per aumentare la produzione. Al di là della metafora agricola in questa scena un attore c’è ed è Dio stesso che getta il seme. L’azione di Dio è connotata da fiducia e libertà. Il seminatore getta il seme, annuncia la Parola, e lascia fiduciosamente che il terreno incorpori il seme.
Penso sia importante soffermarsi sul seme; sia nei primi versetti sia dopo, l’evangelista ci indica la qualità del seme: “il seme germoglia e cresce” (v. 27); “il seme cresce e diventa più grande di tutte le piante” (v. 32). Il seme ha una garanzia di germinabilità nonostante noi e nonostante le nostre cure, e non solo germoglia, ma ha una capacità di espansione che non dipende da noi, e neanche da quello che potremmo aspettarci, considerando l’aspetto del seme. Dunque Gesù paragona il regno di Dio, non a qualcosa di casuale: c’è un’operazione di agricoltura ben precisa, e ad essa si associa un’affidabilità della scelta del seme che ci deve portare a concentrarci su quello e non tanto su quello che noi dobbiamo fare. Questo non ci deve spingere a esentarci dal continuare l’opera, ma ci deve ricordare che il lavoro da compiere non comincia con noi e non finisce con noi.
Così è la logica del regno di Dio. Dio immette una forza propulsiva, in questo caso corrisponde a un buon seme. Sta a noi riconoscere e intravedere questa bontà, prima di soffocarlo con le nostre aspettative e preoccupazioni: sarà un seme di zizzania? Sarà un seme sterile? Sarà un seme che non esaudisce la mia ricerca di ricchezza? Sarà un seme addirittura che non aiuta a vivere il vangelo? Non sta a noi porci queste domande, ciò che tocca a noi sta è essere terreno che accoglie e dunque collabora alla crescita di ciò che il Signore ha cominciato. Ciò che spetta a noi è soprattutto fidarci che quello che il Signore ci ha dato è un buon seme.
Se si insinua il dubbio e la sfiducia il seme si isterilisce e allora diventa veramente un seme di zizzania e di divisione. Questo atto di fede e fiducia profonda non è senza fatica né senza inoperosità. Il lavoro da compiere è sulla struttura del terreno per renderlo davvero un luogo in cui il seme trova una sostanza in cui possa radicarsi profondamente. Ci è richiesto un lavoro interiore che ci porti a fare spazio e dunque a liberare e a dissodare il nostro cuore dai pensieri infestanti del dubbio e della divisione, e soprattutto dall’idea che il successo del regno di Dio dipenda da noi, in tal caso il regno non sarebbe più di Dio, ma nostro.
Rabbi Tarfon diceva: “Non sta a te compiere l’opera, ma non sei libero di sottrartene”. Il nostro compito è di non dimenticarci mai l’origine dell’opera e dunque di agire secondo questa sorgente di vita.
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Mc 4, 26-34
Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».
Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».
Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.
C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.
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