“La nostra comunità è provvisoria e la sua orizzontalità può significare essere segno durante un anno… senza preoccupazioni di continuità storica”.
Così scrivevo nelle Tracce per una vita comune nell’agosto 1968, in quella stagione che ha segnato l’inizio vita comune monastica a Bose, cinquant’anni fa. Tre anni dopo, la consapevolezza della precarietà della nostra vita assumeva nelle Tracce spirituali la forma di un’esortazione che verrà ripresa alla lettera anche dalla successiva Regola di Bose: “Non preoccuparti di dare continuità storica all’intuizione iniziale. Cerca piuttosto che la comunità sia un segno, veglia sull’autenticità di esso, e non permettere che sia reso opaco dall’istituzionalizzazione massiccia”.
Con questi sentimenti lo scorso novembre abbiamo vissuto una giornata di ringraziamento per i cinquant’anni di vita comunitaria monastica a Bose, non per dare testimonianza a noi stessi, ma per condividere con gli amici di una vita la nostra gratitudine, ponendo al centro l’eucaristia. Un’anamnesi cui con nostra lietissima sorpresa ha voluto unirsi papa Francesco attraverso una lettera a me indirizzata: “mi associo spiritualmente al vostro rendimento di grazie al Signore per questi anni di feconda presenza nella Chiesa e nella società, mediante una peculiare forma di vita comunitaria sorta nel solco degli orientamenti del Concilio Vaticano II”.
Sì, il solco degli orientamenti del Vaticano II è stato il sentiero che ci ha costantemente richiamato alle esigenze del Vangelo “vissuto nella grande tradizione monastica”, per usare ancora le parole di papa Francesco che così continuava: “All’interno di questa corrente di grazia, la vostra Comunità si è distinta nell’impegno per preparare la via dell’unità delle Chiese cristiane, diventando luogo di preghiera, di incontro e di dialogo tra cristiani, in vista della comunione di fede e di amore per la quale Gesù ha pregato. Desidero esprimere il mio apprezzamento specialmente per il ministero dell’ospitalità che vi contraddistingue: l’accoglienza verso tutti senza distinzione, credenti e non credenti; l’ascolto attento di quanti sono alla ricerca di confronto e consolazione; il servizio del discernimento per i giovani in cerca del loro ruolo nella società”.
Nella giornata eucaristica di Bose ho richiamato alla memoria di tutti, con cuore grato, i nomi di tanti uomini e donne – autentici doni di Dio – che ci hanno accompagnato e sostenuto con la loro preghiera e la loro amicizia fedele. Qui vorrei soffermarmi solo su alcuni tra i compagni della “prima ora”, che hanno creduto di discernere in un drappello di giovani un barlume di ricerca autentica della volontà del Signore. Ricordo innanzitutto la guida affettuosa e paterna del cardinale Michele Pellegrino, cui va un ringraziamento particolare per l’inizio non facile – a causa di incomprensioni e censure da parte dell’allora vescovo di Biella – della vita a Bose. Fu il padre Pellegrino a prendersi cura di me ancora solo qui a Bose e in seguito chiese ai vescovi del Piemonte di lasciare a lui la responsabilità di questo esile inizio di vita monastica. Fu lui che nel giugno 1968, appena prima dell’inizio della vita comunitaria, volle trascorrere a Bose una giornata, facendoci il dono di una conferenza sulla “fede di Pietro in sant’Agostino” e confermandoci nel cammino che stavamo per intraprendere.
Ma ricordo anche la grazia dell’amicizia di fr. Roger Schutz, il priore di Taizé, e di fr. Thaddée Matura, che lì accanto animava una piccola presenza francescana; il pastore Paolo Ricca, sempre pronto a spezzare il pane della Parola; l’incoraggiamento ricevuto dal patriarca di Costantinopoli Athenagoras e dall’amato metropolita Emilianos Timiadis, che avrebbe poi raggiunto Bose per trascorrervi l’ultimo decennio della sua vita. E poi il vescovo di Ivrea Luigi Bettazzi, che ci visitava quando nessuno osava venire a Bose; e ancora, sempre per limitarmi a quegli anni embrionali, l’amicizia, lo scambio, le iniziative comuni con don Michele Do, don Cesare Massa, p. David Maria Turoldo e p. Ernesto Balducci.
Nell’ottobre del 1968, ecco arrivare i primi fratelli per “vivere qui una vocazione monastica”: Domenico, giovane di Novara, Daniel, pastore riformato da Neuchâtel, e una donna di Ivrea, Maritè Calloni. Iniziare una vita comunitaria composta da tre uomini e una donna non sembrava prudente, così, nella mia follia giovanile, mi recai presso la comunità riformata di Grandchamp e chiesi a sr. Minke, facente funzione di priora, di consentire che una sorella monaca della sua comunità vivesse a Bose per un anno. Sr. Minke mi fece subito grande fiducia e, dopo una notte di preghiera, inviò a Bose sr. Christianne: iniziò così la vita monastica di tre fratelli e due sorelle, una “banda”, per dirla al modo degli storici medioevali, ma consapevole della chiamata ricevuta. Nessuna esitazione sulla nostra forma monastica, che non è mutata in un nulla di sostanziale in questi cinquant’anni: allora come oggi la preghiera al mattino, a mezzogiorno e al tramonto; la veglia nella notte del sabato; il lavoro; l’accoglienza di tutti.
Tappa decisiva per la comunità è stata l’alba di Pasqua, il 22 aprile 1973, quando i primi fratelli e una sorella, 7 in tutto, hanno emesso la loro professione monastica con i voti di celibato e di vita comune, accogliendo come norma di vita la Regola di Bose, da me scritta e da tutti discussa, accolta e approvata. La comunità si inseriva così anche formalmente nella grande tradizione monastica e subito ricevette i segni di una grande comunione da parte di alcuni monasteri che erano da noi frequentati: Bellefontaine, la-Pierre-qui-Vire, Tamié, En Calcat, St-André de Clerlande, ma anche il monte Athos e il monastero copto di San Macario in Egitto…
Riguardando oggi anche solo quei cinque anni iniziali, il ringraziamento sale al Signore per due doni che – attraverso e oltre le persone nominate – contraddistinguono la nostra comunità, doni gratuiti che il Signore ci ha fatto e per i quali noi abbiamo dovuto solo apprestare le nostre vite, per accoglierli. Innanzitutto il grande dono di aver fatto di Bose un luogo ecumenico: per la composizione della comunità, certo, ma anche per ciò che abbiamo avuto la grazia di vivere in dialogo, in confronto, in ascolto, in solidarietà con le chiese cristiane d’oriente e d’occidente, così da fare di Bose un luogo di incontro e di scambio dei doni tra cristiani di ogni confessione: cattolici, ortodossi, anglicani, riformati e luterani, copti e armeni…
L’altro grande dono che il Signore ci ha fatto è la vita di fratelli e sorelle insieme. Dopo cinquant’anni, confessiamo che è una vita non solo possibile ma feconda e ricca di doni, che condividiamo nel quotidiano della preghiera e del lavoro, del poter dire “quanto è bello vivere insieme come fratelli e sorelle” (cf. Sal 133,1). In quest’ottica si pone anche l’iniziativa della condivisione di vita intrapresa da alcune nostre sorelle con le monache benedettine a Civitella S. Paolo, vero segno profetico dell’unità del monachesimo e della solidarietà nella vocazione: autentica grazia in una stagione in cui si fa più che mai urgente che le tradizioni monastiche si aiutino e si integrino, anche per non arrendersi alla precarietà di quest’ora per la vita monastica.
Non mi resta allora che riprendere il testo della Regola di Bose citato all’inizio, ricordarne la conclusione – “Non pensare alla tua vecchiaia né al domani della comunità. Vivi l’oggi di Dio. Una sola cosa sia la tua preoccupazione: cercare il regno di Dio vivendo l’Evangelo nella comunità cui sei stato chiamato” (RBo 48) – e custodirla assieme all’esortazione rivoltaci da papa Francesco: “Di fronte alle sfide contemporanee, vi incoraggio ad essere sempre più testimoni di amore evangelico anzitutto fra di voi, vivendo l’autentica comunione fraterna che rappresenta il segno, dinanzi alla Chiesa e alla società, della vita alla quale siete chiamati. Gli anziani della comunità incoraggino i giovani e i giovani si facciano carico degli anziani, tesoro prezioso di sapienza e di perseveranza. Potrete così vivere con grandezza di cuore anche con gli altri, specialmente con i più poveri di speranza. Continuate ad essere attenti ai piccoli, agli ultimi, ai pellegrini e stranieri: essi sono le membra più fragili del corpo di Gesù. […] Questa data anniversaria sia un momento di grazia per ognuno di voi, un tempo per meditare più intensamente sulla vostra chiamata e sulla vostra missione, affidandovi allo Spirito Santo per avere saldezza e coraggio nel proseguire con fiducia il cammino. Vi accompagno con la preghiera perché possiate perseverare nell’intuizione iniziale: la sobrietà della vostra vita sia testimonianza luminosa della radicalità evangelica; la vita fraterna nella carità sia un segno che siete una casa di comunione dove tutti possono essere accolti come Cristo in persona”.