don Dario Vivian – Imparare dai giovani

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Non è mia intenzione affrontare la questione giovanile, nella sua complessità, anche perché altri autori l’hanno fatto egregiamente. Il cammino verso il sinodo dei vescovi sui giovani ha ancor più incrementato e motivato le ricerche socio-religiose e le varie ipotesi interpretative della realtà giovanile odierna. Io mi limito ad alcune provocazioni, che possono venire alla chiesa da un ascolto libero e attento di ciascun giovane e  dei giovani presi nell’insieme delle loro esperienze, da una parte differenti e non omologabili, dall’altra con alcuni denominatori comuni. Sono provocazioni che interrogano la chiesa, più che i giovani. Ci si accorge sempre più, del resto, che prendere sul serio il vissuto dei giovani significa rivedere la credibilità del mondo adulto. Nel nostro caso, la significatività di una chiesa chiamata a rimettersi alla scuola del vangelo, imparando anche dai giovani.

Imparare?

A premessa di tutto, mi permetto di porre un punto di domanda sul verbo usato nel titolo. Siamo sicuri che vogliamo imparare? Non si tratta solo di verificare l’atteggiamento profondo, con il quale ci si pone in ascolto dei giovani. Come succede anche in altri ambiti e con altre persone, troppo spesso diciamo di ascoltare e invece lasciamo parlare, nella convinzione di avere già le idee giuste e quindi di non dover sostanzialmente nulla ai nostri interlocutori. Quando addirittura non c’è il retropensiero di catturare in qualche modo l’interlocutore, tirandolo dalla nostra parte. I giovani hanno un sesto senso  per accorgersene, oltre al fatto che – ci ricorda spesso papa Francesco – il vangelo di Gesù Cristo non tollera il proselitismo. Nel caso della chiesa, c’è di più. La questione è di recepire fino in fondo il cambiamento avvenuto con l’impostazione conciliare, naturalmente ritenendola azione dello Spirito non ancora compiuta e non, come vorrebbe qualcuno, riforma da riformare con ritorni all’indietro. Chi ha qualche anno sulle spalle e può riferirsi a quanto veniva detto a proposito dell’istituzione ecclesiastica, ricorderà la distinzione netta tra chiesa docente e chiesa discente, che metteva sulla cattedra ad insegnare la gerarchia e i ministri ordinati, mentre sui banchi ad imparare ci stava la maggioranza del popolo di Dio nella componente laicale. In quest’ottica, che non sempre sembra superata soprattutto a livello di prassi, non ha senso dire che la chiesa deve imparare dai giovani. Dovrà loro insegnare, piuttosto. Il fatto che siano giovani giustifica maggiormente questo atteggiamento, sia quando lo si assuma con modalità cattedratiche (io so le cose, tu che sei giovane no), sia che lo si declini con atteggiamenti paternalistici (lo so io che cos’è il tuo bene, tu no, ci penso io per te). Eppure, già in riferimento a Timoteo, viene ricordato nella parola di Dio: “Nessuno disprezzi la tua giovane età” (1Tm 4,12). La disponibilità ad imparare comporta un cambio di prospettiva, come appare da un passaggio assai significativo della Gaudium et spes, là dove si afferma che “la chiesa non ignora quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dall’evoluzione del genere umano” (GS 44). Si delinea così il volto di una chiesa discente, anche nella sua componente gerarchica, che si pone in ascolto di quanti la possono aiutare a comprendere ed esprimere meglio l’annuncio di fede. Il testo di Gaudium et spes specifica che può trattarsi di credenti o non credenti, come aveva ben capito ad esempio il cardinale Martini, istituendo la “cattedra dei non credenti”: loro in cattedra, lui seduto sul banco ad apprendere e confrontarsi. Riferire questo alla realtà giovanile significa aprirsi ad una condivisione e un ascolto di tutti i giovani, non solo quelli che bazzicano i nostri ambienti, ritenendo che si può imparare da chi non crede e anche da chi è critico o contrario alla chiesa: “La chiesa confessa che molto giovamento le è venuto e le può venire perfino dall’opposizione di quanti la avversano o la perseguitano” (GS 44). In questo stesso numero della costituzione conciliare si afferma che è dovere di tutta la chiesa “ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari linguaggi del nostro tempo”, perché “la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venire presentata in forma più adatta” (GS 44). Il rimando ai linguaggi del nostro tempo è quanto mai pertinente alla realtà giovanile, dalla quale imparare. Sempre più ci accorgiamo di non riuscire a comunicare con un mondo, quello dei giovani, distante anni luce dai nostri discorsi e soprattutto dal linguaggio che usiamo nell’ambito ecclesiale. Certo, la fede ha bisogno di un suo linguaggio per dirsi, al quale i credenti vanno iniziati. Ma se il Verbo si è fatto carne, non è mai definitivamente compiuto il processo, che vede il vangelo risuonare nella lingua di chi ne sente l’annuncio: “Come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa?” (At 2,8). La necessità di imparare dai giovani ci rimanda in questo senso all’indicazione, che la chiesa italiana si era data già al convegno di Verona, poi confluita negli orientamenti pastorali “Educare alla vita buona del vangelo”. L’indicazione, assai preziosa, viene  sintetizzata in una sorta di slogan (che tuttavia non deve rimanere tale): la vita quotidiana è l’alfabeto per dire il vangelo. Da ciò ne deriva che il vangelo rimane impronunciabile, se non si ascoltano e si fanno proprie le parole, con le quali i giovani esprimono i loro vissuti. Il vangelo è Gesù Cristo e la chiesa lo riceve come dono da condividere. Ma le parole per dire Gesù Cristo nell’esistenza dei giovani d’oggi le dobbiamo imparare dai giovani stessi, sono loro che le donano alla chiesa. Altrimenti ci si illude di comunicare l’evangelo, mentre sostanzialmente lo si lascia muto, mancando dell’alfabeto che può renderlo vivo e attuale.

Piccoli atei crescono

Prendo a prestito il titolo di un’indagine del sociologo Garelli, non per presentare il suo lavoro, ma per porre un interrogativo nodale in questo apprendimento dai giovani, che la chiesa è invitata a fare. Si è ricordato che Martini, ritenendo che anche i non credenti potessero dire qualcosa alla fede della chiesa, li ha messi in cattedra, facendosi discente nei loro confronti. Con ironica sufficienza, un suo confratello cardinale commentò: chiedere ai non credenti di dire qualcosa alla nostra fede è come chiedere ad un sordo di parlare di musica. Imparare dai giovani, in particolare per riuscire ad annunciare in modo più significativo il vangelo di Gesù? Ma se abbiamo di fronte piccoli atei che crescono, la prima generazione incredula, che segna il passaggio dalla “dimenticanza” (l’abbandono della tradizione religiosa) alla “ignoranza” (la non conoscenza di questa tradizione e quindi l’estraneità)! In questi anni le ricerche sociologiche sul mondo giovanile si sono interrogate sulla questione religiosa, con interpretazioni dei dati riconducibile sostanzialmente a due prospettive. C’è chi ha sottolineato con forza la presa di distanza dei giovani non solo dalla pratica religiosa, ma dal mondo di significati che viene offerto dalla fede cristiana. Si è come interrotta la cinghia di trasmissione tra generazioni e pertanto non solo i giovani si trovano a non avere più antenne per percepire ciò che riguarda Dio, la fede, la chiesa, ma quando devono decidere di se stessi il riferimento al vangelo è quasi assente (al di là dei passaggi sacramentali richiesti dalle famiglie e dell’insegnamento religioso a scuola ancora preponderante). C’è del vero, inutile nasconderlo. Ma una lettura diversa, che poggia soprattutto su ricerche di tipo qualitativo con interviste personali ai giovani, ritiene invece che ancora “c’è campo” per la questione religiosa. Nella terra di mezzo tra credere e non credere, si manifesta una ricerca spirituale interessante, che avviene fuori del recinto. Anche al di là del contesto italiano, alcune inchieste confermerebbero questa ricerca di senso in chiave spirituale, che non si trova a proprio agio negli ambiti istituzionali e quindi si smarca da essi. L’istituzione, con il suo sistema dottrinale e morale, i linguaggi lontani dagli universi simbolici propri dei mondi giovanili, un apparato visto come rigido, sfarzoso, incoerente con il vangelo, non riesce ad intercettare e dare espressione a quanto invece i giovani nel profondo manifestano, anche se con modalità fluide. C’è da imparare da tutto questo? Penso di sì. La chiesa in uscita di papa Francesco non è forse invito ad andare fuori dal recinto, in modo che l’istituzione ecclesiastica non sia autocentrata? Nella preghiera che ci ha consegnato Gesù non chiediamo che venga la chiesa, ma il regno di Dio, di cui la chiesa è sacramento e che va oltre la chiesa stessa. Possiamo imparare dai giovani ad allargare lo sguardo e a relativizzare quell’apparato istituzionale, che appesantisce la leggerezza del vangelo e ne appanna la gratuità. Certo, la sequela di Gesù è custodita e proposta dalla chiesa, perché c’è un “noi” della fede imprescindibile. Ma a starci a cuore non dovrebbe essere primariamente di riportare i giovani in parrocchia, semmai che le loro esistenze si aprano  all’incontro con la buona notizia di Gesù Cristo, acqua viva per la sete di ciascuno. In quest’ottica, ci si potrebbe chiedere se la chiesa non debba imparare dai giovani ad essere davvero luogo di condivisione di ricerca e di esperienza spirituale, al di là di tutte le proposte di “animazione” che vengono fatte. Veniamo da stagioni nelle quali le comunità parrocchiali hanno offerto ai giovani anzitutto momenti e spazi per l’aggregazione, il gioco, l’amicizia, la convivialità. Il “gruppo giovani”, si è detto e si continua a dire spesso, non è catechismo, meglio coinvolgerli in cose che non siano troppo “religiose”. Non che le proposte di animazione siano negative, tuttavia ci deve interrogare il fatto che a livello giovanile (e non solo, a dire il vero) si sia dissociato sempre più l’appartenere all’istituzione chiesa e il vivere un’esperienza di ricerca spirituale, che infatti molte volte trova altre strade. Si approda pertanto ad una sorta di paradosso: da piccoli atei che crescono, la chiesa è invitata a reimparare ad essere condivisione di esperienze affidate ai liberi sentieri dello Spirito, accompagnando e sostenendo i passi di ciascuno, senza catture funzionali all’apparato istituzionale. Una suggestione evangelica significativa al riguardo è quella indicata dalle parole di Gesù: “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo” (Gv 10,9). Porta come soglia, che rimane aperta all’andare e venire in quella libertà, a cui i giovani tengono tanto anche se a rischio di incostanza, frammentarietà, spesso indecisione. La chiesa potrebbe imparare da questi giovani collocati nella “terra di mezzo” ad essere soglia, anche nel suo volto parrocchiale. Oggi si discute, a livello pastorale, sul modello di parrocchia attuato finora, quello tridentino. Una parrocchia “solida”, con un territorio ben circoscritto nei suoi confini, un parroco residente, chiesa, canonica, opere parrocchiali, messe e proposte religiose a orario fisso, standardizzato. Difficile che un’istituzione così strutturata (che comunque è in crisi nell’attuale contesto profondamente cambiato) possa intercettare la ricerca spirituale espressa nel nomadismo attuale, dei giovani ma non solo. Qualcuno ha cominciato a parlare di parrocchie “liquide”, che non hanno come primo riferimento i confini geografici, ma i cammini delle persone, le loro esigenze, i ritmi e i tempi della vita nella complessità e nella mobilità odierna. A livello giovanile, si percepisce sempre più che la strutturazione rigida di certa pastorale parrocchiale non regge alla prova dei fatti.

Appartenenze molteplici

Come chiedere di coinvolgersi in modo costante nella vita della comunità cristiana, a giovani che vivono appartenenze molteplici, si muovono da un ambiente all’altro assumendo di volta in volta identità plurime, sono a loro agio nella frammentarietà delle esperienze? Immaginandoli seduti (qualcuno direbbe anzi sdraiati, secondo il titolo di un fortunato libro divenuto anche un film) sul divano, li vediamo  continuamente fare zapping da un programma all’altro, senza un apparente filo conduttore. Naturalmente non sullo schermo televisivo, ma sul loro smartphone. Noi solitamente diamo a tutto questo un giudizio negativo, ritenendo che ci sia incoerenza e camaleontismo. Per i giovani non è così, per loro si tratta dell’acqua nella quale nuotano, senza percepire le incongruenze ritenute tali dal mondo adulto. Siamo noi che abbiamo nostalgia di ciò che unifica, del senso compiuto, della coerenza e della stabilità, non certo un giovane immerso nelle modalità di esprimersi tipiche del suo tempo. Significa forse che va bene così e basta? No, perché anche i giovani d’oggi sono chiamati a delineare una loro identità, a fare delle scelte, a costruire nel tempo qualcosa che tiene e non sia effimero. Pensiamo al mondo degli affetti, alle relazioni che richiedono cura, ad una progettualità che non può emergere dove c’è eterna precarietà. I rischi, pertanto, ci sono insieme alle derive. Il mondo adulto, anche in ambito ecclesiale, non può abdicare all’impegno educativo. Oggi, a meno che non si tratti dei propri figli, la tentazione dell’adulto è di girarsi dall’altra parte pur di non intervenire nei confronti di un giovane, in una latitanza che è di fatto diseducativa. Tuttavia ogni processo educativo non è mai a senso unico, pertanto chi educa si dispone ad essere educato, chi ha qualcosa da insegnare ha sempre e comunque da imparare. E dunque, che c’è da imparare, come chiesa, da giovani con la caratteristiche ricordate? Una frase di Paolo mi pare illuminante:

“Mi sono fatto tutto a tutti, per salvare a ogni costo qualcuno” (1Cor 9,22). L’apostolo non sta confessando di essere stato una banderuola, che cambia direzione ad ogni soffio di vento, né si può dire di lui che sia stato tiepido e incoerente nel suo annuncio del vangelo. Ma, appunto perché dichiara: “tutto io faccio per il vangelo” (1Cor 9,23), non teme di mettersi in gioco a partire dalla differenti situazioni in cui si trova e con le persone e le comunità che di volta in volta ha di fronte. Siamo sicuri che una chiesa monolitica, dal profilo identitario chiaro e distinto, che dispensa certezze, sappia comunicare il vangelo in modo efficace aiutando chi ascolta ad accoglierlo? E se invece la buona notizia di Gesù Cristo chiedesse proprio di stare su confini aperti e non chiaramente definiti, di accettare il meticciato di culture, di idee, di persone, proponendo non dottrine entro cui chiudere la ricerca bensì orizzonti verso i quali aprirsi alla verità tutta intera? Qualcuno è preoccupato che in questo modo si vada verso un’estenuazione dell’esperienza cristiana e che la chiesa rinunci a proporre decisamente ciò di cui è custode. Paolo però ci ricorda che in ballo non è primariamente una coerenza mantenuta costi quel che costi, ma che qualcuno arrivi ad aprirsi al dono di salvezza. Nel vangelo, del resto, si racconta di un giovane che aveva fatto dell’osservanza il criterio delle sue azioni: “Tutte queste cose le ho osservate”; ma lui stesso si sente di aggiungere: “Che altro mi manca?” (Mt 19,20). Evidentemente non basta stare dentro i confini giusti, se questo non apre allo sguardo d’amore che salva: “Gesù fissò lo sguardo su di lui e lo amò” (Mc 10,21). Molto meglio sconfinare, addirittura lasciare la casa del padre, per poi sentirsi abbracciati e riconciliati. C’è pertanto da imparare, dalla fluidità giovanile, che può aiutare la chiesa a rischiare di più nell’amore, a non aver paura di contaminarsi immersa nella molteplicità e nella pluralità, a raggiungere i giovani là dove sono di volta in volta. Il pane del vangelo, ha detto un giorno una donna straniera dalla quale Gesù ha imparato, può prendere la forma delle briciole che cadono dalla tavola. E se qualcuno assapora anche solo una briciola, non si sentirà più cagnolino, ma figlio. Sempre a proposito di pane, dopo averlo moltiplicato, Gesù avverte di raccogliere i pezzi avanzati. Nella versione latina l’invito è a colligere fagmenta, perché oltre alle briciole anche i frammenti non vanno dispersi e possono ridonare il gusto di un pane che sfama. E se dalla frammentazione delle esperienze giovanili la chiesa imparasse a mettere in pratica quello che il vangelo chiede, cioè di curvarsi su ogni frammento, affinché nulla vada perduto?

Gettare le reti più al largo

I giovani sono sempre connessi, il loro mondo è la rete, non possono stare a lungo senza messaggiare, twittare, smanettare sullo smartphon, sul pc o sul tablet. Una dimensione virtuale della vita e delle relazioni, che a noi adulti sembra sostitutiva di quella reale. Anche in questo caso prevale una nota preoccupata, che non è senza motivo. Inutile fare l’elenco dei rischi che si corrono, delle dipendenze che si creano, delle sfasature che avvengono. Ragazzi e giovani, che pure si muovono con naturalezza dentro queste realtà, finiscono talvolta per non accorgersi di quanto siano fragili e manipolabili, soprattutto se lasciati a se stessi. La sfida tuttavia è di guardare a questa caratteristica del mondo giovanile in chiave  anche positiva, sentendo che c’è da imparare da loro. Banalmente, potremmo dire che noi adulti abbiamo bisogno di imparare in quanto non siamo nativi digitali e quindi i giovani hanno da insegnarci, se non altro a usare i mezzi tecnologici ed essere un po’ meno imbranati nella comunicazione in rete. Penso peraltro che, come adulti e come chiesa, da loro possiamo apprendere non solo l’uso, ma anche la provocazione che ci viene per scoprire la positività di stare in rete. Si tratta infatti non solo di adoperare degli strumenti, ma di entrare in una forma mentis, che allarga le prospettive e apre a relazioni tendenzialmente universali (con linguaggio ecclesiale diremmo “cattoliche”). Probabilmente rischio di strumentalizzare un po’ il vangelo, ma mi affascina leggere entro questo quadro l’invito di Gesù a Simone deluso per la nottata di pesca infruttuosa: “Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca” (Lc 5,4). Una traduzione più precisa del testo sarebbe: Conduci fuori verso il profondo. Espressione interessante, che mette insieme il “largo” da prendere e il “profondo” verso il quale andare. Forse largo e profondo si corrispondono? Di solito noi diciamo che i giovani sono superficiali, non approfondiscono le relazioni, vivono in esteriorità. La parola di Gesù potrebbe darci una chiave diversa per leggere le modalità, con le quali si connettono in una rete tendenzialmente portata ad allargarsi sempre più. In certo senso per loro la profondità viene vissuta nella logica dell’estensione. Non si collocano in una verticalità dove c’è la superficie e la profondità, ma in un’orizzontalità dentro la quale ci si gioca sull’allargare la rete, in modo inclusivo e senza filtri preconcetti, che escludono. Sempre riferendoci a suggestioni evangeliche, possiamo dire che dai giovani la chiesa può imparare a farsi testimone della rete del regno di Dio, inclusiva di tutto e di tutti: “Il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci” (Mt 13,47). Verrà il tempo di fare la cernita tra quelli buoni e quelli cattivi, ma il primo annuncio della parabola in bocca a Gesù è proprio quello di non operare discriminazioni previe. Similmente al seminatore, che esce a seminare e il seme lo sparge su ogni tipo di terreno. Dobbiamo riconoscere ai giovani, pur dentro chiusure e particolarismi a rischio di razzismo spesso indotti in loro da adulti e formazioni politiche che li strumentalizzano, una libertà di approccio con le differenze di qualsiasi tipo. Papa Francesco, con il suo “Chi sono io per giudicare?”, li ha interpretati alla perfezione. Eppure si tratta di un papa che ha come parola d’ordine il discernimento, quindi l’accogliere senza giudizi e pregiudizi non è qualunquismo. Non lo è nemmeno nei giovani, a ben guardare, sempre che il nostro occhio sia ben disposto e non abbiamo indossato le lenti del moralismo. Imparare dai giovani a fare rete, a stare in rete, ad allargare la rete, può essere una provocazione forte alla dinamica missionaria costitutiva della comunità cristiana: “La chiesa è per sua natura missionaria” (AG 2). Ritengo che accogliere la sfida della rete può diventare anche una spinta a rivedere un certo modello di ricerca vocazionale, che pensa di aiutare i giovani nella scelta chiedendo loro di “guardarsi dentro”. Le vocazioni bibliche ci mostrano invece che Dio chiama invitando a “guardare fuori”, facendosi stanare dai propri intimismi e mettendosi in rete con il grido della storia, il volto degli altri, i bisogni della comunità. Con questo dire non voglio dire che il Signore chiama … mandando un tweet, ma certo è necessario essere connessi con le persone e la realtà più ampia per sentirsi interpellati.

Venite alla festa

Altro tratto della realtà giovanile è il desiderio e la capacità di fare festa, nonostante tutto. Non voglio minimizzare i problemi, che portano troppi giovani a chiudersi, a mancare di speranza, a non gustare più la vita fino ad arrivare a togliersela. Tuttavia basta stare un po’ con i giovani e ci si accorge che amano tutto quanto rende l’esistenza più bella e gioiosa: dal gioco alla danza, dallo sport alla musica, dalla chiacchiera tra amici al raduno di massa. Non per niente, ad esempio, chiedono liturgie meno noiose e ambienti di chiesa più attraenti e festosi. Potrebbero far propria la denuncia più volte citata di Nietzsche ai cristiani, ai quali rimprovera di non avere scritta in faccia la buona notizia del vangelo: “Se la vostra fede vi rende beati, datevi da conoscere come beati!”. La chiesa, in realtà, dovrebbe essere specialista della festa. E’ nata dalla pasqua, la morte vinta dall’amore, che sfocia nella risurrezione. Viene convocata ogni domenica, giorno del Signore risorto, il giorno ottavo, che già fa pregustare il banchetto escatologico definitivo, dove “non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno” (Ap 21,4). Eppure ci troviamo a vivere l’esperienza cristiana in comunità invecchiate nell’età e nello spirito, ripiegate su se stesse, impaurite da come va il mondo pur amato da Dio e talvolta più respingenti che accoglienti. Abbiamo davvero bisogno di imparare la festa da  chi è giovane, non per cadere in giovanilismi ridicoli e controproducenti, ma recuperando attraverso i giovani l’evangelii gaudium consegnatosi da un vescovo di Roma, che a ottant’anni chiede alla chiesa di mettersi alla loro scuola. Certo, non siamo tutti come papa Francesco e il peso degli anni spesso rende problematica l’apertura alla vita, che rende belli i giorni. Ma allora ancor più dobbiamo fare tesoro della grazia, che è costituita dalla giovane età e che attraverso i giovani può essere riversata su tutti. Talvolta invece smorziamo i sogni, freniamo gli entusiasmi, irreggimentiamo entro confini stabiliti espressioni che andrebbero invece valorizzate. Sempre Francesco, una volta è arrivato a dire che i giovani nella chiesa devono necessariamente “fare casino”. Termine improprio per un papa, ma espressivo del senso di festa, che possiamo imparare da chi ha la grazia di essere giovane e di aiutare così anche la comunità adulta e anziana a gustare la giovinezza del vangelo. Un grande capitolo di questa propensione a fare festa riguarda anche il corpo, la sessualità, l’affettività: tutto quello che ci è stato donato fin dalla creazione proprio per esprimere bellezza e bontà, in modo che siano gioiose le relazioni e si possa godere di esse. Sappiamo quanta lontananza ci sia, ma a dire il vero non solo nei giovani, tra le classiche indicazioni della morale sessuale e come concretamente si vive corporeità e sessualità. Anche in questa caso, problemi ci sono ed è inutile nasconderli. Una sessuologa belga, T. Hargot, ha significativamente intitolato una sua ricerca su questi temi: Una gioventù sessualmente liberata (o quasi). Tuttavia penso che le modalità con le quali i giovani vivono il loro corpo, sperimentano la sessualità, gestiscono l’affettività, possono e debbono essere per la chiesa terreno di un ascolto che impara, per riuscire a trovare parole per annunciare in modo gioioso e liberante l’Amoris laetitia.

A cura di don Dario Vivian, Teologo e parroco (VI)

Fonte: Rivista Vocazioni N.6PDF