Commento al Vangelo della Santa Domenica a cura di Giulio Michelini
L’ultima scena dei racconti delle origini secondo Luca è come un ponte con quanto l’evangelista racconterà subito dopo, ovvero l’inizio del ministero pubblico di Gesù. Questi non è più un infante, e ora, con quanto ci accingiamo a rileggere, è in una situazione di passaggio per poter poi essere presentato, adulto, al Giordano, per il suo battesimo (Luca 3,21-22).
Anche per il fatto che questa pagina sta come a sé, al punto che si potrebbe estrarre dal vangelo – come è stato scritto – senza che esso ne risenta, alcuni esegeti si sono posti in modo critico di fronte alla sua storicità. Essi ritengono, per esempio, non plausibile che «genitori che si accingono a un lungo viaggio di ritorno a casa, dimentichino il loro unico figlio e soltanto dopo dodici o ventiquattro ore si accorgano della sua assenza!» (Rossé). Senza voler cercare a tutti i costi prove storicizzanti e che diano – cosa che non serve, per la nostra lettura – veridicità al racconto, dobbiamo però ammettere che in questo episodio sono contenuti due elementi che lasciano pensare: quelli riguardanti la festa di Pasqua e l’occasione speciale per cui il fanciullo Gesù viene portato a Gerusalemme. Certo, l’evangelista Luca vuole fare arrivare Gesù, non più infante, di nuovo nella città santa, ma non è detto che alcuni dettagli ritenuti non plausibili debbano necessariamente essere considerati elaborazioni teologiche o sviste lucane (come si è visto appunto per la questione della «loro purificazione» di Gesù e della madre, al capitolo ottavo).
Luca, comunque, sembra sottolineare alcuni elementi per entrare idealmente in dialogo con i suoi lettori etnico-cristiani, provenienti dalla Grecia, e presentare la figura di Gesù in modo concorrenziale a quella degli imperatori, considerati dai Romani come divinità. Lo storico Svetonio registra che l’imperatore Augusto già all’età di 12 anni tenne l’orazione funebre per la nonna, mentre già dall’età di 9 aveva capacità oratorie che attraevano lo stupore degli anziani. Ovviamente, è «impossibile dire se Luca abbia letto Virgilio, Orazio, o le fonti note a Svetonio o ad altri. Ma è certo che sia lui, sia i suoi lettori conoscevano Cesare Augusto, e probabilmente alcune delle notizie storiche che lo riguardavano, come anche leggende che circolavano su di lui» (Billings). Il lettore proveniente dal mondo greco, dunque, poteva trovare nel racconto di Gesù al Tempio qualcosa che suonava a lui familiare. Ma questa storia è soprattutto comprensibile a partire dalle tradizioni della religione giudaica.
Nel calendario giudaico erano tre le feste di pellegrinaggio (quella di Pasqua, delle Settimane o Pentecoste, e delle Capanne) previste nella Legge, secondo quanto scritto nel libro del Deuteronomio, al capitolo 16, dove è richiesto che ogni anno gli ebrei maschi, in rappresentanza di tutto Israele, salissero a Gerusalemme «per farsi vedere dal Signore» (Deuteronomio 16,16). La festa di Pasqua (e degli azzimi) durava un’intera settimana (cfr. Esodo 12,15; Levitico 23,8), e ai pellegrini si domandava di fermarsi a Gerusalemme per almeno due giorni. Durante quella festa le famiglie avrebbero fatto sgozzare l’agnello nel recinto del Tempio (Levitico 23,6), che poi si sarebbe mangiato con il pane azzimo (Esodo 12,8) durante un pasto in un gruppo di almeno dieci persone, consumando l’intero animale.
Non ci sono dubbi sul fatto che Gesù e la sua famiglia fossero ebrei laici, e Gesù stesso «non poteva essere sacerdote, perché non era di discendenza sacerdotale né levitica […] ed è divenuto sacerdote soltanto con la sua morte sacrificale sulla Croce» (De Rosa), ma la famiglia in cui è cresciuto doveva essere davvero osservante, se Luca specifica che «ogni anno» si recava a Gerusalemme per Pasqua. Tra l’altro, non c’era alcun obbligo effettivo per le donne e i minori a prendere parte alla festa, secondo quanto si legge nella Mishnah (Hagiga 1,1); allora, «il fatto che Luca parli sia di Maria sia di Gesù che accompagnano Giuseppe a Gerusalemme fa parte di quell’amore per il Tempio che pervade i racconti dell’infanzia di Luca» (Fitzmyer). Un amore che doveva essere oggetto di educazione; infatti nelle fonti antiche leggiamo che le scuole rabbiniche di Hillel e Shammai, quasi contemporanee della generazione di Gesù, ritenevano che i bambini dovessero essere abituati sin da piccoli a celebrare la Pasqua a Gerusalemme.
Ma in quella festa di Pasqua accade qualcosa di particolare. Nel più recente commentario in lingua italiana al vangelo di Luca, leggiamo che vedere in questo episodio il bar mitzvah di Gesù, «ossia la cerimonia con la quale il ragazzo di tredici anni entra a far parte della comunità degli adulti, appare perlomeno azzardato: le testimonianze sono molto tarde, e tale riferimento quadra poco col contesto» (Crimella). In un altro commento a Luca è scritto che «l’autore non sembra aver in mente i principi pedagogici del tardo giudaismo (Talmud) concernenti il bar mitsvah, “il figlio del precetto”: tra i 12 e 13 anni, il ragazzo diventava uomo ed era tenuto all’osservanza dei comandamenti più difficili della Legge (uso conosciuto nel rabbinismo posteriore)» (Rossé). Questo rito di passaggio effettivamente acquisterà la sua importanza solo col giudaismo medievale (e il termine che lo definisce farà la sua comparsa solo nel XV secolo), quando è attestato che il ragazzo chiamato a diventare adulto e «figlio dei precetti» potrà per la prima volta indossare i tefillim (filatteri) per la preghiera (di cui si legge anche in Matteo 23,5), ed essere chiamato (aliyah) su un podio (bimah), davanti a tutti, per leggere una porzione di Torà.
Noi invece preferiamo l’ipotesi di Manns e di Bartolini, secondo i quali al Tempio, all’età di dodici anni, Gesù potrebbe avere compiuto il suo bar mitzvah. Non solo, infatti, ci sono testi giudaici nei quali si legge che un bambino poteva essere considerato adulto all’età di dodici anni (Talmud babilonese, Berakot 24a; Sifre Numeri 22), contro la maggioranza di testi che stabilisce l’età a tredici, ma è anche il contesto in cui è narrato l’episodio che sembra agevolare questa interpretazione. Come a riguardo della liturgia sinagogale descritta da Luca nel capitolo 4 del suo vangelo, che di fatto è la più antica testimonianza di come venisse celebrata una liturgia in giorno di sabato (Luca 4,16-30), e ciò viene riconosciuto ora dagli storici ebrei, è possibile che anche questa pagina di Gesù dodicenne sia una delle più antiche attestazioni di un tale rito di passaggio.
Questa lettura della pagina di Gesù a Gerusalemme ci permette così di valorizzare un risultato importante che gli esegeti e gli storici della cosiddetta «terza ricerca» sul Gesù storico non si stancano di segnalare: Gesù era un ebreo, e – detto con le parole di un sussidio vaticano per la corretta rappresentazione dell’ebraismo – non solo: «Gesù è ebreo e lo è per sempre; il suo ministero si è volontariamente limitato “alle pecore perdute della casa d’Israele” (Matteo 15,24). Gesù è pienamente un uomo del suo tempo e del suo ambiente ebraico palestinese del primo secolo, di cui ha condiviso gioie e speranze. Ciò sottolinea, come è stato rivelato nella Bibbia (cfr. Romani 2,3-4; Gal 4,4-5), sia la realtà dell’incarnazione che il significato stesso della storia della salvezza» (Commissione per i rapporti religiosi con l’Ebraismo, 24 giugno 1986).